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La ricerca di punta è senza lucro

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Ricerca medica

Crediti: Belova59/Pixabay. Licenza: Pixabay License

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Ogni anno, circa 300 milioni di euro vengono investiti nella ricerca biomedica da associazioni e fondazioni non profit. Ossigeno puro per i 35mila ricercatori impegnati in Italia a studiare e combattere le malattie. Pur non essendo infatti il contributo più consistente alla ricerca medica, le risorse delle non profit hanno due caratteristiche che difficilmente si trovano negli altri tipi di finanziamenti: la valutazione rigorosa e indipendente dei progetti, e la natura competitiva dei bandi, che arriva a premiare i più meritevoli dopo una selezione in genere condotta da gruppi di esperti di livello internazionale, spesso stranieri, così da evitare cordate accademiche e preferenze che prescindano dalla qualità delle ricerche proposte.

Diciamo pure che questi oltre 300 milioni di euro, che arrivano dal 5 per mille e da altre donazioni degli italiani, sono soldi ben spesi, e vanno a finanziare la ricerca di punta. Di fatto rappresentano un decimo degli stanziamenti in ricerca medica italiana, pari a 3 miliardi: 1,4 miliardi di euro arrivano infatti dalle aziende farmaceutiche e affini che, tranne rare eccezioni, finanziano sperimentazioni cliniche volte a commercializzare farmaci. Certo anche questa è una ricerca importante, ma per ragioni più che ovvie né indipendente né di base. Buona parte del pharma investe in sostanza in ricerca applicata, con forti attese da parte del marketing. Altri 1,2 miliardi di euro arrivano dalle casse dello Stato, e vanno per la gran parte a pagare gli stipendi di universitari e ricercatori degli enti pubblici impegnati in questo settore. Infine poco più di 100 milioni all’anno provengono dai progetti europei e da bandi statunitensi (come quelli dei National Insitutes of health, ma anche da Us Army), anch’essi di natura competitiva.

A sua volta, il finanziamento in ricerca biomedica rappresenta solo una frazione dell’intera ricerca italiana, che nel 2016 (ultimo anno di cui esiste una rendicontazione) ammonta a 23 miliardi di euro, pari all’1,3% del Prodotto interno lordo italiano: poca cosa rispetto agli altri Paesi centro e nordeuropei, agli Usa e alle tigri asiatiche, dove il finanziamento R&S va dal 2 al 4% del Pil. Questa distanza, almeno per certi Paesi, si mantiene anche nella ricerca biomedica. In Europa primeggia la Gran Bretagna, con 3,8 miliardi di euro dal pubblico e 4,5 miliardi di euro dal settore farmaceutico. L’Italia, che negli anni 90 occupava un ottimo 5% dell’investimento mondiale in ricerca farmaceutica, oggi è ferma all’1%, mentre Gran Bretagna e Svizzera sono al 7%, e gli Stati Uniti a uno stellare 58%, pari a circa 80 miliardi di euro. Questo divario di finanziamenti non impedisce però alla ricerca biomedica italiana di essere al vertice delle classifiche mondiali, seconda solo alla Gran Bretagna quanto a quota di citazioni delle pubblicazioni, il cui totale si aggira fra il 7 e l’8% del totale mondiale.

Il finanziamento storico

Gran parte del finanziamento della ricerca nel nostro Paese è di tipo storico, vale a dire distribuito a tutte le strutture. Quello che un tempo veniva chiamato “finanziamento a pioggia” e che qualche malevolo — vista la nostra scarsità di finanziamenti — ha ribattezzato “finanziamenti a goccia”. Dei 5 miliardi circa dati alle università, circa 750 milioni di euro sono finalizzati alla ricerca medica (altri 650 milioni provengono dal fondo di finanziamento ordinario destinato agli enti di ricerca, come il CNR). Va però osservato come questi finanziamenti derivino in buona parte da una attribuzione di tempo che docenti e ricercatori dedicano, o dovrebbero dedicare, alla ricerca e sfugge ancora a una dettagliata valutazione dei risultati. Diverso il caso della cosiddetta ricerca corrente che proviene dal ministero della Salute: circa 150 milioni di euro alimentano la ricerca degli Irccs (Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico), che però aumentano di numero (adesso sono 51) mentre gli stanziamenti, di anno in anno, calano inesorabilmente. Fra un ospedale e l’altro il finanziamento varia notevolmente anche in base ai risultati scientifici, misurati in termini di sperimentazioni cliniche, brevetti e pubblicazioni scientifiche.

I finanziamenti a progetto

L’Italia è fra tutti i Paesi europei più avanzati quello che ricorre di meno a finanziamenti competitivi a progetto, dove a seconda dei bandi il finanziamento se lo aggiudica solo una piccola parte dei concorrenti in base a una valutazione sul merito scientifico della proposta. Questa forma di finanziamento nel nostro Paese copre il 10% del totale, contro il 50% della Gran Bretagna, il 40% della Norvegia, il 35% della Germania, il 30% della Svizzera e il 20% della Spagna e della Francia.

