L'uomo dall'aria
dimessa guardò attraverso le imposte socchiuse il mare che s'inquietava contro
le scogliere un centinaio di metri più in basso. La conferenza era ormai giunta
al termine, il pubblico applaudiva nell'aria gelida della vasta sala, tra le
colonne, mentre le luci si riaccendevano e il dottor Barrakis riemergeva
dall'ombra presso il grande schermo su cui era impallidita l'ultima
diapositiva.
Dal fondo la guida annunciò che i signori visitatori avevano due
ore di tempo per mangiare e riposarsi prima di ripartire. Tutti si avviarono
verso l'uscita, camminando lentamente sull'impiantito sonoro. Un inserviente
riapriva le imposte delle grandi finestre e spegneva le luci. Il conferenziere
si era tolto il camice bianco e riponeva le diapositive.
L'Osservatorio
astronomico occupava una parte della millenaria Abbazia che si levava sulle
rocce a picco della punta Keras, protesa in mezzo a quel grigio oceano
tempestoso. Quando un gruppo di turisti veniva a visitare l'Abbazia, due o tre
volte l'anno, il dottor Barrakis, direttore dell'Osservatorio, teneva una
conferenza, e ciò costituiva una gradita sorpresa per gli ospiti. Quel giorno
Barrakis aveva parlato per una mezz'ora del sistema solare, proiettando numerose
diapositive.
L'uomo dall'aria
dimessa non era uscito con gli altri. Si avvicinò lentamente all'astronomo. – Mi scusi, – mormorò,
– posso farle una domanda?
Nella luce cruda del
mattino inoltrato il suo viso un po' gonfio aveva un colorito terreo. Barrakis
annuì e si dispose ad ascoltare. A volte, dopo una conferenza, qualcuno gli
chiedeva quante sono le lune di Giove o quanto dista da noi la stella più
vicina. Si appoggiò al bordo del tavolo e guardò meglio l'uomo, che stava
presso una colonna, infagottato in un cappotto grigio. I suoi capelli radi
lasciavano intravvedere un cranio lucido e i suoi occhi vagavano sulle grandi
lastre del pavimento. – Lei ha detto che
Plutone dista dal Sole circa sei miliardi di chilometri... – Barrakis annuì, –
... e che non è mai più vicino alla Terra di quattro miliardi e mezzo di
chilometri.
Barrakis annuì ancora,
aspettando il seguito. Fuori i gabbiani lanciavano i loro gridi rauchi e a
tratti si udiva il rombo della risacca. L'uomo aveva un'aria desolata, ma non
pareva che volesse chiedere altro. Si girò lentamente, come per andarsene, poi
si voltò di nuovo verso l'astronomo e aggiunse in tono dubitativo: – Lei ha detto anche
che l'anno di Plutone dura quanto duecentocinquanta dei nostri. – Più o meno, –
confermò lo studioso.
Lo sconosciuto sollevò
per la prima volta lo sguardo e lo fissò per un attimo negli occhi di Barrakis.
Questi si sentì stranamente turbato, come se dietro qualcosa di piatto e senza
dimensione avesse improvvisamente scoperto un paesaggio complicato e profondo,
che riverberava infinitamente in una fuga di prospettive allucinate e gli
alitava sul viso fredde correnti, come un pozzo smisurato. – Allora, – riprese
l'uomo dall'aria dimessa dopo una pausa in cui sembrava aver condotto un
ragionamento solitario, – se qualcuno nascesse su Plutone, diciamo in
primavera, non conoscerebbe mai la dolcezza dell'autunno.
Barrakis rimase
sconcertato: – Ma nessuno può
nascere su Plutone, e non credo che i suoi autunni siano particolarmente dolci.
Vede, Plutone è più o meno un ammasso di rocce coperte da strati enormi di gas
solidificati, ed è immerso in una notte perenne e in un gelo inimmaginabile.
