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Ricerca e innovazione in Italia

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Il sistema italiano di Ricerca e Innovazione si trova a un punto di svolta. Gli ultimi dieci anni di crisi hanno ulteriormente aggravato le debolezze tradizionali legate alle limitate attività tecnologiche del Paese. Tali debolezze sono note da anni: bassa intensità di R&S, specializzazione produttiva in settori maturi, poche grandi e medie imprese, scarsa presenza nei settori dell'alta tecnologia, acquisizione di molte aziende italiane nei settori più innovativi da parte di gruppi multinazionali stranieri, difficoltà a finanziare le spese per l'innovazione, bassa spesa pubblica per R&S e per l’università, modesta percentuale di laureati nella popolazione, forte polarizzazione territoriale tra alcune aree tecnologicamente avanzate nel Nord Italia e il resto del Paese.

Gli effetti della crisi hanno introdotto ulteriori elementi di fragilità nel sistema: le imprese hanno subito perdite consistenti di produzione e la riduzione degli investimenti ha indebolito le capacità del Paese; spesso l'introduzione delle innovazioni è stata ritardata in attesa di una ripresa della domanda che solo da poco ha registrato qualche aumento. I centri decisionali e le attività di ricerca di molte imprese sono stati trasferiti all'estero, le politiche di austerità hanno ridotto la spesa pubblica per la ricerca e l'università, da anni migliaia di giovani ricercatori e laureati altamente qualificati lasciano il Paese per cercare lavoro all'estero. Il risultato del "decennio perduto" è un ulteriore indebolimento strutturale del sistema di Ricerca e Innovazione dell'Italia.

Negli ultimi due anni le politiche per Ricerca e Innovazione hanno registrato alcuni sviluppi con l’approvazione, tardiva, del Programma nazionale della ricerca 2015-2020, il lancio di Industria 4.0, l’estensione degli incentivi fiscali per la R&S privata per il periodo 2015-2020, la strategia di specializzazione intelligente nazionale, i finanziamenti per le università meritevoli in base ai risultati della valutazione della qualità della ricerca. Tuttavia, la crescita della spesa totale per R&S è stata modesta e l'ammontare delle risorse pubbliche è stato notevolmente ridotto dall'inizio della crisi: dal 2008 al 2016 la spesa pubblica per R&S è diminuita in termini reali del 20% e dal 2008 al 2014 la spesa pubblica per le università statali è stata ridotta del 14%.

La figura 1 mostra l’andamento della spesa totale per R&S in Italia, Francia e Germania in termini reali tra il 1995 e oggi. La divaricazione delle attività è diventata significativa con un ritardo italiano che si va allargando.

Figura 1 Spesa totale per R&S in Italia, Francia e Germania, anni 1995-2016, in milioni di euro in PPS, prezzi anno 2005. (Fonte: Eurostat)

La figura 2 mostra la caduta degli stanziamenti di spesa pubblica per R&S che risente direttamente delle politiche di austerità introdotte nell’ultimo decennio e che è alla radice dell’aggravarsi del ritardo italiano in questo campo. Con la crisi, il divario con i maggiori Paesi europei si è ulteriormente ampliato per molti indicatori quali la spesa privata in R&S, il numero di studenti dell’università e i laureati.

Figura 2 Gli stanziamenti pubblici per la R&S in Italia, anni 2008-2016, in milioni di euro in PPS, prezzi 2005. (Fonte: Eurostat)

Oltre alla scarsità di risorse, le recenti politiche per la ricerca e l'innovazione presentano alcuni aspetti problematici. Non esiste una politica della domanda pubblica che sostenga la ricerca e gli investimenti innovativi delle imprese. Gli incentivi per la ricerca e l’acquisto di nuovi macchinari restano misure "orizzontali", che mantengono il modello di politica industriale degli ultimi decenni, inadeguato a indirizzare le imprese ad acquisire le competenze tecnologiche per competere in settori chiave. Le politiche recenti per l’università e il programma Industria 4.0 hanno quantomeno individuato aree prioritarie su cui concentrare le risorse, ma si rivolgono a un numero troppo ristretto di imprese già attive nel campo dell’innovazione digitale. Insieme alle politiche recenti per l’università esse possono alimentare la polarizzazione del sistema, rafforzando poche eccellenze ma lasciando scivolare indietro il resto del sistema. Da questa analisi della politica di Ricerca e Innovazione dell'Italia scaturiscono quattro interrogativi.

