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Pensieri della mosca con la testa storta, un libro per indagare le origini della coscienza

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L’ultimo libro del neuroscienziato Giorgio Vallortigara, Pensieri della mosca con la testa storta, è un viaggio tra le teorie e gli studi dedicati a indagare la coscienza - partendo dai cervelli minuscoli di api, mosche, limuli e altri invertebrati.

Crediti immagine: Wikimedia Commons

Tempo di lettura: 6 mins

Cervelli minuscoli, con poche manciate di neuroni se confrontati con gli 86 miliardi di neuroni dei cervelli umani, che aprono la strada allo studio di quella che è una delle frontiere più intriganti per le neuroscienze: la coscienza. Cosa ne sappiamo a oggi, e cosa ci possono insegnare al riguardo i cervelli in miniatura di animali come api e mosche? È a queste domande che – senza pretesa di risposta univoca e completa – si dedica l’ultimo libro di Giorgio Vallortigara, Pensieri della mosca con la testa storta (Adelphi, 2021).

Dalle abilità cognitive alla coscienza

Molte delle abilità che ritenevamo uniche dell'essere umano, come la capacità di usare strumenti o di programmare le azioni, si sono nel tempo dimostrate condivise con molte altre specie. Ma se gli esempi più noti riguardano animali come i corvidi o i primati, meno noto è che anche il mondo degli invertebrati offre esempi che possono apparirci sorprendenti: è il caso delle api in grado di riconoscere i volti umani o distinguere tra un quadro di Monet e uno di Picasso. E, poiché i loro cervelli sono molto più piccoli di quelli dei mammiferi, questo fa sì che siano anche particolarmente utili per lo studio di queste abilità. Come Vallortigara spiega in una recente intervista sul sito di Research4Life, però, le abilità cognitive e la coscienza, intesa come capacità di avere esperienze, di essere senziente, non sono la stessa cosa: «Dimostrare che una certa specie sia in grado di fare qualcosa di cognitivamente complesso (come risolvere un problema o programmare un’azione) non ci dice nulla del fatto che abbia una coscienza e consapevolezza di sé». Uno dei molti aspetti che rende interessante e importante, in termini etici, indagare la coscienza degli animali non umani è per esempio quello della sperimentazione animale. Infatti, come spiega l’approfondimento di Research4Life, la direttiva europea che ne garantisce la tutela riconoscendone la capacità di provare dolore e sofferenza riguarda i vertebrati, lasciando invece esclusi gli invertebrati (con l’esclusione dei cefalopodi).

Ma, anche tenendo in conto la distinzione tra abilità cognitive e coscienza, rimane la domanda: se per alcune abilità cognitive minime è sufficiente una manciata di neuroni, si può dire lo stesso anche del fenomeno della coscienza? Nello studio di questo ancora misterioso processo sono state proposte diverse teorie che chiamano in causa dimensione del cervello, numero di neuroni, organizzazione cerebrale… Pensieri della mosca con la testa storta le affronta tutte, e da ciascuna si discosta. Per esempio, parlando di dimensioni del cervello, Vallortigara cita il caso dei cetacei: per alcuni delfini, si è parlato molto del loro grande cervello; eppure, andando a guardare le diverse specie di cetacei, si osservano dimensioni variabili, così come è variabile il rapporto tra il peso relativo del cervello quando confrontato con specie di simili dimensioni. Infatti, come suggeriscono i risultati del lavoro condotto da Paul Manger, neuroanatomico dell’Università di Witwatersrand (Johannesburg), la dimensione potrebbe essere correlata alla temperatura delle acque dove vivono le diverse specie, più che a particolari abilità cognitive: nei cervelli più voluminosi non vi sono più neuroni, che risultano invece abbastanza dispersi, bensì più cellule gliali, che contribuiscono al controllo termico del tessuto, e i cetacei con i cervelli più voluminosi sono proprio quelli che vivono nei mari più freddi.

