fbpx Perché ridiamo: capire la risata tra neuroscienze ed etologia | Scienza in rete

Perché ridiamo: capire la risata tra neuroscienze ed etologia

leone marino che si rotola

La risata ha origini antiche e un ruolo complesso, che il neuroscienziato Fausto Caruana e l’etologa Elisabetta Palagi esplorano, tra studi ed esperimenti, nel loro saggio Perché ridiamo. Alle origini del cervello sociale. Per formulare una teoria che, facendo chiarezza sugli errori di partenza dei tentativi passati di spiegare il riso, lo vede al centro della socialità, nostra e di altre specie

Tempo di lettura: 4 mins

Ridere è un comportamento che mettiamo in atto ogni giorno, siano risate “di pancia” o sorrisi più o meno lievi. È anche un comportamento che ne ha attirato, di interesse: da parte di psicologi, linguisti, filosofi, antropologi, tutti a interrogarsi sul ruolo e sulle origini della risata. Ma, avvertono il neuroscienziato Fausto Caruana e l’etologa Elisabetta Palagi fin dalle prime pagine del loro libro, Perché ridiamo. Alle origini del cervello sociale (il Mulino, 2024):

Per secoli e secoli sulla risata sono circolate due assunzioni che a questo punto, però, pensiamo siano totalmente bloccate e hanno bloccato la strada a ogni progresso.

Queste assunzioni sono la stretta connessione della risata allo humor e il suo essere peculiare e unica dell’essere umano. Cosa succede se vengono meno? Succede che dobbiamo rivedere le nostre teorie sul riso, che sono storicamente tre. Molto in breve si possono riassumere così: ridiamo per senso di superiorità (può sembrare cinico, ma è una teoria sostenuta da personaggi del calibro di Platone e Hobbes), per l’aspettativa violata o una sorta di operazione di debug cerebrale, oppure per il sollievo, come un rilascio di energia dopo un momento di tensione. Ciascuna di queste teorie ha dei punti di forza, ma non è difficile – anche leggendone descrizioni più accurate e approfondite – coglierne anche diversi punti di debolezza; certo lasciano fuori molto di ciò che porta a parecchie delle nostre risate quotidiane. Tutte e tre, inoltre, si basano di fatto su quelli che sono gli antecedenti cognitivi della risata: in altre parole, lo humor. E ignorano invece che, come è accaduto a diversi altri comportamenti e abilità (usare gli utensili, programmare le azioni, la presenza cultura e senso morale…), anche la risata non può più essere considerata prerogativa umana.

Ridono, a modo loro, gli altri primati, le iene, i cani, i ratti, i leoni marini e molte altre specie. «Nelle diverse specie di animali la risata può esprimersi attraverso molteplici varianti che si esplicano con una serie di attivazioni muscolari aggiuntive», scrivono gli autori. Ridono per segnalare le proprie intenzioni pacifiche e mitigare il rischio di conflitti, ma anche per il gusto e il piacere che provano per alcune azioni:

Femmine di bonobo che si lanciano nel vuoto a occhi chiusi o con la testa coperta da un lenzuolo attraverso cui è chiaramente visibile la loro bocca spalancata sono un esempio di come anche giocare da soli da soli con capriole o salti acrobatici possa essere altamente remunerativo, e quindi in grado di provocare un’emozione positiva nel soggetto. Chi non ha mai riso andando a tutto gas su un’altalena o un autoscontro!

Nel corso del tempo, soprattutto a partire dal XX secolo, mentre l’etologia iniziava a evidenziare le falle di una natura unicamente umana della risata, le neuroscienze si stavano sviluppando a sufficienza per indagarne le basi neurali. Lavoro tutt’altro che semplice, dal momento che, per citare lo psicologo e neurologo Robert Provine, una delle principali figure di riferimento per lo studio della risata, è difficile ridere quando si è (virtualmente) messi su un vetrino e sotto la lente d’ingrandimento. Comunque, è proprio questo campo di studio ad aver individuato le strutture più strettamente correlate al riso, tra le quali la corteccia cingolata anteriore svolge il ruolo del direttore d’orchestra, coordinando altre strutture responsabili degli aspetti espressivi (per esempio le contrazioni della muscolatura facciale e la vocalizzazione) sia quelli soggettivi (per esempio il rilascio di oppiodi endogeni e dopamina). Non solo: la corteccia cingolata anteriore modula anche l’attività di aree legate alla sfera delle emozioni negative e al controllo del linguaggio. È questa caratteristica che può spiegare come la risata riesca sia a influenzare stati d’animo come la tristezza o la rabbia, sia a inserirsi nelle funzioni sociali.

È così che, attraverso una lunga serie di dati sperimentali, Caruana e Palagi guidano chi legge verso la loro teoria del riso, raccogliendo le fila di anni di ricerche e unendo le neuroscienze con gli studi sul comportamento animale per rispondere alla grande domanda: perché ridiamo? (E a questo punto: e perché ridono gli altri animali?) Dal punto di vista evolutivo, quali sono le origini di questo comportamento?

Quello del riso, rispondono Caruana e Palagi, è «un comportamento animale complesso che assolve ancestrali funzioni sociali – stringere legami, promuovere il gioco e le interazioni cooperative, diminuire la tensione – che condividiamo con molte altre specie animali. Abbiamo battezzato questo approccio “teoria dell’interazione sociale”». Una teoria con antecedenti illustri, a partire da qualche suggerimento (non formulato come teoria) dello stesso Darwin.

Insomma, la risata si rivela invece un comportamento antichissimo, universale contagioso, ed elemento fondamentale di ciò che ha permesso il successo di tante specie, compresa la nostra: la socialità. Con buona pace tanto di Jorge da Burgos, il personaggio che ne Il nome della rosa arriva a uccidere e a distruggere l’opera perduta di Aristotele perché vi si «ribalta la funzione del riso, lo si eleva ad arte, gli si aprono le porte del mondo dei dotti», quanto della sua nemesi, Guglielmo da Baskerville, che pur rappresentando la personificazione della mente analitica e aperta continuava a considerarlo propria dell’essere umano.

 


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Di latticini, biotecnologie e latte sintetico

La produzione di formaggio è tradizionalmente legata all’allevamento bovino, ma l’uso di batteri geneticamente modificati per produrre caglio ha ridotto in modo significativo la necessità di sacrificare vitelli. Le mucche, però, devono comunque essere ingravidate per la produzione di latte, con conseguente nascita dei vitelli: come si può ovviare? Una risposta è il latte "sintetico" (non propriamente coltivato), che, al di là dei vantaggi etici, ha anche un minor costo ambientale.

Per fare il formaggio ci vuole il latte (e il caglio). Per fare sia il latte che il caglio servono le vacche (e i vitelli). Cioè ci vuole una vitella di razza lattifera, allevata fino a raggiungere l’età riproduttiva, inseminata artificialmente appena possibile con il seme di un toro selezionato e successivamente “forzata”, cioè con periodi brevissimi tra una gravidanza e la successiva e tra una lattazione e l’altra, in modo da produrre più latte possibile per il maggior tempo possibile nell’arco dell’anno.