Le imprese italiane possono crescere senza tecnologia?

Nonostante la presenza di un gruppo significativo di imprese innovative capaci di esportare, l'economia italiana è caratterizzata da un ampio numero di micro imprese e di piccole imprese con limitatissime attività di R&S. La concentrazione industriale nelle attività tipiche del "Made in Italy" è generalmente associata ad attività a bassa e media tecnologia. Rispetto ai principali Paesi dell'UE la struttura economica dell'Italia continua a registrare una scarsa presenza nei settori ad alta tecnologia. Ci si può chiedere se queste caratteristiche delle aziende italiane rappresentino un limite strutturale alle possibilità di crescita economica.

Figura 3 Spesa per R&S e crescita del valore aggiunto nell’industria manifatturiera in Germania (DE) e Italia (IT), 1995-2014. 
Settori Pavitt rivisti: SB industrie basate sulla scienza; SS produttori di macchinari;
SI industrie ad alta intensità di scala; SD settori tradizionali

È interessante il confronto tra Germania e Italia riguardo all’evoluzione di lungo termine dell’intensità di ricerca e di crescita economica. La figura 3 mostra la spesa in R&S per dipendente e la crescita del valore aggiunto reale nei settori industriali per il periodo 1995-2014.

I settori manifatturieri sono stati aggregati in: settori basati sulla scienza, produttori di macchinari, a intensità di scala e settori tradizionali. Da tale figura si nota un doppio divario tra Italia e Germania, in qualche modo rappresentativo del contrasto più ampio tra centro e periferia dell'Europa. Il divario nella spesa per R&S per dipendente mostra il ritardo delle imprese italiane rispetto a quelle tedesche in tutti i settori. In particolare, nel settore basato sulla scienza le imprese italiane registrano un'intensità di spesa per R&S pari a circa la metà delle imprese tedesche; tale divario si ritrova in tutte le aggregazioni settoriali. Le imprese tedesche investono in ricerca molto di più delle imprese italiane anche nei settori tradizionali, nonostante questi siano al centro della specializzazione produttiva italiana.

Un secondo divario riguarda la crescita: il tasso di crescita del valore aggiunto reale in Germania è sempre due o tre volte maggiore dell'Italia. L’evidenza empirica mostra come la tecnologia sia importante per la crescita di entrambi i Paesi data la chiara relazione positiva fra gli investimenti in ricerca e crescita, ma Germania e Italia sembrano muoversi in due contesti differenti. In Germania le imprese nei settori basati sulla scienza, grazie a investimenti massicci per R&S, hanno registrato una crescita media vicina al 6% annuo da circa due decenni - una crescita vicina al livello dei Paesi dell'Asia orientale. I settori industriali tedeschi con le peggiori performance crescono al 3%, una crescita maggiore dei settori con le migliori performance in Italia. Tali dinamiche divergenti segnalano l’emergere di una nuova gerarchia nella tecnologia e nell'industria, e pongono importanti questioni sulla coerenza e coesione dell'economia europea1.

La questione se le imprese italiane possano sopravvivere e crescere senza puntare in maniera adeguata su investimenti in tecnologia è diventata di drammatica attualità. In realtà già oltre vent'anni fa, nel 1996, sostenevamo che "stiamo affrontando un indebolimento della base tecnologica dell'industria italiana, che aumenta il divario tra gli indicatori tecnologici (...). Con tale dinamica l'Italia perde terreno rispetto al circolo virtuoso tra tecnologia, crescita e occupazione comune ad altri Paesi avanzati”2.

