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Il progetto ministeriale dei super ospedali non sembra una grande idea

un corridoio di ospedale

Il Ministero della Salute sta valutando un progetto per creare una rete di “super ospedali” nazionali, destinati a potenziare l’assistenza sanitaria soprattutto al Sud. Questi ospedali, con status speciale e finanziamenti statali, avrebbero lo scopo di frenare la mobilità sanitaria e a offrire cure di alta complessità. Il progetto ha contorni ancora vaghi, ma forse la priorità dovrebbe essere la razionalizzazione della rete ospedaliera esistente, piuttosto che la creazione di nuove strutture, per rispondere in modo efficace alle esigenze del Servizio Sanitario Nazionale.

Tempo di lettura: 7 mins

Diversi quotidiani hanno recentemente segnalato un possibile progetto del Ministero della Salute: una rete di “super ospedali”. Lo spunto di partenza del progetto sarebbe un elenco dei venti ospedali che fanno parte della spina dorsale dei maxi poli ospedalieri, riportata lo scorso 24 giugno 2024 da Il Sole 24 Ore Sanità sulla base di una mappa messa a punto dai tecnici del Ministero della Salute e dal suo direttore generale della programmazione Americo Cicchetti. La mappa è stata realizzata utilizzando gli ultimi dati delle schede di dimissione ospedaliera elaborate in base al numero di dimissioni, alla complessità dei casi trattati e all'attrattività per i pazienti in arrivo da altre Regioni. Questa analisi ha evidenziato lo squilibrio nella distribuzione regionale di questi venti ospedali, gran parte dei quali concentrati al Nord (10) e al Centro (8) con due soli ospedali del Sud. Di qui l’idea di identificare una rete di super ospedali che dovrebbero arricchire l’offerta di assistenza per chi vive nelle regioni del Sud.

Le maggiori informazioni su questo progetto ancora informale arrivano da un articolo comparso su la Stampa, che lascia intendere che:

  • il ministero della Salute sta lavorando a un decreto che prevederà una rete di (si parla di una decina) di super ospedali, collocati anche al Sud, definiti come «ospedali nazionali di riferimento»;
  • questi ospedali acquisirebbero uno status speciale e riceverebbero finanziamenti garantiti dallo Stato centrale e non più solo dalle Regioni, con la possibilità, anche per le amministrazioni in piano di rientro dal deficit, di agire più liberamente su assunzioni e acquisto di tecnologie avanzate;
  • lo scopo della rete sarebbe garantire un elevato livello di cure nei campi più importanti, come quelli della cardiochirurgia, della neurochirurgia e dell’oncologia pediatrica;
  • oltre agli ospedali pubblici la rete comprenderebbe anche quelli privati convenzionati;
  • la rete di questi ospedali servirebbe a frenare la mobilità sanitaria e a potenziare le reti ospedaliere delle regioni del Sud creando dei grandi hub di riferimento per gli altri nosocomi;
  • si utilizzerebbero per gli interventi strutturali i fondi non ancora spesi di quelli stanziati a suo tempo per l’edilizia sanitaria.

Quanto ai nomi degli ospedali che entrerebbero a far parte della rete, l’articolo de la Stampa fa i seguenti: al Sud la Casa del Sollievo, il Policlinico di Bari e il Federico II di Napoli, a Roma i policlinici Gemelli e Umberto I; al Centro l’Azienda Ospedaliera Universitaria di Pisa; al Nord ci sarebbero i tre ospedali milanesi Galeazzi, Humanitas e San Raffaele, più il Policlinico Sant’Orsola di Bologna e l’Azienda Ospedaliero-Universitaria di Verona.

L’offerta ospedaliera oggi

Che dire di questo progetto, annunciato come imminente ma dai contorni ancora molto vaghi? Cerchiamo di sviluppare un ragionamento, nei limiti del possibile, su questa rete di super ospedali. Si tratta infatti di un'occasione utile per riflettere sullo stato e sul futuro della assistenza ospedaliera in Italia. Le domande cui cercherò di rispondere sono due: ha senso prevedere una categoria di ospedali di riferimento nazionale cui riconoscere uno status speciale? E: la previsione di alcuni nuovi ospedali di questo tipo nelle Regioni del Sud potrebbe frenare la mobilità passiva, cioè la tendenza degli abitanti a spostarsi altrove per farsi curare?

La risposta a queste domande richiede di descrivere prima un quadro di riferimento sullo stato della assistenza ospedaliera in Italia, in termini sia di regole sia di struttura dell’offerta - e ancor prima di darsi una chiave di lettura di questo quadro.

La mia personale chiave di lettura è ricavabile da due miei precedenti interventi su Scienza in rete a proposito della favola del taglio dei posti letto e degli ospedali in Italia e della sostenibilità ambientale degli ospedali, che meno sono e meglio è. In estrema sintesi, a mio parere la struttura della offerta ospedaliera a livello regionale deve prevedere una concentrazione delle strutture ad alta complessità che si occupano di patologie severe e acute (strutture dotate quindi di un Dipartimento di Emergenza e Accettazione, DEA) e una distribuzione più capillare di strutture a bassa complessità che si occupano prevalentemente di patologie croniche a carico soprattutto della popolazione anziana. Il collante di questa rete deve essere un adeguato sistema dell’emergenza territoriale che garantisca in tempi utili il trasporto dei pazienti agli ospedali per acuti ad alta complessità. Questo deve funzionare in modo integrato attraverso un modello a rete per la gestione sia delle condizioni tempo-dipendenti (ictus, infarto e traumi gravi) che per altre condizioni come il percorso nascita e le patologie oncologiche. In questo assetto il privato dovrebbe inserirsi in modo organico in una logica di integrazione e non di concorrenza.

