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I referendum, la scienza, la democrazia

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L’esito dei referendum di domenica e lunedì scorsi è stato davvero chiaro. In grandissima maggioranza (il 95% dei votanti, dunque il 56% degli aventi diritto al voto) gli Italiani non vogliono la gestione privatistica dell’acqua, non vogliono le centrali nucleari, non vogliono che a ministri e a presidenti del Consiglio dei ministri venga riconosciuto un “impedimento”, considerato evidentemente “non legittimo”, se chiamati a rispondere in tribunale di specifiche accuse di reato. Si può essere o meno d’accordo nel merito, ma la volontà degli italiani non poteva essere espressa, appunto, in maniera più chiara. E ora c’è da prenderne semplicemente atto, da parte di tutti.

Ma non è solo il merito delle scelte effettuate dagli Italiani a dover far riflettere tutti (chi le condivide e chi no). È anche (e forse soprattutto) la partecipazione al voto referendario, senza precedenti negli ultimi tre decenni, che chiede una seria analisi. Anche a chi, come noi, si occupa soprattutto di scienza e de rapporti tra scienza e società.

I tre temi spalmati nei quattro quesiti referendari attengono tutti a quella sfera che potremmo definire della “società democratica della conoscenza”. Uno, quello del nucleare, evoca il rischio tecnologico, la sua pubblica percezione, il “costo dell’innovazione” che siamo disposti a pagare per ottenere dei benefici. Un tema complesso, ma decisivo in una società che si definisce della conoscenza. Anche perché, come sostiene il sociologo tedesco Ulrick Beck, quella della conoscenza è una società che presta un’attenzione senza precedenti alla valutazione del rischio.

Il secondo tema, legato alla gestione dell’acqua, evoca il tema dei “beni comuni”. La gente non è disponibile a mettere in discussione l’accesso a quello che considera un bene comune fondamentale, l’acqua. Solo che i beni comuni considerati indispensabili nella nostra percezione ce ne sono sempre più. Alcuni sono materiali, come il cibo o l’aria (oltre l’acqua, naturalmente). Altri sono più immateriali, come la salute (anzi, il benessere fisico e psichico per usare una definizione dell’Organizzazione mondiale di sanità), l’istruzione, l’informazione, la conoscenza. E se per i beni comuni materiali può valere quella che gli economisti definiscono “la tragedia dei commons” – tutti usano un bene comune, nessuno si preoccupa di rinnovarlo e il bene si dissolve – per i beni comuni immateriali, come la conoscenza, vale una sorta di “commedia dei commons”: più persone la utilizzano, più il bene aumenta. E, dunque, il referendum ci dice che sta crescendo una forte sensibilità di massa intorno ai “commons” nella società della conoscenza. Un segnale quanto meno di novità, dopo decenni in cui sono stati egemoni l’idea e l’aspirazione al possesso e al consumo di “beni individuali”.

Il terzo tema evoca, infine, il concetto di democrazia. E di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.

Il combinato disposto di queste tre dimensioni – governo della tecnologia, ruolo dei vecchi e dei nuovi “beni comuni” nella società della conoscenza (che non a caso qualcuno definisce società della “coscienza enorme”) e legalità – costituisce una parte rilevante della domanda di “nuovi diritti di cittadinanza scientifica”. Che è una domanda di accesso (all’informazione, alla conoscenza, ai mezzi che consentono di aumentare il benessere fisico e psichico delle persone) e di partecipazione (alla vita democratica della società della conoscenza).

I referendum confermano che questa domanda è crescente e ineludibile. I cittadini utilizzano ogni strumento – sia della democrazia rappresentativa sia della democrazia diretta (referendum, ma anche proteste popolari) – per soddisfarla quando avvertono, a torto o a ragione, che la posta in gioco è alta.

Non serve chiedersi se i problemi su cui la società, nell’era della conoscenza, deve decidere possano essere affrontati e risolti riducendo la scelta – come nei referendum – a un semplice sì o un semplice no, o addirittura tagliando il nodo gordiano con una manifestazione di piazza. I cittadini utilizzano anche uno strumento riduttivo come il referendum o la protesta di piazza se non ha altri mezzi. E nessuno può legittimamente impedirlo.

È giusto che sia così. È la democrazia, bellezza. Che, come amava dire Winston Churchill, è un sistema largamente imperfetto. Il guaio è che finora nessuno ha inventato nulla di meglio.

Chi pensa, dunque, che questioni complesse come la politica energetica, la gestione dei “beni comuni” o la concreta applicazione del principio di legalità, non possono essere affrontati in maniera riduttiva – con un sì o con un no al referendum, con una manifestazione di piazza – non può inveire contro la democrazia. Ha una sola opzione. Lavorare per soddisfare la domanda (crescente) di diritti di cittadinanza scientifica che emerge dalla società. Il che significa da un lato aumentare la quantità e migliorare la qualità della cultura scientifica diffusa: una società più colta, effettuerà scelte più mature. E dall’altro ampliare, non ridurre, gli spazi di partecipazione democratica.

L’alternativa ai referendum e alle scelte draconiane tipiche della democrazia aggregativa o dei limiti di quella rappresentativa non è dunque un improbabile “governo dei filosofi”. La risposta alle sfide della società complessa della conoscenza non consiste nel pensare di affidare le scelte a élite non meglio definite (e definibili) di esperti. La risposta è semmai nei tavoli di discussione argomentata della democrazia deliberativa. Nelle scelte negoziate tra “portatori di interesse”. È, insomma, nella fatica della democrazia. Magari nella ricerca, per prova ed errore, di nuove forme più alte di democrazia. Non certo nella riduzione o addirittura nell’assenza di democrazia.


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