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Pubblicare in medicina: un libro sui problemi (e le possibili soluzioni) dell'editoria scientifica

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Un’industria ipertrofica cresciuta a spese dei meccanismi di produzione culturale della scienza. Un’industria dai profitti enormi e senza margini di rischio, capace di farsi credere indispensabile da chi la ingrassa credendo di non avere alternative. Il libro di Luca De Fiore, documentatissimo e spietato, procede per quattordici capitoli così, con un’analisi di rara lucidità sui meccanismi del, come recita lo stesso titolo, Sul pubblicare in medicina. Con il quindicesimo capitolo si rialza la testa e si intravede qualche possibile via d’uscita. Non facile, ma meritevole di essere considerata con attenzione soprattutto da chi, come ricercatore, passa la vita a “pubblicare in medicina”, o a cercare di.

A spanne il problema lo conosciamo tutti. Per fare carriera, un ricercatore ha bisogno di pubblicazioni. Le pubblicazioni, per definizione, devono essere pubblicate, e a pubblicarle sono le riviste scientifiche. Ma siccome, dicevamo, il ricercatore ha bisogno di pubblicare, i suoi articoli li regala alla rivista, anzi li manda speranzoso di vederli in pagina. Quindi scrive contenuti GRATIS, a differenza di quello che avviene in qualsiasi altro settore dell’editoria, dove gli autori sono pagati per scrivere e gli editori guadagnano dalla differenza tra i ricavi della vendita del giornale e i costi per la sua produzione, comprensivi dei compensi per chi scrive.

Nel caso delle pubblicazioni scientifiche non sono pagati nemmeno i reviewer, cioè i revisori che decidono se e come aggiustare gli articoli che andranno in pagina. La stima è che per gli editori privati si tratti di circa centotrenta milioni di ore di lavoro non retribuito, regalato loro soprattutto dai ricercatori pubblici. Quindi da ricercatori retribuiti dalla fiscalità generale, le nostre tasse. È un’anomalia non solo in confronto al resto del mercato editoriale. Come dice Richard Smith nella presentazione del libro Sul pubblicare in medicina, di Luca De Fiore (Il Pensiero Scientifico, 2023) gli editori delle riviste scientifiche sono aziende petrolifere che non devono fare la fatica di scavare buche: c’è qualcun altro che regala loro la benzina. Loro poi la rivendono a prezzi altissimi, per di più agli stessi che gliel’hanno regalata. Vi sembra normale?

Alla comunità scientifica no. Perciò sono anni che cerca di inventare scappatoie. Spoiler: finora, nessuna ha funzionato. Così abbiamo i numeri da capogiro che Luca De Fiore, direttore generale de Il Pensiero Scientifico Editore, ma anche saggista e grande esperto dei meccanismi della medicina, elenca sin dalle prime pagine. Più di cinque milioni di articoli scientifici pubblicati ogni anno e trentaseimila riviste scientifiche indicizzate, per un’industria da trenta miliardi di dollari annui. Cioè circa il 5% dell’intero mercato editoriale internazionale.

Sono numeri in crescita e la situazione è in rapido movimento, perché intanto sono arrivate l’ambiguità del (per il resto benemerito) open access, le frodi sono cresciute (o finalmente abbiamo imparato a vederle), sono arrivati persino i truffatori veri e propri. Non solo. La digitalizzazione ha permesso la superfetazione delle testate tematiche e regionali dei grandi giornali. E la pandemia ha cambiato ancora più rapidamente le cose: si calcola che nel novembre 2020 sia stato pubblicato un articolo medico ogni tre minuti, e i preprint depositati presso gli appositi server, nati per accorciare i tempi tra la ricerca e la pubblicazione dei suoi risultati, hanno superato i mille al mese. Intanto il costo per l’opzione open access di un singolo articolo su Nature toccava i diecimila dollari.

Ma se a spanne, dicevamo, il problema lo conosciamo tutti, questi dettagli di certo no. Ed è meritoria l’operazione di De Fiore di mettere finalmente tutto in fila, in un ragionamento rigoroso, denso di testimonianze, ben documentato, e anche (beh, non è scontato) di facile lettura.