E cosa possiamo dire del numero di neuroni? Come riporta Vallortigara, il confronto tra il numero dei neuroni delle diverse specie varia in modo differente: per esempio, nei roditori il volume del cervello aumenta più dei neuroni contenuti (per cui una specie di taglia piccola può contenere più neuroni di una specie di dimensioni maggiori), mentre nei primati i neuroni aumentano allo stesso tasso con cui si accrescono i cervelli. Altri animali mostrano densità maggiori di neuroni: pappagalli e corvi, scrive il neuroscienzato, hanno circa il doppio dei neuroni di scimmie di simile peso, soprattutto nella regione cerebrale che corrisponde alla corteccia dei mammiferi, solo che sono più strettamente impacchettati – un aspetto che potrebbe facilitare la comunicazione cellulare, per esempio durante un compito cognitivo, perché in questo modo i neuroni si trovano più vicini tra loro.

Una mosca protagonista

La teoria che sposa Vallortigara è dunque che caratteristiche come il nostro "surplus" di neuroni siano legate ai “magazzini di memoria” e all’attesa di vita, due elementi tra loro collegati. E,

Se tutto ciò è vero, vengono meno i motivi per ritenere che i fondamenti della vita mentale siano connessi a una soglia critica di grandezza o di complessità del sistema nervoso. Al contrario, dovrebbe essere possibile enucleare questi fondamenti con più facilità là dove le strutture nervose si presentino in uno stato essenziale, così come deve essere accaduto con i primi animali, per cercare di capire la comparsa di creature senzienti

Dove possiamo trovare questo stato essenziale? Negli invertebrati, appunto... In una mosca, per esempio, come quella che dà il titolo al libro. La mosca con la testa storta è un’Eristalis tenax o mosca drone, caratterizzata dalla livrea che ricorda quella di una vespa. Nel 1950, questa mosca è stata impiegata in un esperimento, condotto da Erich von Holst (collaboratore del più famoso Konrad Lorenz), nel quale le veniva ruotata la testa di 180 gradi, un'operazione permessa dal suo collo molto flessibile, cosicché l’occhio sinistro e il destro si trovano in posizioni invertite. L’idea era di studiare l’afferenza sensoriale, cioè gli impulsi che gli organi di senso mandano al sistema nervoso, e l’efferenza motoria (gli impulsi inviati dal sistema nervoso alla periferia). In particolare, von Holst aveva intuito che, quando si muove, l’organismo deve essere in grado di tenere in conto gli stimoli prodotti dal movimento stesso. In altre parole, quando ci muoviamo sentiamo, percepiamo in modo diverso da quando siamo fermi ed è qualcosa di diverso da noi a muoversi. Questo, per fare un esempio, spiegherebbe come mai un verme si ritrae e si avvolge su sé stesso se lo tocchiamo con un dito o un bastoncino, mentre non mette in atto lo stesso meccanismo difensivo quando a toccarlo sono le particelle di terra, i sassolini, le radici che lo toccano sul corpo quando si muove.

La mosca con la testa dritta, posta in un particolare cilindro a strisce bianche e nere in movimento, si muove nella stessa direzione per stabilizzare il proprio campo visivo. La mosca con la testa storta, invece, inizia a ruotare su sé stessa in piccoli cerchi per poi immobilizzarsi. Questo perché vi è un processo a retroazione positiva a causa del quale più la mosca ruota su sé stessa, più aumenta la differenza tra l’atteso e il percepito. La capacità di discriminare ciò che “avviene fuori” da ciò che viene prodotto dal soggetto, e che questo possa essere la base della distinzione tra sé e non sé, secondo il ricercatore, avrebbe origine nella capacità di muoversi degli animali. Come scrive Vallortigara,

Il mio argomento è semplicemente che prima dell’evoluzione del circuito di reafferenza il tocco di un oggetto sulla superficie del corpo produceva solo la reazione corporea, e che soltanto con l’invenzione della copia efferente, resa necessaria dalla locomozione attiva, le sensazioni hanno iniziato a “sentirsi”

Certo, come anticipato, Pensieri della mosca con la testa storta non offre una spiegazione univoca sul processo della coscienza ma anzi sembra far nascere più domande di quante siano le risposte che offre. D’altronde, della coscienza sappiamo ancora relativamente poco e, come avverte lo stesso Vallortigara nelle prime pagine del volume, “da qualche parte bisogna pur cominciare”. E farlo, come fa il libro, partendo dal cercare di capire quali siano le condizioni minime e necessarie per l’apparizione della coscienza, è un compito non banale e affascinante da leggere, nonché una buona base di partenza.

 


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