Tutto questo era previsto nel Decreto Ministeriale (DM) 70 del 2015, che prevedeva tra le varie tipologie di ospedali anche quelli di maggiore complessità, definiti di secondo livello. Purtroppo questo Decreto è stato poco applicato e soprattutto in maniera disomogenea, il che ha portato alla attuale situazione in cui nella grande maggioranza delle Regioni le reti ospedaliere pubbliche sono ridondanti e disperse, con il mantenimento di piccoli ospedali che sarebbero da riconvertire a strutture della post-acuzie e soprattutto con il mantenimento di troppe strutture per acuti a bassa efficienza e alto assorbimento di risorse, perché dotate di DEA.

In questo panorama dell’offerta, nella grande maggioranza delle Regioni il privato si è ricavato una comoda e crescente nicchia di mercato, costituito prevalentemente dalla attività chirurgica programmata che le strutture pubbliche non riescono a svolgere. In alcune Regioni del Sud la struttura dell’offerta è contemporaneamente ridondante nella bassa complessità e carente nella alta, con i conseguenti flussi imponenti di mobilità verso il Centro-Nord.

Gli effetti di una politica riluttante

Questa situazione dipende dall'enorme riluttanza della politica ad affrontare con coraggio la scelta di sottrarre peso e inefficienza alla componente ospedaliera e dallo storico squilibrio, mai sanato e purtroppo mai affrontato, tra l'offerta ospedaliera delle Regioni del Sud e quella delle Regioni del Nord, che si traduce in quel dato del 2023 di quasi 3 milioni di euro di mobilità passiva per i ricoveri, di cui gran parte a svantaggio delle Regioni del Sud e a vantaggio di quelle del Nord. Questi dati sono recuperabili dal Portale Statistico dell’Agenas (Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali) e sono ben sintetizzati in questo commento ai dati Agenas.

La riluttanza a intervenire con interventi di razionalizzazione sulla offerta ospedaliera è bipartisan (come si usa dire) visto che il ministro della Salute Speranza bloccò l’adeguamento del DM 70 che era uscito in bozza nell’ottobre del 2021 e che l’attuale ministro Schillaci sulla revisione dello stesso DM ha istituito un anno e mezzo fa una pletorica Commissione che deve ancora produrre un documento ufficiale (che sia quello con i super ospedali?).

È utile, dunque, prevedere una nuova tipologia di ospedali, gli ospedali di riferimento nazionale, cui riconoscere uno status speciale? La risposta è no, o comunque non è questa la priorità. Il DM 70 già prevede ospedali di alta complessità di secondo livello e la possibilità che per alcune tipologie di attività particolarmente complesse con bacini di utenza sovraregionale le Regioni interessate si possano accordare per identificare una struttura di riferimento comune. In termini di assistenza ospedaliera, la priorità è piuttosto rivedere regole e modalità di gestione della base della “piramide” ospedaliera, fatta dagli ospedali di base, di area disagiata e di primo livello che soffrono di duplicazioni e dispersione. Se le Regioni che già li hanno vogliono (e debbono volerlo) far funzionare meglio i grandi ospedali, devono trovare loro le risorse nella rete razionalizzata degli altri ospedali.

Scarsi o nulli effetti sui viaggi per curarsi

La previsione di alcuni super ospedali, magari anche nuovi, nelle Regioni del Sud potrebbe frenare la mobilità passiva? La risposta è di nuovo negativa, a meno che la loro previsione e realizzazione non stia in un progetto di più ampio respiro che coinvolga tutta la rete ospedaliera delle Regioni interessate e anche indirettamente quella delle Regioni del Nord più attrattive. Infatti, la mobilità passiva di queste Regioni è solo in parte legata ai ricoveri di alta complessità. Il maggior numero di ricoveri che “fuggono” è di bassa media e complessità e anche in termini economici pesano complessivamente di più di quelli di alta complessità (il portale statistico dell’Agenas lo evidenzia con chiarezza).

Inoltre, un progetto di sviluppo di grandi ospedali al Sud non è tanto di carattere edilizio e di adeguamento tecnologico, quanto di capacità di attrarre risorse umane e quindi competenze, magari sostituendo al treno dei bambini che vanno al Nord l’aereo dei professionisti che tornano al Sud.

Infine occorre ricordare che al potenziamento delle reti ospedaliere del Sud deve corrispondere un depotenziamento di quelle, specie private, del Nord.

Per ora nulla di tutto ciò è previsto nell’annunciato progetto dei nuovi super ospedali.

In cauda venenum. La proposta nasce in un contesto in cui il ministro della Salute è un professore ordinario di Medicina nucleare dell’Università Tor Vergata di Roma e il direttore della Programmazione del ministero della Salute è un professore ordinario di Organizzazione aziendale alla facoltà di Economia dell’Università Cattolica nel campus di Roma. Posso dire che questo forse spiega il progetto, che tradisce molto un’ottica centrale e universitaria e poco una visione di sanità pubblica sul ruolo della assistenza ospedaliera all’interno del Servizio Sanitario Nazionale?

 

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