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Perché la scienza non può dimostrare l’esistenza di Dio

La dimostrazione dell'esistenza di Dio su basi scientifiche e matematiche è un tema che, dopo aver affascinato pensatori come Anselmo e Gödel, torna nel recente libro di Bolloré e Bonnassies. Che però fa un uso della scienza del tutto inadeguato, oltre a cadere nell'errore logico comune a tutti gli argomenti a sostegno del cosiddetto “disegno intelligente”.

Nell'immagine: dettaglio de La creazione di Adamo di Michelangelo. Crediti: Wikimedia Commons. Licenza: pubblico dominio

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La dimostrazione dell'esistenza di Dio su basi razionali è un tema sul quale si sono cimentati giganti del pensiero, da Anselmo d'Aosta a Gödel, passando per Tommaso d'Aquino, Cartesio, Leibniz e Kant. Ma come è ben noto si tratta di argomenti non conclusivi. Non sorprende dunque che periodicamente si torni sopra questo vecchio problema, evidentemente mal posto.

Tra gli ultimi tentativi il libro di Bolloré e Bonnassies [1] sembra godere di un successo particolare. Pubblicato nel 2021, è stato tradotto in italiano nella primavera del 2024 e continuiamo a leggerne lodi senza riserve sulla stampa e sui media digitali. Il sottotitolo invoca «l’alba di una nuova rivoluzione». Ma c’è ancora qualcosa da dire su questo argomento? Ci sono novità dalla scienza in grado di colmare il vuoto dei tentativi precedenti? Benché il libro abbia venduto molto e attratto un certo interesse, non ci pare che ci siano novità reali rispetto ad Anselmo (morto all’inizio del XII secolo). Ci troviamo semmai solo un uso retorico e inappropriato di alcuni risultati scientifici, insieme a un errore logico comune a tutti gli argomenti a sostegno del cosiddetto “disegno intelligente”.

Qualche coordinata

Gli autori del libro sostengono come ormai, basandosi sulla scienza, sia possibile dimostrare in modo inequivocabile l’esistenza di una divinità creatrice. All’estremo opposto dello spettro c’è chi, come Daniel Dennett, afferma senza mezzi termini che la fede religiosa sia una varietà di malattia della mente [2]. A scanso di equivoci e inutili polemiche, non ci sembra che una tra queste due posizioni debba essere corretta. La religione, più in generale la spiritualità, costituisce sicuramente una dimensione importante per qualcuno, ma questo non ha bisogno di avere una base scientifica. Ed è certamente comprensibile che chi le ha a cuore entrambe trovi stimolante la sfida di giustificare la propria fede su base scientifica. Ma non sempre il mescolamento di fede e scienza produce risultati positivi. Un’osservazione dello psichiatra Giovanni Jervis ci sembra illustrare bene il punto generale: «La nostalgia dell’infinito è rispettabile, ma se non riesce a diventare poesia alta subito diventa qualcosa di più basso e banale, ossia sentimentalismo e retorica». [3]

Bolloré e Bonnassies insistono con una retorica tanto consolidata quanto inconcludente: perché esiste un lungo elenco di importanti scienziati credenti, dimostrare l’esistenza di una divinità creatrice su basi scientifiche è del tutto possibile. Inutile dire che da un punto di vista logico questo argomento non ha alcuna rilevanza. Le convinzioni personali di chi ha fatto la storia della scienza non hanno nulla a vedere con la razionalità. La scienza è un’attività umana, nata per diversi motivi e praticata da persone che hanno vissuto immerse nel loro periodo storico. E così, sfogliando gli annali della storia della scienza, troviamo che i grandi scienziati sono distribuiti su tutte le possibili tipologie umane: atei (Laplace), religiosi (Maxwell), bigotti (Cauchy), eretici (Newton), guerrafondai (von Neumann), pacifisti (Richardson), conservatori (Gauss), rivoluzionari (Landau) e, più vicino ai nostri tempi, anche razzisti e sessisti (categorie egregiamente rappresentate da Watson, ma purtroppo non solo).