L'uomo si strinse
nelle spalle, come se avesse freddo sotto il suo informe cappotto grigio.
Teneva lo sguardo sul pavimento e sembrava esitare, come in preda a un dubbio.
Sul suo viso la barba di tre giorni formava chiazze grigiastre. Fuori la luce
si era rappresa in un lattice cagliato e biancastro. Davanti a una delle
finestre un gabbiano si equilibrava contro il vento aprendo le grandi ali,
quasi senza muoversi. Di nuovo l'uomo guardò Barrakis negli occhi. Un paesaggio
di rocce e dirupi, un cielo fosco e rugoso, un convergere desolato di piani
fessurati verso un orizzonte senza tempo... Tutto questo era balenato per un attimo,
Barrakis non sapeva se ai suoi occhi o al suo cuore ancora smarrito per la
tristezza senza fondo di quella visione.
Ma lo sconosciuto
aveva ripreso a parlare a bassa voce, come per conto suo: – Sì, forse è come
dice Lei, Plutone è desolato e inospitale. Ma noi tutti siamo lì, o almeno c'è
un luogo del nostro cuore che si chiama Plutone, e che infinitamente c'invoca
quando ce ne allontaniamo troppo, per farci trovare le tortuose strade che ci
riportano laggiù.
Si era avvicinato a
una delle grandi finestre e si era seduto con le mani in tasca su una panchina
di pietra sotto il davanzale. L'astronomo si avvicinò a sua volta alla finestra
e guardò fuori. Il disco del sole gli parve lontanissimo dietro lo spesso
strato di nubi, e il mare aveva una flaccida consistenza oleosa. I discorsi e
le domande di quell'uomo premevano fastidiosamente su una zona intima del suo
essere e Barrakis capiva che ad essi non poteva rispondere con la puntuale
sicurezza della sua scienza astronomica. Guardò di nuovo il viso terreo dello
sconosciuto. Quale luogo del cuore si chiamava Plutone? Gli si affollavano
dentro domande inquiete e sensazioni sconfortanti, e aspettava che l'altro
parlasse, come se da lui potessero venirgli risposte e sicurezze. – La realtà si
distribuisce su infiniti piani, – disse lentamente l'uomo dall'aria dimessa, e
si volse a guardare le scogliere di Keras, dove sembrava che il mondo finisse.
– Basta procedere sempre diritto, e si possono conoscere tutti quei piani, uno
dopo l'altro... e poi, con un po' di fortuna, si può tornare al punto di
partenza. Lì ci si può finalmente riposare.
Le ultime parole erano
state pronunciate quasi in un sospiro di stanchezza. Barrakis si era seduto di
faccia allo sconosciuto e cercava di concentrarsi, di capire. – Ma a volte accade di
smarrirsi, di vagare in tondo, – continuava l'uomo dall'aria dimessa: la sua
voce era così bassa che l'astronomo doveva protendersi per udirlo. Nel silenzio
rappreso della sala quel bisbiglio si perdeva subito, come cenere fredda che si
sfaldasse. – E se uno si
smarrisce...
L'uomo fece uno strano
rumore con la gola, come un singhiozzo, poi continuò: – Dagli altri piani ci
giungono fioche voci, che ci suscitano vaghe inquietudini, ma non riusciamo a
capirle e così non troviamo il passaggio per tornare laggiù...
L'apprensione penosa
di Barrakis andava crescendo. Egli sentiva che quell'uomo lo stava trascinando
fuori dal terreno che gli era familiare, e non sapeva dove sarebbe finito se
avesse abbandonato le strade conosciute. Cercò di reagire: - Senta, che cos'è
questa faccenda di Plutone e del cuore?