All'indomani della crisi valutaria del 1992 e della ripresa basata sulle esportazioni grazie a un deprezzamento del 30% del tasso di cambio della lira, abbiamo sostenuto che "la svalutazione, la crescita trainata dalle esportazioni, il consolidamento nei settori industriali tradizionali e la riduzione del peso della tecnologia possa essere considerato un effetto della mancata espansione della presenza italiana nei settori ad alta tecnologia negli anni Ottanta". Il risultato è stato che "tra il 1980 e il 1994, l'occupazione nell'industria è diminuita di 1,4 milioni di posizioni lavorative, quasi un quarto del totale. Dopo la recessione degli anni Novanta, l'effetto combinato della fragilità tecnologica dell'industria, delle innovazioni labour saving, della divisione internazionale della produzione e della concorrenza in mercati più aperti potrebbe comportare un impatto ancora più profondo sul declino della produzione industriale e dell'occupazione in Italia"3.

La ricerca pubblica può sopravvivere con finanziamenti pubblici insufficienti?

Nell'ultimo decennio il sistema pubblico di Ricerca e Innovazione è stato indebolito dalle politiche di austerità che hanno colpito la spesa pubblica anche in questo settore. I fondi per l’università, gli enti pubblici di ricerca e il finanziamento della R&S privata e dell’innovazione evidentemente non rientravano tra le priorità politiche degli ultimi governi. La diminuzione del 19% in termini reali tra il 2008 e il 2016 degli stanziamenti pubblici per la ricerca - documentata nella precedente figura 2 - non trova eguali in Europa (a parte le economie in crisi, come la Grecia). Tale riduzione della ricerca pubblica e delle attività universitarie ha aggravato il rischio di perdere la massa critica necessaria per garantire qualità alla scienza e alla tecnologia. Paradossalmente i tagli hanno colpito proprio nel periodo in cui i ricercatori italiani, in gran parte delle università pubbliche, hanno registrato un elevato miglioramento della produzione scientifica. Come mostrato nella figura 4 la produttività scientifica in l'Italia, misurata dal numero di articoli scientifici (e/o dalle citazioni ricevute) per milione di spesa in R&S, è elevata e in crescita; questo è uno dei pochi indicatori in cui il Paese si trova dietro al Regno Unito e davanti alla Francia e alla Germania.

Figura 4 La produttività scientifica nei maggiori Paesi Ocse, anni 2011-2014. Numero di pubblicazioni scientifiche per spesa in R&S. Spese in milioni di dollari

Tuttavia con il sistema di ricerca pubblica in declino e con un numero elevato di professori universitari prossimi alla pensione, non compensato da un turnover adeguato, il successo scientifico italiano potrebbe essere solo temporaneo, con la prospettiva di svanire nei prossimi anni per il ridimensionamento del sistema pubblico data la scarsità di risorse. Tale contesto sta generando un'emigrazione di massa dei ricercatori più giovani, documentato dalle figure 4 e 5.

Figura 5 Flussi internazionali di autori scientifici, anni 2002-16. (Fonte: OECD 2017, p. 128)

L’Italia è il Paese europeo con la più alta emigrazione all’estero di ricercatori nell’ultimo decennio; i ricercatori e il personale altamente qualificato vanno verso altri Paesi dove le opportunità di lavoro e i fondi di ricerca sono migliori e dove il merito ottiene un maggior riconoscimento all’interno delle università.
Rovesciare il declino della ricerca pubblica e i flussi in uscita dei ricercatori italiani sono due priorità essenziali per la politica di ricerca del Paese.

Figura 6 I flussi degli autori scientifici tra l’Italia e gli altri Paesi, anni 2006-2016. (Fonte: OECD 2017, p. 129)

Il Paese può funzionare senza università?