Dunque, chi di noi saprebbe dire il nome dell’azienda più grande del settore? Eccola: si chiama Relx, è nata dalla fusione tra Reed International ed Elsevier, registra una crescita del 9% annuo, e non fa solo riviste scientifiche: offre anche servizi di consulenza alle aziende farmaceutiche e si occupa di raccolta di finanziamenti per la ricerca. Insieme a lei, a costituire il 50% del mercato globale dell’editoria scientifica e tecnica, Wiley, Taylor & Francis, Springer Nature e Sage. È a loro che i ricercatori di tutto il mondo regalano la benzina, per poi ricomprarla a caro prezzo.

Ma è tutto il sistema delle pubblicazioni che fa acqua. Proseguiamo coi dettagli. L’87% degli articoli più citati pubblicati dalle riviste indicizzate contiene la firma di un autore superprolifico: sono sempre loro, l’1% di tutto il pool mondiale dei ricercatori (quasi tutti maschi) che riesce a essere così furbo da mettere il proprio nome sotto la maggioranza dei paper pubblicati. Molti gli italiani, e non è un motivo di vanto nazionale. Altro esempio: l’Impact Factor, nato ormai sessant’anni fa per misurare l’impatto di una rivista calcolando quanto vengano citati i suoi articoli, è un indice ingestibile perché sale anche grazie ad articoli ritirati, ad articoli fallati ma ancora citati. E insieme all’h index, che dovrebbe misurare la produttività del singolo ricercatore, è all’origine del deprecabile fenomeno dell’autocitazione (scrivo articoli in cui cito i miei stessi articoli): altra specialità in cui i ricercatori italiani eccellono. Eppure questi indici sono citatissimi e vengono usati anche nei concorsi pubblici.

Se poi vogliamo andare nel fraudolento vero e proprio, come racconta benissimo De Fiore, troviamo di tutto. Cioè troviamo agenzie pirata di fabbricatori di paper (i paper mill) che, senza nessuna vergogna, si fanno pubblicità sui social media, chiedendo da qualche centinaio a qualche migliaio di euro a paper a seconda dell’IF della rivista e del posizionamento della firma. Troviamo persino riviste per le allodole: siti internet falsificati, del tutto simili agli originali, che si fanno pagare per pubblicare ma di fatto non esistono. E poi le famose riviste predatorie, quelle che ti mandano la mail dicendo che sei un bravissimo ricercatore e che loro vorrebbero tanto un tuo paper. Può sembrare strano, ma i confini della definizione di “rivista predatoria” sono sfumati. Così su queste riviste pubblicano in tanti, anche ricercatori di istituzioni serie provenienti da paesi con un sistema della ricerca avanzato.

E sfumato è un po’ tutto quanto. Come interpretare, per esempio, il numero crescente di paper ritirati (retracted) a botte di migliaia all’anno, con il record del 2023 di più di diecimila? Certo: rispetto ai cinque milioni di articoli scientifici pubblicati ogni anno sono piccola cosa, e comunque spesso si tratta di errori veniali (c’è anche il caso del premio Nobel che si è visto ritirare 17 articoli in un anno). Ma soprattutto: il fatto che esista il meccanismo della retraction dovrebbe far pensare a un sistema sano. Quindi bene. Però… però sono comunque diecimila articoli fallati pubblicati in un anno. Non vi fa paura?

E adesso proviamo a rialzare la testa: le soluzioni. Arriviamo così al famoso capitolo 15: sostanzialmente, due punti. Andrebbe ripensata tutta la ricerca per restituirle la sua vera priorità, quella del bene dei pazienti, e non degli interessi economici e politici di altri attori del sistema sanità. Quindi più finanziamenti pubblici, più indipendenza per chi li usa. Andrebbe poi rivisto il sistema della valutazione della ricerca e smantellato il feroce meccanismo del publish or perish, per permettere ai ricercatori di puntare più su quello che fanno che sull’ansia di pubblicarlo. Niente di tutto questo è impossibile: non è un libro dei sogni ma è un possibile futuro capace di diventare tanto più probabile quanto più abbiamo voglia di impegnarci a costruirlo. Il libro di Luca De Fiore è un ottimo inizio, ma solo un inizio. Dopo averlo letto, è chiaro che un contributo dobbiamo darlo tutti quanti.

 

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