Invece di polemiche ideologiche, ogni tanto fa bene dare un’occhiata ai numeri. Ogni giorno 800 donne muoiono durante il parto, altre 200 non possono prendere decisioni sulla propria salute né dire di no ai rapporti sessuali con il partner e quasi una donna su dieci al mondo non può scegliere se usare o meno metodi contraccettivi. Sono solo alcuni dei dati contenuti nell’ultimo rapporto dell’UNFPA, il Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione uscito da poco. Che mostra che in alcuni campi non si sono fatti progressi o addirittura si è regrediti.
Oggi nel mondo quasi una donna su dieci non può scegliere se usare o meno metodi contraccettivi. Ogni giorno 800 donne muoiono durante il parto, altre 200 non possono prendere decisioni sulla propria salute né dire di no ai rapporti sessuali con il marito o il partner. Su un altro fronte, l’omofobia costa al mondo 126 miliardi di dollari all’anno, mentre il miglioramento delle condizioni legali per le persone LGBTQIA+ è associato a un aumento di 2.000 dollari del PIL pro capite.
Questi sono solo alcuni dei dati contenuti nell’ultimo rapporto dell’UNFPA, il Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione uscito ad aprile scorso. Il rapporto, stilato ogni anno, ci racconta in modo puntuale le diverse condizioni di vita delle donne a livello mondiale.
Un rapporto che quest’anno assume particolare rilievo, perché esce a trent'anni di distanza dalla grande Conferenza Internazionale su Popolazione e Sviluppo (ICPD) che si è tenuta al Cairo nel 1994. Un evento che ha visto la partecipazione di 179 Paesi e ha prodotto un accordo globale che ha fatto epoca, perché per la prima volta ha posto al centro dello sviluppo le persone.
Obiettivo e motore trainante dell’ICPD del 1994 erano stati l’abbattimento e la riduzione dell’emarginazione e della discriminazione, ma anche crescita economica, equità e parità di genere, riduzione della mortalità infantile e materna, promozione di un accesso universale ai servizi di salute riproduttiva, compresa la pianificazione familiare e la salute sessuale. A trent’anni di distanza emerge invece che ancora oggi fattori come il genere, le condizioni socio-economiche, l’etnia, l’orientamento sessuale, la disabilità, continuano a essere motivo di discriminazioni e stigmatizzazioni, oltre a contribuire alle disparità nell’accesso all’assistenza sanitaria. A fare la differenza è soprattutto in quale parte del mondo si nasce.
Un altro dato preoccupante è che il rapporto UNPFA mostra che le disparità tra i Paesi sono aumentate in modo significativo e che quelle all’interno dei Paesi stessi sono ancora più ampie. Dal 1994 a oggi la popolazione mondiale è passata da 5,7 miliardi a 8,1 miliardi: «Otto miliardi di fili, ognuno dei quali è unico, uniti per comporre il tessuto dell’umanità come un arazzo», queste le parole con cui Natalia Kanem, direttrice esecutiva del Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione, ha fatto riferimento al titolo del rapporto Vite intrecciate, fili di speranza: porre fine alle disuguaglianze in materia di salute e diritti sessuali e riproduttivi.
I dati come diritto umano
Dopo l’ICPD del Cairo, la qualità e la quantità di dati raccolti sono migliorate, e questi aiutano a orientare nuovi programmi e nuovi investimenti. Nel corso di questi trent'anni, infatti, cifre e dati sono diventati ampiamente disponibili e affidabili, per esempio quelli sull’entità della mortalità materna e sulla disabilità. I dati raccolti dalle istituzioni internazionali e dai governi nazionali sono ora comunemente disaggregati per sesso, reddito, località ed età.
Resta però ancora molto da fare per ottenere un quadro completo di tutte le forme di emarginazione, perché i dati su etnia, razza, lingua, religione, status migratorio e identità LGBTQIA+ sono ancora scarsi. Un problema che non riguarda solo il Sud del mondo: è possibile osservare difformità nella raccolta dei dati in Paesi come Stati Uniti, Regno Unito e Canada, dove per esempio la mortalità materna è stata maggiore nel 2020 rispetto al 1990.
Stati Uniti e Regno Unito sono tra i pochi Paesi al mondo in cui queste disparità vengono rese visibili, perché sono gli unici a disporre di sistemi di dati disaggregati, che consentono, quindi, di raccogliere dati sulla salute materna suddivisi per razza o etnia. Il Canada, al contrario, nella sorveglianza materna non distingue tra gruppi di popolazione, nonostante l’evidenza di barriere basate sulla razza nell’accesso e nell’utilizzo dell’assistenza sanitaria materna. È quindi impossibile sapere se l’aumento della mortalità materna nel Paese nel corso del tempo sia stato universale o concentrato tra determinate sottopopolazioni. Laddove i dati esistono, evidenziano le persistenti disuguaglianze dei gruppi emarginati, non solo tra i neri e le persone di origine africana ma anche tra gli indigeni, nel riuscire ad accedere alle cure sanitarie.