La diminuzione dei finanziamenti pubblici alla ricerca pubblica ha condotto a un crollo delle risorse destinate alle università - meno 14% in termini reali tra il 2008 e il 2014 - e alla riduzione del personale di ruolo degli atenei - meno 20% tra il 2009 e il 2016. La crisi del 2008 abbinata al taglio dei fondi pubblici ha portato alla riduzione delle iscrizioni nelle università italiane con una contrazione del 20,4% tra l’anno accademico 2003-2004 e il 2014-2015. Solo negli ultimi anni le iscrizioni sono tornate timidamente ad aumentare, con l’eccezione degli atenei del Mezzogiorno. L’indebolimento del sistema universitario si ripercuote anche sulla quota di cittadini con istruzione universitaria. I dati dell'OCSE mostrano come, nel 2017, l'Italia possedeva una quota del 26,8% di giovani tra 25 e 34 anni con un diploma universitario, uno dei valori più bassi tra i Paesi dell'Unione Europea, inferiore alla Francia (44,3%), alla Spagna (42,6%) e alla Germania (31,3%)4.

L’istruzione e la qualità della forza lavoro rischiano di cadere in un circolo vizioso tra:

  • una struttura economica in cui prevalgono le tecnologie medio-basse
  • una modesta domanda di lavoro per laureati da parte delle imprese; una produttività stagnante per la combinazione di bassa tecnologia e scarse competenze del personale, con un divario in termini di innovazione e competitività rispetto ai principali Paesi europei
  • un ulteriore arretramento delle attività economiche con perdita di posti di lavoro e salari stagnanti

La precarizzazione del lavoro può essere vista come un modo per adattarsi a tali dinamiche discendenti con una ricerca di competitività di prezzo basata su costi del lavoro sempre più bassi - al contrario della competitività tecnologica tipica dei Paesi europei più avanzati - con uno spostamento verso bassi livelli di istruzione, bassa produttività, bassi salari e lavori precari. L'impatto negativo che una tale traiettoria di lavoro flessibile e precario può avere sulle prestazioni dell'innovazione è già stato studiato da molti autori5,6.

Si può lasciar crescere ancora il divario territoriale nella ricerca?

Il divario regionale nella ricerca e nell'innovazione in Italia è l'immagine speculare della divergenza tra l'Italia e i Paesi europei più avanzati. L'ultimo decennio ha visto un peggioramento delle disparità regionali a causa di diversi fattori. La recessione ha colpito in particolare le regioni del Centro Italia e il Mezzogiorno con una perdita di capacità tecnologica e produttiva. Nelle regioni più povere l'innovazione è stata scoraggiata dalla domanda stagnante; le attività di Ricerca e sviluppo si sono concentrate nelle regioni settentrionali più forti; le politiche di spesa pubblica in R&S, i finanziamenti pubblici alle università e gli incentivi fiscali alle imprese hanno contribuito ad ampliare le disparità regionali. Alcune regioni del Nord, in particolare la Lombardia e l'Emilia Romagna, possiedono standard di Ricerca e Innovazione all'altezza dei Paesi europei più avanzati, e sono sempre più integrate in sistemi produttivi e tecnologici internazionali. Le altre regioni settentrionali e centrali hanno perso terreno nelle loro capacità di ricerca, innovazione e produzione; il divario con il Mezzogiorno è diventato sempre maggiore.

Ci si potrebbe chiedere se una base territoriale troppo limitata per le attività di Ricerca e Innovazione possa essere un fattore limitante di fronte alla necessità di una massa critica sempre più grande necessaria per la competizione nella ricerca e nell'innovazione in Europa. Un’eccessiva dipendenza da pochi centri di eccellenza di R&S, di ricerca accademica e innovazione integrata nelle reti globali potrebbe ridurre la diffusione della conoscenza nell'economia e il trasferimento tecnologico alle imprese, limitando il contributo potenziale della ricerca allo sviluppo locale. Viceversa, una più ampia presenza regionale di R&S e di capacità innovative consentirebbe una diversificazione delle competenze, delle specializzazioni e delle attività economiche, consolidando un sistema di innovazione più robusto e articolato. La concentrazione degli sforzi di R&S nelle principali regioni settentrionali ha messo in moto un grande flusso migratorio interno di studenti universitari, di laureati in cerca di occupazione, di lavoratori altamente qualificati e di ricercatori. Da un lato tale fenomeno favorisce le regioni più forti, ma d'altra parte riduce la qualità del lavoro e le competenze disponibili nelle regioni "periferiche", con una caduta delle performance complessive. Una nuova politica diventa urgente per riequilibrare le asimmetrie territoriali, per prevenire un'ulteriore polarizzazione e un fattore di indebolimento del sistema di Ricerca e Innovazione italiano.