Non si tratta però dell’unico argomento di Bolloré e Bonnassies che elaborano una linea di ragionamento da loro stessi etichettata come “rivoluzionaria”. Pur concedendo che per quasi cinque secoli si sono accumulate scoperte scientifiche che suggerivano la possibilità di spiegare l’Universo senza la necessità di un Dio creatore, notano che negli ultimi tempi le cose starebbero andando nella direzione opposta. Un ruolo particolare in questo viene assegnato alla scoperta della termodinamica, da cui segue che l’universo si sta degradando dirigendosi verso una morte termica. Questo è a detta loro un cambiamento radicale di prospettiva, da cui discenderebbe l’esistenza di una divinità creatrice. Anche senza entrare in dettagli di storia della fisica, è opportuno inquadrare certi risultati ben noti nel loro contesto storico: la termodinamica non è esattamente una scienza giovane. Nasce all’inizio dell’Ottocento e la sua completa formalizzazione risale alla fine del diciannovesimo secolo. Analogamente il tema della morte termica, che inizia con un fondamentale lavoro di Ludwig Boltzmann del 1872, è stato un tema discusso ampiamente da grandi scienziati, come Kelvin, già a fine Ottocento. La speranza che la termodinamica costituisca un game changer nelle prospettive di dimostrare l’esistenza della divinità creatrice su basi scientifiche sembra dunque mal riposta.

La prova scientifica non è uno strumento adatto alla teologia

Il problema non è limitato alla termodinamica o alle altre aree della ricerca scientifica menzionate da Bolloré e Bonnassies. Si tratta piuttosto del fatto che, per loro natura, la dimostrazione matematica e la prova scientifica non sono strumenti adatti a dimostrare l’esistenza del Dio che avrebbe creato l’oggetto di indagine della scienza stessa.

Ricordiamo innanzitutto che non esiste alcuna dimostrazione matematica o prova scientifica che non muova da qualche ipotesi la cui verità è data scontata. La bontà di una conclusione scientifica dipende quindi da due fattori: la correttezza del ragionamento e la plausibilità di ciò che si dà per scontato, ovvero le ipotesi. Per questo una parte fondamentale del lavoro scientifico riguarda la giustificazione delle ipotesi.

Nella dimostrazione matematica, si danno per scontate le definizioni e le regole di inferenza. Possiamo, per esempio, concludere con certezza che un numero è dispari (B) se sappiamo che non è pari (A), perché sappiamo che tutti i numeri sono pari oppure dispari (A oppure B). Ma perché lo sappiamo? Perché siamo noi a definire cosa significa per un numero essere pari. E per le stesse ragioni sappiamo anche che tutti i numeri sono pari oppure dispari (se ci mettiamo prima d’accordo su cosa sono i numeri). All’ulteriore domanda su cosa giustifichi quello che stiamo dando per scontato, rispondono millenni di matematica, e tutto ciò che con successo si basa su di essa.

Il ragionamento scientifico sperimentale è più complicato perché sulla verità delle premesse c’è sempre un grado di incertezza che qualsiasi prova scientifica trasmette alla propria conclusione. Quindi tra le molte cose che si danno per scontate nella prova scientifica c’è il concetto di certezza pratica, grazie a cui si compie una mossa apparentemente contraddittoria: assumere la veridicità dei dati raccolti pur sapendo che potrebbero non essere del tutto “veri”. Questo rende qualsiasi ragionamento sperimentale un ragionamento probabilistico.

Con queste premesse possiamo chiederci che forma avrebbero una dimostrazione matematica e una prova scientifica dell’esistenza della divinità creatrice, e cosa darebbero per scontato. Spoiler: darebbero per scontata l’esistenza di qualcosa che assomiglia moltissimo alla divinità (creatrice).