È stato proprio un rapporto UNFPA, pubblicato nel 2023, che per la prima volta ha esaminato gli indicatori di salute materna tra le donne e le ragazze di origine africana e quelle con altre origini, in tutto il mondo: i risultati dello studio hanno dimostrato che le morti materne tra le afroamericane laureate sono 1,6 volte superiori a quelle delle donne bianche non laureate o con meno di un diploma di scuola superiore.
Dal 1994 a oggi: progressi e regressi
Leggere i dati contenuti nel rapporto UNFPA 2024 è in parte incoraggiante, perché mostrano i progressi degli ultimi trent'anni, grazie all’ampio consenso ricevuto su scala mondiale da parte dei diversi punti in agenda. Ma accanto alla persistenza di obiettivi ancora da realizzare, un’altra buona parte dei dati forniti ci pone di fronte a una realtà impietosa, perché ci mette a conoscenza di un rallentamento e a volte un vero e proprio stallo.
Tra il 2000 e il 2020 la mortalità materna globale è diminuita del 34%, dal 1990 al 2021 il numero di donne che utilizzano metodi di contraccezione moderna è raddoppiato, dal 2000 le nascite da madri adolescenti sono diminuite di circa un terzo, nell’ultimo decennio si è registrata una diminuzione del 7% delle adolescenti sottoposte a mutilazioni genitali femminili. Numeri incoraggianti dunque. Tuttavia anche i risultati apparentemente raggiunti possono essere a rischio o quanto meno continuamente messi in discussione. Lo dimostra, tra l’altro, per quanto riguarda i contraccettivi, proprio l’esperienza italiana di denuncia dell’attività di un gruppo pro-life che realizza corsi di formazione per gli insegnanti, nei quali demonizza l'uso dei contraccettivi ormonali e dei preservativi, sostenendo che sarebbero pericolosi per la salute delle donne i primi e dannosi per l'intimità della coppia i secondi. Scienza in rete lo ha raccontato qui.
Un segnale inequivocabile che i progressi rallentano è il fatto che, tra il 2016 e il 2020, la riduzione annuale globale della mortalità materna è stata pari a zero, con oltre il 70% delle morti materne collocate nell’Africa sub-sahariana, dove si trovano molti dei Paesi meno sviluppati del mondo e i sistemi sanitari sono più fragili. Una donna che sperimenta complicazioni durante la gravidanza e il parto nel continente africano ha circa 130 volte più probabilità di morire rispetto a una donna che vive in Europa o in Nord America.
Un altro dato che emerge è che il 40% delle donne (nei 32 Paesi di cui abbiamo a disposizione i dati) ha visto diminuire la propria capacità di esercitare il potere decisionale sul proprio corpo.
Le donne con disabilità hanno fino a dieci volte più probabilità di quelle senza disabilità di subire violenza di genere, compresa quella sessuale. Le ricerche dimostrano che le donne e le ragazze con disabilità, infatti, sono spesso vittime di pregiudizi che mettono in dubbio la loro capacità di prendere decisioni sulla propria vita sessuale e riproduttiva, da parte di opinione pubblica, partner e operatori sanitari. Emerge inoltre che la disabilità rappresenta una causa di esclusione da un’educazione sessuale completa e per alcune donne questa discriminazione può anche tradursi in sterilizzazione forzata.
Ancora troppe le madri adolescenti
Nel mondo le complicazioni dovute alla gravidanza e al parto sono la principale causa di morte tra le adolescenti quando vanno incontro a una gravidanza precoce. La maternità precoce, soprattutto per le adolescenti più giovani, è «Una forma di violenza di genere. È una violenza costringere una persona ad affrontare una gravidanza o a fare qualcosa con il suo corpo che non vuole fare», afferma Carmen Barroso, co-presidente del Gruppo indipendente di responsabilità nominato dal Segretario generale delle Nazioni Unite.
E ancora una volta i dati sono importanti: si stima che ogni anno si verifichino mezzo milione di nascite da ragazze tra i 15 e i 19 anni, conseguenza del fatto che per molte di loro è difficile praticare un aborto sicuro e per tante altre semplicemente accedere a metodi contraccettivi o addirittura poter decidere di farlo. Il fenomeno interessa anche l’Italia, dove i dati del 2020 ci dicono che nel 93,8% dei casi le ragazze al di sotto dei 15 anni scelgono di interrompere la gravidanza con un aborto.