Il contesto europeo e internazionale

Queste sfide per la politica italiana non dovrebbero essere viste solo in un contesto nazionale. All'interno dell'Europa, c'è un crescente dibattito sul futuro della politica europea della Ricerca e Innovazione, con opinioni divergenti sulle priorità e sugli strumenti politici da adottare in Horizon Europe, il successore del programma europeo di ricerca Horizon 2020. Da un lato, vi è la pressione per concentrare le risorse dell'UE nei principali attori e nei settori di maggiore forza, con il rischio di peggiorare le divergenze in materia di Ricerca e Innovazione in Europa7. Dall’altro lato è stata proposta una nuova strategia basata su programmi di Ricerca e Innovazione "mission-oriented”, che riflettano più ampie priorità economiche, sociali e ambientali8.


A livello internazionale, un importante contributo è venuto dalle Accademie delle Scienze dei Paesi del G7 che nel 2017 hanno prodotto la dichiarazione congiunta "Nuova crescita economica: il ruolo di scienza, tecnologia, innovazione e infrastrutture"9,10. Il documento invita i governi a: "i) espandere gli investimenti e le capacità nelle scienze e nelle tecnologie precompetitive; ii) aumentare gli investimenti in infrastrutture - sia tangibili che intangibili - che contribuiscono allo sviluppo inclusivo e al progresso scientifico e tecnologico; iii) promuovere lo sviluppo di capacità per progettare, ingegnerizzare, produrre e fornire prodotti e servizi basati su nuove conoscenze scientifiche e tecnologiche; iv) promuovere l'accesso aperto - soggetto a norme appropriate in materia di proprietà intellettuale - ai progressi scientifici e tecnologici, impedendo nel contempo l'emergere di pratiche monopolistiche; v) condividere pratiche efficaci in politiche e programmi che promuovono l'innovazione, la diffusione tecnologica e lo sviluppo efficiente delle infrastrutture (...); vi) assicurare che vengano adottati appropriati quadri di governance, in modo che i benefici della scienza e della tecnologia siano pienamente realizzati, mantenendo la fiducia pubblica"11.


La dichiarazione sostiene che "sono necessari livelli crescenti di investimenti pubblici e privati nel campo della scienza e della tecnologia per affrontare le sfide di una crescita sostenibile e inclusiva" e che "le attuali lacune negli sforzi di R&S rendono più difficile l'accesso, l'adozione e l'espansione della conoscenza e dell'innovazione, limitando la realizzazione dei loro benefici. Le politiche pubbliche dovrebbero riconoscere il ruolo chiave che le spese per il progresso e la diffusione della conoscenza, della cultura, dell'istruzione superiore e dell'innovazione possono svolgere nel sostenere una crescita socioeconomica di alta qualità e che tali benefici superano molte preoccupazioni a breve termine per il bilanciamento delle finanze pubbliche". A tal fine, le Accademie G7 sostengono che "i governi possono svolgere un ruolo importante nello stimolare la nuova domanda attraverso programmi di ricerca pubblica mirati, appalti per i servizi pubblici e investimenti pubblici nelle infrastrutture"12.


Per quanto riguarda le imprese, la dichiarazione delle Accademie delle Scienze sostiene che "negli ultimi anni, molte imprese hanno realizzato investimenti limitati in ricerca e tecnologia - che richiedono lunghi orizzonti di investimento - e hanno favorito rendimenti di breve termine da attività finanziarie, presentando così un ulteriore minaccia alla crescita economica. Le politiche pubbliche potrebbero incoraggiare gli investimenti delle imprese con orizzonti temporali più lunghi, sostenendo anche progetti ad alto rischio"13.