Dimostrazioni matematiche

Per quanto riguarda la prima, la fatica ci viene risparmiata dal più grande tra i logici moderni, Kurt Gödel. Nella sua rivisitazione matematica della prova ontologica di Anselmo troviamo una serie di ipotesi molto forti, tra cui una sulla necessità dell’esistenza di certe proprietà che, nel corso della dimostrazione, portano alla conclusione che esistono necessariamente proprietà del “tipo-divino”. Come tutte le conclusioni ottenute per dimostrazione matematica, anche quella di Gödel è persuasiva nella misura in cui lo è la verità delle sue premesse. A questo proposito lasciamo la parola a un altro logico, certamente meno famoso di Gödel ma tra i più brillanti che abbiamo avuto in Italia, Roberto Magari [2]: «In sostanza [...] Gödel deduce correttamente da certi assiomi la sua tesi (anche se bisogna mettersi d’accordo su che cosa possa significare ‘Dio’), ma non ci sono motivi di credere veri gli assiomi più di quanti ce ne siano per accettare direttamente la tesi».

Prove scientifiche

Quali caratteristiche avrebbe invece una prova scientifica dell’esistenza della divinità creatrice? Sediamoci ancora una volta sulle spalle dei giganti. Uno dei primi esempi di test statistico di un’ipotesi scientifica, oggi uno degli strumenti centrali nella cassetta degli attrezzi della metodologia sperimentale, è stato condotto da John Arbuthnot all’inizio del ‘700. Osservando il registro dei battesimi di Londra dal 1629 al 1710 notò che in tutti gli 82 anni erano stati registrati (e quindi, probabilmente, nati) più bambini che bambine. I dati apparivano in aperto conflitto con l’ipotesi che bimbi e bimbe nascessero con uguale probabilità, proprio come se il sesso fosse il risultato del lancio ripetuto (senza memoria) di una moneta equilibrata. Se diamo per scontate queste ipotesi, allora un calcolo elementare ci fa vedere che la probabilità di osservare più maschi che femmine consecutivamente per 82 anni è molto, molto, molto bassa, 1 su 282. Dunque, conclude correttamente Arbuthnot, è ragionevole assumere l’esistenza di uno squilibrio alla nascita che rende (leggermente, sappiamo ora) più probabile un maschio. Fino a qui tutto bene. Ma Arbuthnot va oltre e si chiede il perché di questo sbilanciamento. Trova la risposta in ciò a cui già crede: la provvidenza divina. Questa, immettendo nella comunità più maschi che femmine, consente (tra le altre cose) alle seconde di osservare il sacramento del matrimonio nonostante le ingenti perdite dei primi, che spesso non ritornano dalla guerra.

La negazione del caso

La riflessione di Arbuthnot, pubblicata su Philosophical Transactions della Royal Society - una delle prime riviste scientifiche moderne - contiene un errore logico che, a quattrocento anni di distanza, ritroviamo sostanzialmente immutato nel tipo di argomento creazionista noto come “disegno intelligente”, e che si ritrova in tutto il volume di Bolloré e Bonnassies. Lo schema è questo. Si parte da osservazioni sperimentali, che chiameremo DATI. Si formula un’ipotesi che cattura l’idea che non ci sia alcuna divinità creatrice, cioè che i DATI che osserviamo siano dovuti al CASO. Poi si calcola P(DATI | CASO), cioè la probabilità di osservare i DATI se è vera l’ipotesi del CASO. Supponiamo infine che sia molto piccola, cioè che è estremamente improbabile che le nostre osservazioni siano frutto della pura casualità. Fino a qui tutto bene, come nel caso di Arbuthnot.

Il problema nasce dal passo successivo, cioè nella scelta di un’ipotesi da intrattenere al posto del CASO per la spiegazione dei DATI. Dal punto di vista logico la risposta è semplice: la negazione del CASO. Ma dal punto di vista pratico-scientifico, non è affatto chiaro cosa significhi di preciso. Torniamo ad Arbuthnot. L’ipotesi CASO è tradotta con l’uguale probabilità di M e F. La sua negazione è data dall’infinita scelta di tutte le coppie di numeri reali non negativi diversi da ½ che sommano a 1. Poiché la probabilità prende valori tra 0 e 1, le scelte possibili sono tante quanti sono i punti della retta. In questa infinità troveremo letteralmente di tutto, e quindi anche la divinità creatrice. Ce lo dice una serie di risultati probabilistici fondamentali che rispondono alla domanda se il disordine può essere fonte di regolarità [5-8]. L'idea è che in una successione binaria che soddisfa una certa definizione precisa di “caso” ci sono, per ogni N, tutte le possibili successioni di lunghezza N di 0 e 1. Quindi se trascrivessimo la Divina Commedia, Guerra e Pace e L’Odissea in codice binario, nella successione a un certo punto apparirà la Divina Commedia seguita da Guerra e Pace, poi apparirà L’Odissea seguita dalla Divina Commedia, poi appariranno i versi alternati della Divina Commedia e de L’ Odissea, e così via attraverso il numero astronomico di tutte le combinazioni che possono venire in mente. La successione binaria associata a un numero a caso tra 0 e 1, quasi sicuramente, contiene più materiale della biblioteca di Babele di Borges, la storia del nostro Universo dal Big Bang ai nostri giorni, e anche tutto quello che succederà fino alla morte termica dell’universo.