Considerando che le risorse impiegate per la ricerca in Italia sono notevolmente più basse che negli altri Paesi, la quota premiale si riduce veramente a poco. E questo si traduce in un minore allenamento alla competizione internazionale dei nostri ricercatori, e soprattutto in una minore probabilità di aggiudicarsi questi fondi vitali per la ricerca più avanzata e allineata alle grandi sfide scientifiche contemporanee.

A questo si aggiunga che l’Italia è ormai l’unico Paese avanzato a non avere un’agenzia di finanziamento indipendente: se si escludono i bandi internazionali e della Commissione europea, resta sostanzialmente solo la boccata di ossigeno fornita dagli enti non profit che lavorano soprattutto attraverso bandi competitivi. Il resto è tutto di matrice ministeriale, con più burocrazia, tempi incerti e minore visione strategica. Ma anche quel poco — in un contesto come quello italiano — ha il suo peso nel motivare i nostri ricercatori a competere per l’eccellenza. Il ministero della Salute gestisce da anni i bandi della Ricerca finalizzata, che finanzia progetti di ricerca applicata agli obiettivi del Sistema sanitario nazionale (come le politiche di prevenzione, i bisogni assistenziali della popolazione, la sicurezza dei trattamenti e degli alimenti ecc.) e a cui possono concorrere gli Irccs, le Regioni, l’Istituto superiore di sanità e altri istituti statali. Purtroppo l’ammontare di questi bandi si va riducendo anno dopo anno.

In declino da tempo sono anche le risorse destinate alla cosiddetta “ricerca indipendente” dall’Agenzia del farmaco (Aifa), ente che regolamenta i farmaci in Italia. La ricerca indipendente privilegia sempre aspetti di ricerca applicata come la appropriatezza delle prescrizioni, alcuni farmaci orfani (che non trovano finanziamenti industriali per loro scarsa redditività) o sperimentazioni di confronto fra farmaci per individuare l’eventuale valore terapeutico aggiuntivo (cosa che le case farmaceutiche non fanno volentieri). Essendo finanziato con un contributo pari al 5% delle spese promozionali delle aziende farmaceutiche, questo tipo di bando si è più che dimezzato nell’ultimi vent’anni.

Riservati agli universitari invece sono i bandi Prin, più rivolti alla ricerca fondamentale, che dopo anni di declino hanno conosciuto un’impennata nell’ultimo maxi-bando del 2017 (probabilmente non destinato a ripetersi), che ha riservato alle scienze della vita 110 milioni di euro.

Anche le aziende farmaceutiche contribuiscono a finanziare — oltre che i loro laboratori — le strutture di ricerca pubblica. Lo fanno soprattutto per dar corso alle sperimentazioni cliniche relative ai loro farmaci, ma non solo. Secondo un recente studio dell’Ocse, nel panorama italiano svettano alcune aziende per intensità di investimento in ricerca, censite fra le prime mille aziende europee in tutti i settori.

Il modello non profit

Chi ha portato la logica del finanziamento competitivo per bandi in Italia sono state le onp, e tuttora i ricercatori si rivolgono prevalentemente a loro per tenere viva la ricerca indipendente e di base italiana.

Nel 2017, dei complessivi 300 milioni di euro erogati dalle charity italiane, più di 150 milioni di euro provengono da Airc, Telethon, Fism e dalle fondazioni bancarie. In testa agli erogatori c’è l’Airc che, insieme a Firc, ha messo a disposizione 102 milioni di euro per la ricerca sul cancro. Segue la Fondazione Telethon con 30 milioni che vanno a finanziare la ricerca delle malattie genetiche rare; la Fondazione italiana sclerosi multipla con 7 milioni, la Fondazione ricerca fibrosi cistica con 2 milioni, mentre l’insieme delle fondazione bancarie (fra cui Compagnia di San Paolo e Fondazione Cariplo) indirizza 33 milioni allo studio delle principali malattie croniche e di alcuni temi caldi come l’invecchiamento. Seguono molte altre fondazioni e associazioni, molte delle quali a supporto della ricerca di ospedali (è il caso per esempio della fondazione Meyer per l’omonimo ospedale pediatrico di Firenze) e dei cosiddetti Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico.

Il contributo del non profit alla ricerca di salute, anche in Italia, quindi, è tutt’altro che secondario. Secondo un recente studio, l’oncologia, che costituisce un quinto della ricerca biomedica per un investimento annuo di 5-600 milioni di euro, deve ad Airc un sesto del finanziamento complessivo, che però sale al 70% se si considerano solo i bandi. E proporzioni simili quando non superiori si ritrovano anche nei contributi di Telethon e di Fism nei rispettivi campi di interesse. Oltre allo strumento di bandi e borse di studio, alcuni enti non profit hanno cominciato da alcuni anni a diversificare i finanziamenti, investendo anche direttamente in infrastrutture di ricerca.

La versione integrale di quest'articolo è apparsa sul magazine VITA. Per continuare a leggere clicca qui

 


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