Il numero 400 di Lancet raccoglie gli articoli le analisi più approfondite sulla definizione di razzismo, xenofobia e discriminazione e sulla loro relazione con la salute a livello globale. E vuole essere l'inizio di un percorso virtuoso che, dal riconoscimento autocritico dei danni operati dal contenuto storico della rivista, vuole rispettare gli impegni per l'inclusione e il rispetto della diversità nell'editoria, incoraggiando i contributi sugli effetti del razzismo sulla salute e una corretta rappresentazione di geografia, genere ed etnia in autori e revisori.
Illustrazione della serie di Lancet su razzismo, xenofobia e discriminazione.
Il numero 400 del dicembre 2022 di Lancet dedicato a Racism, Xenophobia, Discrimination, and Health rimarrà nella storia della medicina: ideato da Delan Devakumar dell'Institute for Global Health dell'University College di Londra con la collaborazione di scienziati di tutto il mondo, riunisce in una serie di articoli le analisi più approfondite sulla definizione di razzismo, xenofobia e discriminazione e sulla loro relazione con la salute a livello globale.
L'errata classificazione della razza come costrutto biologico (invece che sociale) continua ad aggravare le disparità di salute; la discriminazione su base etnica, religiosa o sociale è presente in tuti i continenti e ovunque dà i suoi frutti avvelenati, che devono diventare una preoccupazione centrale di professionisti, ricercatori e istituzioni. Moltissimi sono, ormai, gli studi che provano gli esiti più sfavorevoli delle gravidanze di donne nere, ispaniche e dell'Asia meridionale che di quelle bianche, l'associazione dell'espropriazione delle terre agli indigeni con esiti cardiometabolici avversi, gli interventi chirurgici "sconsigliati" a pazienti oncologici neri negli USA, il disagio psichico delle popolazioni aborigene in Australia o la mortalità per Covid-19 degli immigrati del Bangladesh quadruplicata rispetto a quella della popolazione britannica bianca, nel Regno Unito.
La madre di tutte le disuguaglianze è la disuguaglianza di potere, storicamente radicata e che opera ancora oggi, modellando gli ambienti e le opportunità. I sistemi di potere s'intersecano tra loro per perpetuare le disparità: il razzismo converge con i sistemi di oppressione basati su età, genere, abilità e disabilità e stato socioeconomico. L'eccellenza di questo numero di Lancet, tuttavia, non sta negli studi raccolti a supporto della sua campagna contro il razzismo, ma nella profonda convinzione che anima i suoi autori nel compiere la propria autocritica e auto-condanna: la rivista ammette di operare all'interno di strutture di editoria accademica che hanno perpetuato discriminazioni e disuguaglianze e di aver avuto, fin dall'esordio, un ruolo nel sostenere la medicina coloniale e le pratiche sanitarie discriminatorie. Proprio Lancet pubblicò nel 1919 i risultati dell'indice biochimico della razza secondo i gruppi sanguigni, per fare il quale Ludwik e Hanka Hirschfeld analizzarono oltre 8.000 campioni di sangue provenienti da 16 nazioni, individuando una gerarchia discendente tra i tre tipi razziali "europeo", "intermedio" e "asio-africano".
Storicamente, gli scienziati si sono assunti il compito di giustificare la separazione e la categorizzazione degli esseri umani. Si prenda, come uno dei tanti esempi, la vicenda del botanico svedese Carolus Linnaeus che nella sua tassonomia umana includeva tipi umani simili a mostri e attribuiva comportamenti e persino sistemi sociali ai vari fenotipi: il tipo umano "europaenus" era "governato da leggi", mentre quello "africanus" era da "governato dal capriccio". Nel 1852, il medico Samuel Cartwright annunciò sul New Orleans Medical and Surgical Journal di aver scoperto due nuove malattie, la drapetomania (tendenza incoercibile degli schiavi a scappare) e la dysaethesia aethiopica (disobbedienza e rifiuto di lavorare degli schiavi). E non scherzava. Il rozzo sistema craniometrico (e, si direbbe oggi, "Pantone") ideato dall'antropologo settecentesco Johann Friedrich Blumenbach per dividere l'umanità in cinque razze, la caucasica (bianca), l'americana (rossa), la malese (olivastra), la mongola (gialla) e l'africana (nera), farebbe ridere se non fosse stato in auge fino alla fine della seconda guerra mondiale. Solo nella seconda metà dal XX secolo, infatti, gli scienziati hanno considerato Homo sapiens una specie monotipica, ossia non divisibile in razze o sottospecie.
