La valutazione della cancerogenicità della carne rossa da parte dell’Agenzia Internazionale per le Ricerche sul Cancro (e non da parte dell’OMS, come quasi tutti i giornali hanno detto) ha dato origine a numerose incomprensioni ed è stato un esempio di come sia difficile la comunicazione scientifica su temi che hanno un grande impatto sull’opinione pubblica. In quanto coordinatore del gruppo di epidemiologi che ha espresso la valutazione ho vissuto l’esperienza fin dal suo inizio (più di un anno fa) e credo di poter fornire qualche chiarimento. Tutto era già contenuto nel comunicato stampa della IARC, ma talvolta pare che i giornalisti non leggano i comunicati fino in fondo.
- Molti hanno confuso la “forza delle prove” con la probabilità di contrarre un cancro mangiando carne rossa. La carne lavorata (essenzialmente insaccati, contenenti nitrati) è stata posta nella categoria 1 (cancerogena per l’uomo) sulla base della forza delle prove, che sono state giudicate sufficienti da parte del gruppo di esperti internazionali - dopo una valutazione attenta di più di 800 articoli scientifici, iniziata più di un anno fa. Per inciso, la valutazione è stata effettuata da un gruppo di esperti indipendenti che hanno lavorato secondo una metodologia consolidata e ben collaudata fornita dalla IARC. Quindi non è una valutazione né dell’OMS, né della IARC ma del gruppo di lavoro di scienziati indipendenti convocati dalla IARC.
- Riguardo al rischio
individuale, mangiare carne rossa in quantità pari a più di 50 grammi al giorno
porta il rischio di cancro del colon a poco più del 5% nel corso della vita, a
partire dal 4% circa in chi non ne mangia affatto. Dunque un aumento modesto se
paragonato al fumo, che moltiplica il rischio di cancro del polmone per 25
volte (1% nel corso della vita nei non fumatori, 25% nei forti fumatori). La
confusione tra forza delle prove e aumento del rischio è stata fatta da quasi
tutti. Un altro malinteso è che esista una quantità ideale sotto la quale non
si corrono rischi. Esiste una relazione diretta tra le quantità mangiate e
l’aumento del rischio, cioè più se ne mangia e più il rischio aumenta.
Tutto questo è spiegato molto bene nel sito di Cancer Research UK per chi voglia approfondire - In base a quanto precede, non ha senso dire che il consumo di carne è cancerogeno come il plutonio o (come ha detto Elena Cattaneo sulle pagine di Repubblica ) la “segatura”. Finiscono nella stessa categoria – Gruppo 1 - perché usando criteri omogenei i gruppi di lavoro riuniti dalla IARC hanno concluso che per ciascuna di queste esposizioni le prove erano convincenti. Per la carne questo è stato stabilito già nel 1997 dal World Cancer Research Fund e successivamente dalla American Cancer Society e da Cancer Research UK, ma il gruppo di lavoro della IARC ha effettuato la valutazione più rigorosa fino ad oggi – come si può giudicare dalla enorme mole di lavoro. Tutte queste istituzioni si fermano a quanto abbiamo detto, cioè concludono che vi sono prove forti, e che c’è una relazione tra quantità consumata e rischio. Ma non emettono raccomandazioni nutrizionali che riguardino il valore nutritivo della carne nel suo insieme. (A proposito della "segatura", se si legge la relativa monografia IARC si vedrà che si tratta di polvere di legno da legni duri come Mansonia altissima, che hanno provocato aumenti fino a 500 volte dei tumori dei seni paranasali nei lavoratori inglesi).
- A mio avviso è impossibile capire quanto detto fin qui se si prescinde da una comprensione elementare di che cosa è il cancro e come origina e si sviluppa. Il cancro origina per l'attivazione di diversi stadi, è cioè una malattia "multifattoriale e multistadio". In una parte della popolazione vi sono individui che per cause diverse (varianti geniche ereditate, mutazioni indotte da altri cancerogeni, ecc.) sono particolarmente predisposti a sviluppare un tumore. Per così dire, in una piccola parte della popolazione manca un ultimo passo (stadio o "hit") - anche a basse dosi di esposizione a un cancerogeno - per completare il processo della cancerogenesi; in altri individui più numerosi mancano due passi, ecc. I fortunati non hanno nessuno stadio ancora attivato, ma sono probabilmente una minoranza. Quanti sono gli stadi necessari? Non lo sappiamo, probabilmente tra 5 e 7, ma è una congettura. In questo senso è certamente vero che la dose fa il rischio, ma il paragone con il botulino (come fa la Cattaneo) o i tossici acuti non regge, perché i tossici acuti sono "one hit" (basta uno stadio solo) e vale per essi il concetto di “soglia”, mentre per le malattie croniche multifattoriali è soprattutto la combinazione con altre esposizioni che porta all'aumento del rischio. E' ben noto il caso dell'infarto, dove i rischi più elevati riguardano maschi forti fumatori, obesi e ipertesi, con glicemia e colesterolo elevati. Se nessuno stadio è stato precedentemente attivato è possibile che anche alte dosi di nitrosamine provenienti dagli insaccati non mi facciano niente, ma è anche possibile che inducano mutazioni che combinandosi con quelle indotte da altre esposizioni mi porteranno al cancro del colon. Il concetto di probabilità sottintende questo modello biologico. L’arsenico ad alte dosi inattiva degli enzimi cruciali per il funzionamento della cellula: per l’intossicazione è necessaria una dose elevata (c’è una soglia); tanto è vero che tutti siamo esposti a bassissime dosi di arsenico senza mostrare segni di intossicazione acuta. Perfino bere 10 litri d’acqua tutti insieme può essere mortale. Ma la cancerogenesi funziona diversamente. Si tratta di problemi reali e non - come talvolta la stampa fa credere - di bizzarrie degli scienziati o delle agenzie internazionali.
- L’ultimo punto è una risposta al recente articolo di Guyatt sul Financial Times (perché poi ha scelto questo giornale per trattare un tema di Sanità Pubblica?), secondo cui non avremmo considerato due sperimentazioni randomizzate (RCT) nella nostra valutazione. Gli RCT sono la procedura ritenuta scientificamente più valida per stabilire nessi causali, usata per esempio per sperimentare i farmaci. Le abbiamo in realtà considerate, ma le abbiamo scartate per diversi validissimi motivi. Il primo RCT, chiamato Women’ s Health Initiative, era incentrato su stili alimentari complessi e non solo sulla riduzione dei consumi di carne. E’ pertanto impossibile distinguere l’effetto della riduzione della carne da altre caratteristiche delle diete cui le donne sono state sottoposte sperimentalmente. Una recente pubblicazione basata sullo stesso studio riporta una riduzione del 52% del rischio di cancro del colon nelle donne che seguivano le raccomandazioni della American Cancer Society che includono una riduzione dei consumi di carne (Thomson et al, 2014). Il secondo è un RCT il cui scopo era prevenire la comparsa di polipi del colon in persone ad alto rischio. In questo studio la riduzione del consumo di carne è stata talmente modesta (pochi grammi al giorno di carne lavorata) che è impossibile misurarne l’impatto. Forse Guyatt non ha letto attentamente i due studi a suo giudizio cruciali e tali da invalidare le conclusioni del gruppo di lavoro IARC.