Queste argomentazioni sono state sviluppate dalle Accademie delle Scienze del G7 "in linea con l'Obiettivo 9 dell'Agenda 2030 delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile, che consiste nel "costruire infrastrutture resilienti, promuovere un'industrializzazione inclusiva e sostenibile e promuovere l'innovazione". All'indomani della crisi economica del 2008 che ha rallentato la crescita mondiale, dobbiamo fare in modo che gli investimenti in scienza, tecnologia, innovazione e infrastrutture mostrino il loro contributo alla crescita mondiale sostenibile e inclusiva”14.

Gli argomenti della dichiarazione delle Accademie delle Scienze del G7 forniscono un quadro particolarmente appropriato per una strategia a lungo termine che combini investimenti privati e politiche pubbliche per ricostruire ed espandere le capacità di Ricerca e Innovazione dell'Italia.

 

Note
1. Celi G et al, Crisis in the European Monetary Union. A Core-Periphery Perspective, 2018 Routledge, London
2. Pianta M, “L’innovazione nell’industria italiana e gli effetti economici e occupazionali”, Economia e Politica Industriale, 1996; 89: 261-280; pp. 275-276
3. Ibid., p.276. Si veda anche Lucchese M, Nascia L, Pianta M, “Industrial policy and technology in Italy”, Economia e Politica Industriale - Journal of Industrial and Business Economics, 2016; 43, 3: pp.233-260, DOI 10.1007/s40812-016-0047-4
4. OECD - Education at a glance 2018, OECD, 2018, Paris
5. Cirillo V et al, (2017). “Labour market reforms in Italy: evaluating the effects of the Jobs Act”, Economia Politica, 2017; 34, 2: 211-232
6. Cetrulo A et al, “Weaker jobs, weaker innovation. Exploring the temporary employment-product innovation nexus”, Scuola Superiore Sant’Anna, ISIGrowth Working Paper, 6/2018
7. Come argomentato dal Rapporto Lamy. Lamy Report (2017) Lab-Fab-App - “Investing in the European future we want”. Report of the independent High Level Group chaired by Pascal Lamy, European Commission, DG Research and Innovation, 2017
8. Mazzucato M, “Mission-Oriented Research & Innovation in the European Union. A problem-solving approach to fuel innovation-led growth”, European Commission, DG Research and Innovation, 2018, Brussels
9. G7 Science Academies - New economic growth: the role of science, technology, innovation and infrastructure, 2017 Accademia Nazionale dei Lincei, Roma
10. Quadrio Curzio A, “The G7 of Scientific Academies: meetings and role”, Economia Politica, 2017; 34, 3: 361-362
11. G7 Science Academies, 2017, p. 1
12. G7 Science Academies, 2017, p. 2
13. Ibid, 2017
14. G7 Science Academies, 2017, p. 1

 


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La storia della talidomide, con le sue drammatiche conseguenze, ha segnato un punto di svolta per la medicina e la regolamentazione farmaceutica. Le parole di Giulio Maccacaro, del quale ricorrono nel 2024 i cent'anni dalla nascita, ci ricordano ancora oggi l'importanza della consapevolezza e della responsabilità collettiva.

Crediti immagine: modificata da Kai Oesterreich/Wikimedia Commons. Licenza: CC BY-SA 3.0

Lo studente, diciottenne, che si è appena iscritto in una nostra università per laurearsi medico tra sei anni, può intendere il titolo di questo libro? Conosce il significato di “talidomide”? Immagina il “potere dell’industria farmaceutica”? Io, suo insegnante, posso rispondere, negativamente, per lui che era appena scolaro delle elementari quando termini come “talidomide” e focomelia”, nomi come Chemie Grünenthal e Contegan facevano titolo su tutti i giornali del mondo.