La professione medica dovrebbe considerare il suo passato impregnato del concetto di razza per poter comprendere il suo non incolpevole presente e la facilità con cui la ricerca medica attribuisce miti biologici a eventi sociali. Il pensiero eugenetico, infatti, sopravvive nel determinismo genetico: quando i ricercatori si rivolgono all'UK Biobank per cercare di comprendere le radici della disuguaglianza sociale, stanno (più o meno consapevolmente) ricadendo nella leggenda che essa non è il prodotto di fattori sociali, politici, ambientali e storici, ma deriva da differenze innate tra interi gruppi di persone. D'altronde, sono tristemente recenti gli esperimenti sulla sifilide di Tuskegee (cittadina della Macon County, in Alabama) portati avanti dalla United States Public Health Service tra il 1932 e il 1972, che hanno negato deliberatamente il trattamento con penicillina a 400 uomini afro-americani per comprendere la progressione naturale della malattia.
Lancet, per parte sua, pubblicamente ammette oggi quanto sia stato offensivo il proprio contenuto storico, riconoscendone i danni. La serie di articoli che ora ha pubblicato è stata ideata all'University College di Londra, sede storica dell'eugenetica, che da lì si è diffusa nel resto del mondo; la teoria spiegava con l'ereditarietà le circostanze sociali e gli esiti di salute di particolari popolazioni. All'inizio, gli eugenetisti avevano puntato l'attenzione sulle persone delle classi "inferiori" della società britannica, sostenendo che l'abilità mentale, la tendenza morale e l'inclinazione criminale erano decise il giorno in cui gli individui nascevano; subito dopo, l'eugenetica si è interessata della comunità di immigrati ebrei dell'East End di Londra. E proprio all'University College di Londra è stata istituita la prima cattedra di eugenetica, da Francis Galton e Karl Pearson (peraltro valenti matematici e statistici).
La teoria fece presa in molte parti del mondo occidentale e non si deve arrivare alla Germania di Hitler: negli Stati Uniti, una legge del 1927 sanciva il diritto dello stato di sterilizzare forzatamente le persone disabili, con basso reddito, con condanne o "mentalmente deboli", in quanto ritenute non idonee ad avere figli. Sono state particolarmente prese di mira dai programmi di sterilizzazione le donne nere e native americane (sottoposte alla cosiddetta "appendicectomia del Missisipi").
Il numero speciale di Lancet vuole essere solo l'inizio di un percorso virtuoso: il comitato editoriale mira a essere responsabile nei confronti delle comunità colpite dal razzismo e dalla discriminazione e a rispettare gli impegni presi per l'inclusione e il rispetto della diversità nell'editoria, incoraggiando i contributi sugli effetti del razzismo sulla salute e una corretta rappresentazione di geografia, genere ed etnia in autori e revisori. Nello specifico della sua missione, Lancet chiede agli autori di evitare l'uso di intervalli di riferimento e associazioni basate sulla razza tratte dai dati osservativi, ma di considerare il possibile ruolo di confondenti non misurati. La rivista si aspetta che i documenti riguardanti le minoranze etniche e le popolazioni discriminate includano autori che le rappresentano: l'equità sociale (che coinvolge l'assistenza sanitaria, l'istruzione, la ricerca, gli enti finanziatori, il governo e l'informazione) va promossa con interventi mirati a strutture e sistemi, attraverso misure legali e politiche radicali guidate dalle comunità interessate.
Il progetto che sottostà al numero 400 di Lancet si articola in tre punti: la disamina delle origini storiche del razzismo e delle interconnessioni di storia, geografia, economia e politica nella produzione della discriminazione, la spiegazione delle basi biologiche della perdita di salute nelle persone discriminate e il racconto delle prospettive di miglioramento della situazione a livello planetario. Innanzi tutto, se si vuole affrontare l'eredità della scienza quale nume tutelare delle gerarchie di potere, è necessario prendere le mosse dalla storia coloniale, basata su ideologie che vedevano altri popoli come incivili o inferiori e che hanno determinato, in questi popoli, uno svantaggio persistente per il cosiddetto "trascinamento intergenerazionale". Purtroppo, non si tratta solo di storia passata: i leader e le politiche populiste xenofobe continuano a far leva sui pregiudizi, ubiqui come la tendenza agli stereotipi, per strutturare l'idea della separazione ("gli altri sono diversi da me"). Gli ideologi del populismo contrappongono una popolazione virtuosa e omogenea (sic) a un insieme di pericolosi "altri" che si alleerebbero per privare il popolo sovrano dei suoi diritti, valori, prosperità, identità e voce.
Che l'intero attuale assetto di potere internazionale, comunque, continui a perpetuare la discriminazione razziale all'interno e tra le nazioni, l'ha messo in luce la risposta alla pandemia di Covid-19: nell'aprile 2022, il principale organismo internazionale delle Nazioni Unite per i diritti umani ha deprecato «che il modello di distribuzione ineguale dei vaccini salvavita e delle tecnologie Covid-19 tra e all'interno dei paesi si manifesta come un sistema globale che privilegia le ex potenze coloniali a scapito degli stati precedentemente colonizzati e dei discendenti di gruppi schiavizzati» (Comitato per l'eliminazione della discriminazione razziale. Dichiarazione sulla mancanza di accesso equo e non discriminatorio ai vaccini COVID19. 2022). L'era coloniale è stata seguita dal neocolonialismo, per cui le persone nei paesi a basso e medio reddito continuano a essere sfruttate dai sistemi di governance macroeconomici internazionali.