Ancora una volta
l'uomo lo guardò e Barrakis si sentì ondeggiare sopra distese dirupate e
sconvolte a perdita d'occhio verso un orizzonte angoscioso. Sopra di lui, nel
cielo petrigno, splendeva un astro nero e butterato, enorme. Sotto, per
convulsi altipiani, rigagnoli e fiumiciattoli scorrevano faticosamente verso un
mare immobile. Ma per quanto orrore quella visione gli ispirasse, pure c'era in
essa qualcosa d'inesprimibile, come un destino o un richiamo, c'era la
rassicurante certezza che lì potevano aver fine ricerche e fatiche, perché lì
erano cominciate. In un luogo di quel vasto paesaggio che bisognava scoprire si
poteva trovare il riposo e l'impulso lancinante alla vita poteva placarsi e
dolcemente estinguersi in un lieve mormorio.
D'un tratto la visione
sparì e Barrakis si ritrovò sul sedile di pietra, di fronte all'uomo dall'aria
dimessa. Fuori la scogliera si perdeva in lontananza nella foschia. Gli spessi
muri dell'Abbazia sembravano scolpiti direttamente nella roccia. Il sole
puntava verso l'occidente.
L'astronomo si alzò di
scatto e andò verso il centro della sala, tra le colonne. I suoi passi
risonarono sotto le volte. Non ne voleva più sapere di quell'uomo e di quelle
visioni, era frastornato e infastidito. In fin dei conti non erano affari suoi
se colui si era perduto o era pazzo. Si mise a riordinare le diapositive, ma
nell'agitazione la scatola gli sfuggì di mano e il suo contenuto si sparpagliò
sul pavimento.
Al rumore l'uomo dall'aria dimessa sollevò la testa, poi si alzò
e si avvicinò a Barrakis, mettendosi con lui a raccattare le diapositive. – Non si disturbi,
grazie, – disse l'astronomo, - ora se permette me ne debbo andare, ho molto da
fare.
Ma l'uomo gli suggerì
di mettere in ordine le diapositive: – Ora lo può fare
comodamente, proiettandole sullo schermo.
E prese senz'altro la
scatola ormai piena dalle mani di Barrakis, riempì la rastrelliera del
proiettore e l'accese. Benché la luce del giorno scolorisse un po' lo schermo,
Barrakis riconobbe subito il paesaggio dirupato che più volte aveva visto negli
ultimi minuti. Mentre lo studioso
affascinato guardava, lo sconosciuto fece lentamente il giro della sala
chiudendo le imposte, poi tornò al proiettore. – Tutto parte da qui,
– disse in un soffio indicando l'immagine sullo schermo, e Barrakis sentì
un'improvvisa commozione, come se riconoscesse un luogo familiare, da sempre
dimenticato, verso cui convergeva, senza ch'egli lo sapesse, tutta la sua vita.
Da lì giungevano risposte semplici e misteriose a tutte le domande e lì si
doveva trovare la spiegazione di tutto.
Era un mondo
complicato ed essenziale, come ne appaiono in quei sogni che dànno certezze
indiscutibili. La sua stessa desolazione aveva il sapore della verità e della
permanenza. Lì si placavano le ansie e la volontà si estenuava. Quelle
superfici tormentate erano così salde da reggere le colonne del tempo. Uno scatto, e sullo
schermo si vide lo stesso paesaggio, ma da molto più vicino. Quello che prima
era parso a Barrakis un piccolo rigagnolo quasi in secca ora si rivelava un
fiume immenso che scorreva tra lisce pareti rocciose. La sua acqua nera dava
l'impressione di una profondità insondabile e un nodo più intenso di commozione
serrò la gola di Barrakis, mentre lo sconosciuto accanto a lui mormorava: – Questo non se
l'aspettava, vero? Eppure l'ha sempre saputo.
Guardando quel fiume
maestoso imprigionato tra le rocce a picco, Barrakis sentiva un moto di
affettuosa riconoscenza e insieme un desiderio irresistibile di immergersi in
quell'acqua tersa e di lasciarsi trascinare per liquidi cammini ondulati fino a
una liberazione promessa da sempre. Guardando le pareti che sovrastavano la
corrente, scoprì un antro, una caverna altissima sull'acqua.