L’errore di Arbuthnot, che si ritrova negli argomenti creazionisti fino a quello del libro di Bolloré e Bonnassies, è dunque il seguente. Rigettare un’ipotesi come “la vita è dovuta al caso” significa aprire a un’infinità di ipotesi alternative di cui non ha senso pensare che siano tutte scientificamente rilevanti. Tutt’altro. Giova ricordare che nel ragionamento scientifico la plausibilità delle ipotesi discende dalla fitta rete di fatti che a volte viene chiamata “teoria”. E quando questa non è sufficiente a delineare una spiegazione plausibile delle osservazioni, l’atteggiamento scientifico opportuno è quello di continuare con la ricerca scientifica, oppure sospendere il giudizio. Notiamo, per chiudere con Arbuthnot, che a oggi non c’è consenso su cosa spieghi i dati consolidati sul rapporto tra i sessi alla nascita. E forse la spiegazione potrebbe non esserci.

Improbabilità: usare con cautela

Le prove che fanno leva sull’improbabilità delle osservazioni alla luce dell’ipotesi che viene testata con i dati sperimentali sono alla base della costruzione della conoscenza scientifica. Ma vanno applicate con estrema cautela metodologica. Il loro uso inappropriato, termine con cui si copre tutto lo spettro che va da “con leggerezza” a “in modo fraudolento”, è l’oggetto dell’accesa discussione metodologica sulla significatività statistica [9,10]. Una buona regola euristica emerge però chiaramente. Gli argomenti basati sull’improbabilità dell’ipotesi che si vuole confutare sono tanto meno affidabili tanto più ci si allontana da asserzioni appartenenti ad aree quantitative della scienza. Questo è il motivo per cui in molti sistemi legali si dà opportunamente per scontata la cosiddetta presunzione di innocenza. L’onere della prova, cioè, è a carico dell’accusa e non della difesa. Purtroppo, esistono molti esempi in cui questa norma di civiltà è stata contravvenuta portando a condanne basate non sulla ragionevole probabilità di colpevolezza, ma sull’esigua probabilità di innocenza [7,8].

Riferimenti

[1] M-Y Bolloré e O. Bonnassies. Dio. La scienza, le prove. (Ed. Sonda, 2024)
[2] D.C. Dennett. Rompere l’incantesimo (Raffaello Cortina, 2007)
[3] G. Jervis, intervista su Reset, settembre-ottobre 2007, pag.44
[4] Roberto Magari. Logica e teofilia in Kurt Gödel. In: “La prova matematica dell’esistenza di Dio”. 8Bollati Boringhieri Editore, 20069
[5] P. Diaconis and B. Skyrms. Ten Great Ideas About Chance (Princeton University Press, 2018)
[6] C.S. Calude and G. Longo. The deluge of spurious correlations in big data. Foundations of science 22, 595 (2017)
[7] A. Vulpiani. Caso, probabilità e complessità (Ediesse, 2014)
[8] H. Hosni. Probabilità: Come smettere di preoccuparsi e imparare ad amare l’incertezza (Carocci, 2018)
[9] V. Amrhein, S. Greenland, and B. McShane, “Retire statistical significance,” Nature, vol. 567, pp. 305–307, 2019
[10] D. J. Hand, “Trustworthiness of statistical inference,” J. R. Stat. Soc. Ser. A Stat. Soc., vol. 185, no. 1, pp. 329–347, 2022

 

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