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Perché così non se ne esce

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Le grandi infrastrutture di trasporto, soprattutto quelle ferroviarie, non sono oggetti “magici” che automaticamente, una volta realizzate, si riempiono di traffico e portano sviluppo. Perché questo accada, bisogna che si verifichino molte condizioni: il collegamento deve rispondere ad esigenze reali di mobilità passeggeri o merci, ma anche inserirsi in modo corretto nelle reti preesistenti, rapportandosi a una cornice di regole e rapporti economici che gli consenta di svolgere la sua funzione. Altrimenti, anche le opere migliori e tecnicamente avanzate rischiano il sottoutilizzo, che significa mancati benefici a fronte dei costi, spesso ingenti, richiesti dalla loro costruzione. In breve, spreco di risorse pubbliche.

Non si tratta di riflessioni teoriche: il paese è ricco di situazioni come questa. La nuova linea del Tarvisio, che collega l’Italia all’Austria quasi interamente in galleria, sostituendo la vecchia ferrovia a singolo binario, non ha portato ad alcun significativo incremento di traffico. La linea ad alta velocità Torino-Milano, realizzata sostenendo costi elevatissimi che venivano giustificati prevedendo un traffico di 300 treni/giorno, è oggi utilizzata per il 10% della sua capacità; e lo stesso TGV francese (il TGV!) è costretto tuttora a servirsi del collegamento storico, esistente da metà Ottocento. L’attuale situazione economica torinese consiglierebbe forse qualche riflessione a tutti coloro che presentavano la linea AV come essenziale, e quasi salvifica, per lo sviluppo della città.

D’altro canto, anche coloro che si affrettano a dichiarare l’inutilità di ogni opera, grande o piccola che sia, peccano spesso di schematismo. Infatti, molte delle condizioni che assicurano la funzionalità dei nuovi collegamenti non sono dati di natura, definiti una volta per tutte e invariabili nel tempo. I flussi di passeggeri e merci che li utilizzeranno possono variare in rapporto alle scelte fatte su collegamenti alternativi; le connessioni alle reti preesistenti possono essere realizzate con modalità diverse (e non è detto che le soluzioni tecnologicamente più avanzate siano anche le migliori dal punto di vista delle necessità di traffico); le regole di funzionamento e di accesso possono essere riviste. Ne consegue che la stessa infrastruttura, collocata entro diverse cornici di scelte generali, può generare effetti molto differenti.

Prendiamo il caso del nuovo tunnel del Gottardo: lì la Confederazione Svizzera persegue già da molto tempo una politica di trasferimento delle merci dalla strada alla rotaia, che si concretizza in un pacchetto di misure, tra loro complementari. Da un lato, si sono alzate le tasse di transito per gli autocarri; dall’altro, si sono riformate le ferrovie, consentendo loro di produrre servizi competitivi e anche di uscire dal paese in cerca di clienti. Come risultato, il traffico ferroviario è in crescita già da anni, utilizzando la linea esistente, di impianto ottocentesco, ormai vicina alla saturazione. Ciò non soltanto rende a un certo punto necessario il nuovo tunnel, ma ne prepara anche le condizioni di miglior funzionamento futuro.

In Valle di Susa, il conclamato sottoutilizzo della linea dipende da una pluralità di circostanze. Da un lato, la domanda è certamente meno intensa e dinamica di quella diretta verso la Germania, ed è stata frenata dai lavori (protrattisi troppo a lungo) di adeguamento del tunnel storico. Dall’altro, mancano chiare azioni di disincentivo del trasporto stradale e i servizi ferroviari sono inefficienti: per fare solo gli esempi più chiari, mancano locomotori moderni, e l’accesso all’infrastruttura e ai terminali è ancora di fatto precluso alle imprese ferroviarie più dinamiche.

Si può discutere a lungo sull’opportunità di politiche come quelle svizzere. Ma si può essere tranquilli sul fatto che, in assenza di interventi di quel genere, il traffico ferroviario faticherà molto a riprendersi anche in presenza della nuova linea: molti dei vincoli indicati, infatti, continueranno a persistere, limitando fortemente i benefici conseguenti a un investimento così costoso.

Ecco perché l’Osservatorio Torino-Lione, ormai tre anni fa, ha convenuto sulla necessità di adottare, in tempi anche molto brevi, un insieme di misure finalizzate a migliorare l’utilizzo della linea esistente. Molte di queste misure non riguardano le infrastrutture, e presentano costi modestissimi se non nulli: per esempio, si tratterebbe semplicemente di autorizzare imprese diverse da Trenitalia a utilizzare l’enorme scalo di Orbassano, ormai quasi deserto. Non si tratta, è bene sottolinearlo, di “compensazioni” o di “politiche di sviluppo” offerte al territorio, ma delle condizioni per il corretto funzionamento del corridoio, sia esso formato dalla sola linea storica o da tratte di nuova costruzione. La considerazione era che tali misure, oltre a risultare opportune di per se stesse, avrebbero potuto rappresentare un fondamentale elemento di supporto alla credibilità delle politiche di riequilibrio strada/ferrovia promosse dall’Europa, e poste alla base della volontà di realizzare la nuova linea. Fra parentesi, questo modo di procedere è del tutto consono alle strategie di sviluppo adottate negli altri corridoi transeuropei, incluso quello che attraversa il Piemonte da Nord a Sud, senza che nessuno si sia mai sognato di richiedere una completa duplicazione delle infrastrutture esistenti.

Nel corso degli ultimi tre anni, però, quasi nulla è stato fatto, e tutte le attenzioni si sono rivolte alla progettazione della nuova linea, che nel migliore dei casi sarà pronta tra 15-20 anni, quando - di questo passo - il trasporto ferroviario Italia-Francia sarà praticamente defunto. Certo, l’adozione di molte misure richiede il superamento di posizioni acquisite nella gestione e nella regolazione delle reti, e in quanto tale incontra prevedibili resistenze di multiforme natura. Ma non è questo uno dei più urgenti obiettivi di modernizzazione del paese?

Ecco perché le recenti dichiarazioni del Presidente del Consiglio, a sostegno della necessità di procedere senza interruzioni nella realizzazione della “TAV”, che genererà (ma solo intorno al 2030) “vantaggi importanti” garantendo “un aggancio all’Europa che deve essere in primo luogo un aggancio fisico attraverso delle infrastrutture di collegamento”, sono deludenti. Nessuno mette in dubbio la necessità che lo Stato contrasti la violenza e assicuri l’ordine pubblico; né che difenda la credibilità internazionale del paese mantenendo gli impegni presi. Ma una lettura così selettiva, questa sì “ottocentesca”, dei risultati ottenuti dall’Osservatorio, visti solo come “via libera” all’apertura di un cantiere per forare la montagna, rischia di accentuare ulteriormente gli enormi problemi di credibilità accumulati dal paese in termini di governo del sistema di trasporto nazionale, e di suo inserimento nelle reti europee.

 

Nota: Andrea Debernardi, ingegnere, rappresenta il Comune di Sant’Antonino di Susa presso l’Osservatorio Torino-Lione


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