Uno scatto, e la
caverna occupò con la sua nera imboccatura quasi tutto lo schermo. La roccia su
cui si apriva, grigiastra e screpolata, era di una vecchiezza senza nome. – Tutto passa di qui,
tutto è passato di qui, – disse l'uomo dall'aria dimessa, mentre Barrakis, di fronte
a quel nero misterioso, si sentiva assalire da uno sgomento calmo e apprensivo,
come se stesse per assistere a una rivelazione essenziale. Si rendeva
confusamente conto che quell'antro aveva molteplici significati che
s'incastonavano l'uno nell'altro. Di lì partivano strade divergenti che si
allargavano per tutto, all'esterno e all'interno; quello doveva essere il
passaggio di cui aveva parlato lo sconosciuto e che permetteva di andare da un
piano all'altro della realtà. Ma sullo sfondo nero della spelonca
s'intravvedevano alcune chiazze più chiare, che si addensavano qua e là come le
costellazioni nel cielo terso di una notte invernale.
Un altro scatto e agli
occhi di Barrakis apparve una zona immensa del cielo che per tanti anni aveva
scrutato. Ma l'inquadratura era insolita: ecco le Nubi di Magellano, ecco
Andromeda; ma quel grande ammasso lì a destra che cos'era? – Sì, è la Via Lattea,
– disse lo sconosciuto, – siamo entrati nella caverna, e da qui comincia il
mondo che conosce, anche se quello che conosce davvero è ancora infinitamente
lontano.
L'animo di Barrakis
oscillava tra le dirupate prospettive rocciose di Plutone, essenziali e
definitive, e il rassicurante palpitare del suo cielo di sempre. Se non avesse
appreso che il suo mondo brulicante di stelle si celava tutto in un minuscolo
anfratto scavato in una roccia più antica del tempo, come si sarebbe volentieri
lanciato per gli spazi immensi delle sue esplorazioni, per vedere, capire
infine, commuoversi!
Ma ora, dopo essere
entrato nella caverna altissima su quel fiume più grande di tutto l'Universo,
gli cresceva dentro la nostalgia per quei paesaggi rotti e sconvolti, per
quelle distese solide e immutabili. Ora capiva con tutto sé stesso ciò che
aveva voluto dire lo sconosciuto e ne provava lo stesso desiderio appassionato
e struggente. – Ora su Plutone è
autunno, – diceva sottovoce l'uomo, – e Lei non sa quanto è dolce l'autunno
laggiù. I fiumi sono più gonfi e nel cielo di pietra vaga un barlume di rosa.
Nelle serate lunghissime dalla caverna alta sul fiume giungono le armonie dei
mondi che essa contiene, e siamo tutti lì intorno ad ascoltare, aggrappati alla
roccia. Le voci degli altri universi ci chiamano con dolcezza estenuata e ogni
tanto qualcuno, per una stanchezza ineluttabile, lascia la presa, e viene
risucchiato all'interno, come un sospiro, e saluta coloro che rimangono, a
lungo... Sotto, l'acqua del fiume scorre con un fruscio possente, e la montagna
freme nelle sue radici... – E come si fa a
tornare laggiù? - chiese Barrakis con la voce bassa e arrochita. L'uomo
dall'aria dimessa fece ricomparire sullo schermo quel mondo fosco e screpolato,
steso sotto un astro nero che riverberava bagliori di pietra fino a un
orizzonte lontanissimo. – Non lo so, –
rispose, - è tanto tempo che provo, e non ci riesco...
Rimasero immobili davanti allo schermo, mentre sulla millenaria Abbazia si addensavano le brume della sera. I loro rimpianti si spingevano nel cielo invisibile, oltre le nubi deserte e l'orizzonte, verso un gelido grumo di roccia che roteava in spazi lontanissimi e bui dentro il cuore degli uomini.