Dal 1994 il diritto all’aborto è stato riconosciuto per milioni di persone in tutto il mondo, dal momento che più di 60 Paesi hanno rivisto le loro legislazioni per rimuovere le restrizioni che impedivano di praticarlo legalmente. Quattro Paesi, però, tra cui gli Stati Uniti, sono andati nella direzione opposta, revocandone o restringendone la legalità.
In molti Paesi le politiche e i programmi necessari per ridurre la maternità precoce si basano su dati incompleti, che spesso non sono disaggregati per singola età e altre caratteristiche importanti, il che ne inficia la qualità e alimenta le differenze tra nazioni. In ben 67 Paesi, dove vive il 20% di tutte le ragazze tra i 15 e i 19 anni, si rileva la mancanza più preoccupante di dati (Africa Sub-sahariana, Asia, Oceania e Caraibi).
In Europa e Nord America i dati migliorano, con 78 Paesi che rappresentano il 16% delle ragazze e delle giovani donne nel mondo. In sintesi: nelle regioni in cui si verificano alti tassi di matrimoni infantili e di maternità precoce è più scarsa la qualità e la disponibilità di dati, mentre questa è più alta nei paesi dove le incidenze sono più basse.
Anche la classe socio-economica di appartenenza delle donne incide sulla disparità dell’acquisizione dei dati e questo accade non solo tra i Paesi, ma anche al loro interno: lo vediamo per esempio in Brasile, dove nel gruppo a più basso reddito si registra l’88% delle nascite, mentre nelle famiglie a più alto reddito questo dato tocca il 98%.
Il vantaggio economico e sociale come leva per il cambiamento e l’uguaglianza di genere
Secondo un calcolo UNFPA, spendere 79 miliardi di dollari in più nei Paesi a basso e medio reddito entro il 2030 eviterebbe 400 milioni di gravidanze non pianificate, salverebbe 1 milione di vite e genererebbe 660 miliardi di dollari di benefici economici. Un’altra ricerca condotta nel 2022 ha stimato che il costo globale della violenza perpetrata da partner nelle relazioni intime è pari al 5% del prodotto interno lordo mondiale e a quasi il 15% del PIL nell’Africa subsahariana. Al contrario, all’investimento di 1 dollaro nella pianificazione familiare potrebbe corrispondere, nel tempo, un ritorno di 60-100 dollari in termini di crescita economica.
Non è stato facile e non lo è tuttora quantificare l’impatto degli investimenti e il ritorno economico degli stessi e molti sforzi vengono dedicati a esaminare i costi e i guadagni associati a tali investimenti, ma i risultati hanno sempre dimostrato che è possibile ottenere un enorme valore economico dall’impegno della promozione della salute sessuale e riproduttiva. Sebbene la logica economica abbia giustificato e permesso di realizzare investimenti importanti a favore di tali programmi, bisogna riscontrare un rallentamento e in alcuni casi un vero e proprio stallo nei progressi dal 1994 ad oggi.
Le crisi umanitarie spingono all’emarginazione
Il rapporto dimostra ampiamente che le disuguaglianze di genere preesistenti e la discriminazione nei confronti dei gruppi emarginati vengono esacerbate durante le crisi umanitarie, durante le quali anche la violenza di genere subisce un’impennata.
Si stima che oltre la metà di tutte le morti materne prevenibili si verifichi in Paesi con crisi umanitarie e conflitti, vale a dire quasi 500 morti al giorno, aumentano le mutilazioni genitali e i matrimoni precoci diventano più frequenti, perché le famiglie le considerano delle strategie utili per soddisfare i bisogni di base.
Donne, ragazze, persone con disabilità, anziani, adolescenti, persone con diverse identità di genere e orientamento sessuale sono colpiti in modo sproporzionato dalle emergenze umanitarie, ma la prevenzione e l’attenuazione di tutto ciò restano uno dei settori umanitari più sotto finanziati e meno prioritari.
L’esiguità delle risorse limita anche l’accesso all’assistenza sanitaria per le persone nelle aree più difficili da raggiungere. Ne è un esempio l’Etiopia, paese in cui le equipe sanitarie mobili hanno potuto raggiungere solo il 36% delle persone interessate, lasciando invece molte comunità remote non servite. In Afghanistan, invece, circa 170 strutture fisse e mobili hanno dovuto chiudere, limitando l’assistenza sanitaria primaria per 1 milione di persone, tra cui donne incinte, bambini e persone con disabilità.
Sebbene le organizzazioni umanitarie continuino a essere sottofinanziate, si stanno registrando dei progressi nella qualità del loro lavoro anche grazie alla sempre più numerosa partecipazione e leadership femminile a capo delle organizzazioni stesse. Nel 2023 infatti si sono potute contare diverse importanti equipe umanitarie guidate da donne. Questo è un particolare importante, perché si è visto che le donne fanno la differenza nel garantire che le esigenze delle comunità emarginate siano soddisfatte.