I percorsi che collegano razzismo e xenofobia alla cattiva salute sono complessi: le disuguaglianze agiscono sia in modo indipendente sia mediate da vari determinanti sociali. La giurista statunitense Kimberlé Crenshaw, una pioniera della teoria critica della razza, nel 1989 ha introdotto il concetto di "intersezionalità": il termine si riferisce ai modi in cui le categorie in cui le persone vengono costrette (razza, genere, classe) e i sistemi di oppressione (supremazia bianca, patriarcato e abilismo, ossia la discriminazione dei disabili) si sovrappongono e interagiscono a creare dinamiche ed effetti unici. L'analisi intersezionale rifiuta la nozione di disuguaglianza come il risultato di fattori singoli e distinti e si concentra, invece, sulle relazioni tra processi che si costituiscono reciprocamente.
La discriminazione ha anche un peso biologico sulla salute, attraverso le risposte neuroendocrine allo stress, il deterioramento della salute materna e le risposte epigenetiche, ossia di espressione dei geni in adattamento all'ambiente. La fase della vita in cui l'individuo è esposto alla discriminazione è importante e i periodi più sensibili sono la prima infanzia e l'adolescenza, anche se gli esiti di malattia possono apparire dopo un lungo periodo di latenza, rendendo l'attribuzione metodologicamente difficile. Il livello individuale, se è certamente quello in cui una carenza di salute è più immediatamente apparente, non deve celare il nucleo dei suoi determinanti strutturali: è da una storia sedimentata di discriminazioni che si dipartono le criticità comportamentali (attività fisica, sonno, alimentazione e comportamenti disadattivi o di ricerca di compensazione), psicologiche (disordini mentali e interiorizzazione) e fisiologiche (stress, cambiamenti ormonali e mutazioni epigenetiche). Fumo, alcol e comportamenti disadattivi sessuali rappresentano meccanismi di coping, risposte allo stress quotidiano della discriminazione, data l'impraticabilità del lavoro o dell'istruzione.
È ancora poco riconosciuto dal mondo medico il modo in cui i processi esterni e interni innescati dalla discriminazione si traducono in cambiamenti fisiologici e molecolari all'interno del corpo: sebbene la discriminazione agisca principalmente attraverso la risposta allo stress (fight-or-flight response) nell'immediato e nel breve termine, le conseguenze cumulative si estendono a diversi meccanismi metabolici che sono fondamentali per il mantenimento dell'omeostasi, della crescita sana e dello sviluppo. Per esempio, il colonialismo del XIX e XX secolo ha sottoposto vaste popolazioni a denutrizione cronica e stress psicosociale, che si sono tradotti in una bassa statura. Tale variabilità somatica, seppure non genetica, potrebbe modellare la risposta metabolica persino nella generazione attuale, rendendola più vulnerabile all'accumulo di grasso centrale e all'insulino-resistenza, qualora perdurino sfavorevoli condizioni alimentari.
Diverse forme di discriminazione colpiscono gli individui attraverso la biologia materna prima ancora che nascano, per poi esercitare effetti dannosi diretti durante l'infanzia e l'adolescenza ed esprimere il danno cumulativo quando sono amplificati dall'invecchiamento: l'insufficiente crescita fetale è stata collegata a concentrazioni abnormemente elevate di cortisolo in risposta allo stress, alla metilazione del gene del recettore dei glucocorticoidi e del promotore del gene NR3C1, entrambi coinvolti nella regolazione dell'asse ipotalamo-ipofisi-surrene. Ciò comporta, in età avanzata, l'instaurarsi di ipertensione, obesità e diabete di tipo 2. Negli anziani, inoltre, i cambiamenti epigenetici e la cronica attivazione della risposta allo stress di ordine neurologico, endocrino e immunitario, con messa in campo del sistema nervoso simpatico, dell'asse ipotalamo-ipofisi-surrene e della reazione infiammatoria (segnalate dall'interleuchina e dalla proteina C reattiva), possono causare la riduzione del volume dell'ippocampo, compromettendo la memoria e la degenerazione della corteccia prefrontale, compromettendo la funzione cognitiva.
In sintesi, la discriminazione, percepita come una minaccia, attiva i percorsi di una risposta di emergenza con un consumo di energia che si traduce in un'usura fisiologica del funzionamento cellulare, a volte irreversibile; si può così spiegare come, nei gruppi discriminati, l'età biologica superi l'età cronologica (invecchiamento epigenetico) con aumento delle malattie croniche legate all'età; poiché, inoltre, lo stress cronico induce un più rapido logoramento dei telomeri, la morte sarà prematura.
L'OMS stabilisce che i servizi di assistenza sanitaria debbano essere disponibili, accessibili, accettabili e della massima qualità. Tuttavia, porre il razzismo in una prospettiva intersezionale richiede di andare oltre il campo della salute: le differenze di morbilità e mortalità non saranno ridotte semplicemente migliorando l'accesso ai servizi o promuovendo l'educazione sanitaria.
La salute è, alla fine, una scelta politica e geopolitica, con determinanti sociali e strutturali interconnessi e la sanità è solo una delle istituzioni afflitte dal razzismo strutturale: rimediare alle disparità di salute richiederà la collaborazione tra i settori dell'alloggio, dell'istruzione, dei trasporti, della giustizia penale e della giustizia ambientale. Gli obiettivi a medio termine proposti da Lancet, oltre alla prossima Commissione sul razzismo e salute globale guidata dall'O'Neill Institute, saranno una Commissione sui bambini e sui giovani, la stesura di documenti specifici per paese, una ricerca approfondita sulla discriminazione nell'assistenza sanitaria, la costituzione di un'Agenzia internazionale su razzismo, xenofobia e discriminazione in ambito sanitario e, infine, l'utilizzo della piattaforma Race and Health per diffondere informazioni e sostenere il cambiamento in tutto il mondo, con lo sviluppo di hub regionali.
La pandemia di Covid-19 è stata un grande riflettore puntato sulle disuguaglianze di salute. Perché le cose cambino e poiché gran parte della medicina e degli interventi sanitari si è sviluppata, nei secoli, sulla base dell'ingiustizia, della crudeltà e della discriminazione, un approccio radicale richiederebbe di distruggere i sistemi esistenti, di definanziare le istituzioni che contribuiscono al razzismo sistemico e di ridistribuire le risorse verso soluzioni basate sulla comunità. È imperativo, comunque, riconoscere e smantellare le eredità ideologiche del colonialismo, in tutti i domini, inclusi quelli epistemologici; non si possono sottrarre a ciò nemmeno (tanto meno) gli autori stessi di questa serie di Lancet che, per la maggior parte, lavorano in istituzioni che hanno creato gli esistenti sistemi sanitari disuguali.
In secondo luogo, occorre aumentare la diversità e l'inclusione nelle istituzioni sanitarie globali; è, poi, necessario sfidare il connubio tra chi realizza un profitto finanziario e i decisori politici. Infine, ma non da ultimo, occorre mettere mano all'educazione medica, che è in piena continuità con il razzismo strutturale eurocentrico e si basa su sistemi di conoscenza suprematisti bianchi. Il determinismo biologico razziale gerarchico è testimoniato, per esempio, dalle raccomandazioni sui farmaci basate sulla razza e da valori normali differenziali per test comuni. Se, nel corso della formazione medica, si vedono solo eruzioni cutanee e cianosi sulla pelle bianca, i medici avranno molta difficoltà a diagnosticarle in individui di pelle scura; in Africa, gli studenti di medicina, che studiano su testi di dermatologia del Nord del mondo, ma vedono la patologia prevalentemente nelle persone dalla pelle scura, perpetuano l'interiorizzazione di alterità e si abituano a pensare bianco, praticare bianco e insegnare bianco.
Occorre, però, confidare, come faceva Paulo Reglus Neves Freire, pedagogista e teorico dell'educazione brasiliano, che una volta riconosciuta l'ingiustizia, gli individui possano usare il libero arbitrio per resistere. L'incontro medico-paziente non dovrà più essere visto come una diade neutrale e apolitica, bensì come una triade, in cui il contesto sociopolitico è un attore determinante.
Il contenuto curriculare mira a fornire la conoscenza degli ultimi progressi scientifici pubblicati in letteratura, ma il gatekeeping nella pubblicazione solleva la questione di chi decide quali tipi di conoscenza sono legittimi. Gli editori sono prevalentemente bianchi e maschi: solo una revisione tra pari antirazzista potrà attivare la loro coscienza critica.
Insomma, il compito di smantellare il razzismo nell'educazione medica non sarà facile, anche perché la maggior parte delle scuole di medicina è ancora nella fase di riconoscimento del problema. Come concludono Saleem Razack, pediatra ed educatore della University of British Columbia di Vancouver e Thirusha Naidu, della scuola infermieristica della University of KwaZuluNatal di Durban, in Sud Africa, l'impegno a smantellare il razzismo sistemico nell'educazione medica richiede riparazioni collettive e dignità per quelle moltitudini che ne sono state danneggiate, attraverso un'assistenza migliore e più sicura per le diverse moltitudini che seguiranno.