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Robert Gallo, l'AIDS e un Nobel negato

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Robert Gallo è il direttore dell’Institute of Human Virology presso la University of  Maryland School of Medicine di Baltimora, negli Stati Uniti. È considerato tra i massimi esperti al mondo di Aids e del virus che lo causa, l’Hiv. Tra il 1983 e il 1984 è stato il primo a dimostrare che la causa di una nuova malattia, l’Aids appunto, doveva essere attribuita a un retrovirus, poi chiamato Hiv. Per alcuni anni c’è stata una disputa sulla priorità della scoperta, rivendicata anche dal francese Luc Montagnier. Oggi tutti riconoscono che Gallo e Montagnier hanno realizzato entrambi la scoperta, l’uno indipendentemente dall’altro. Inoltre Robert Gallo, in quegli stessi mesi d’inizio anni ‘80, mise a punto con il suo gruppo un test per l’identificazione del virus Hiv nel sangue umano, divenuto decisivo per la diagnosi dell’infezione. Lo scorso mese di ottobre Luc Montagnier, insieme a Francoise Barrè Sinoussi, è stato insignito del premio Nobel per la scoperta del virus Hiv. Il premio, non senza qualche sorpresa, non è stato assegnato a Robert Gallo. Il virologo americano è venuto di recente a Napoli, per partecipare a un convegno. Lo abbiamo incontrato. E gli abbiamo posto qualche domanda. L’intervista è stata trasmessa da Radio3Scienza, sulla terza rete radiofonica della Rai ed è possibile riascoltarla in podcasting.

Robert Gallo, l'isolamento 25 anni fa da parte sua del virus Hiv e la scoperta che è la causa principale della Sindrome da immunodeficienza acquisita, l'Aids, ci aveva indotto a sperare che presto avremmo avuto un vaccino in grado di prevenire la nuova malattia. È passato un quarto di secolo e questa speranza non si è realizzata. Perché?

Vorrei sottolineare, in primo luogo, che la ricerca di base sul virus Hiv ha realizzato progressi pratici davvero enormi. Per la prima volta nella storia della medicina siamo riusciti a mettere a punto una terapia contro un virus. Una terapia davvero efficace, in grado di assicurare una vita ragionevolmente lunga e un certo benessere alle persone infette da Hiv e con la malattia conclamata. Vorrei sottolineare anche che abbiamo iniziato a sviluppare la ricerca su questa terapia intorno al 1985 e già nel 1995 avevamo toccato un apice. Vorrei poi ricordare che ancora prima della terapia, tra il 1983 e il 1984, nel mio laboratorio e sotto la mia direzione è stato messo a punto il test per rilevare la presenza del virus Hiv. Il test si è diffuso ben presto in tutto il mondo ed è servito per tenere sotto controllo lo sviluppo dell’epidemia e soprattutto per garantire la sicurezza nelle trasfusioni di sangue. Ora posso rispondere alla sua domanda. Le faccio un esempio. Consideriamo l’influenza. Ogni anno abbiamo un vaccino diverso contro il virus dell’influenza. Un vaccino che funziona oggi contro un virus specifico o contro un ceppo virale non è detto che funzionerà il prossimo anno. Il motivo è semplice: si chiama estrema variabilità. Quando un virus della comune influenza si replica, riproducendo se stesso, va spesso incontro ad alcune mutazioni a variazioni della sua struttura genetica. In altri termini cambia e ci obbliga spesso a trovare un nuovo vaccino. Ma la variabilità di un virus dell’influenza è nulla rispetto alla capacità di variare del virus Hiv. Il virus dell’Hiv cambia in maniera straordinaria e quasi imprevedibile. E questo costituisce un ostacolo allo sviluppo di un vaccino.

Lei pensa che l'estrema capacità di mutazione del virus Hiv sia il principale ostacolo allo sviluppo di un vaccino?

No. Molti miei colleghi risponderebbero sì alla sua domanda. Ma io penso che la variabilità di Hiv sia un ostacolo allo sviluppo del vaccino, ma non il principale ostacolo. A mio avviso, l’ostacolo principale è rappresentato dal fatto che Hiv è un retrovirus. I suoi geni si installano nell’organismo con estrema velocità, immediatamente dopo l’infezione. In due giorni al massimo dopo il contagio, Hiv si è già diffuso in tutto l’organismo. Questo crea un enorme problema di blocco. È molto difficile bloccare il virus al momento del contagio o addirittura prima. Prenda il caso dei virus della poliomielite o dell’influenza: essi si diffondono nell’organismo con più lentezza. Ciò significa che, una volta vaccinati, quando si verifica un nuovo contagio il nostro sistema immunitario ha il tempo di organizzare la sua reazione e di sventare il tentativo di invasione. Il retrovirus Hiv, invece, va immediatamente a colpire il Dna nelle cellule cosiddette cellule T, i linfociti, dove si replica e muta. Negli ultimi anni il abbiamo avuto dei progressi nei nostri tentativi di far espandere la risposta immunitaria, in modo da tale da coprire le principali variazioni del retrovirus. Ma è difficile dire quanto è possibile estendere e per quanto tempo la copertura immunitaria. Questo è oggi, a mio avviso, il grande problema aperto per lo sviluppo del vaccino.

Lei prima ha accennato al fatto che, per la prima volta, abbiamo delle terapie efficaci contro il virus. Pensa che in questo settore potremo avere degli ulteriori progressi?

Nei prossimi anni certamente avremo dei metodi più aggressivi e più tempestivi contro il virus. La terapia inizierà prima e sarà estesa a un maggior numero di persone, dando in primo luogo la possibilità a tutti – anche alle persone che vivono nei paesi in via di sviluppo – di accedere ai test ematici per verificare se le persone sono infettate e nei casi positivi di iniziare precocemente la terapia. Identificare prima il virus, significa diminuirne la capacità di diffusione aumentare la capacità di controllo dell’epidemia.

Questo è uno dei grandi temi alla frontiera tra scienza medica e società. Le terapie sono molto costose e la loro somministrazione richiede una certa organizzazione. Nei paesi poveri - penso in primo luogo all'Africa sub-sahariana - non ci sono né le risorse né le strutture per rendere le terapie davvero accessibili a tutti. Questo spiega perché nell'Africa sub-sahariana ci sono di gran lunga sia il maggior numero di persone infette da Hiv sia il maggior numero di morti per Aids. Professor Gallo come superare gli ostacoli che impediscono a milioni di persone di accedere alle terapie che voi ricercatori avete messo a punto?

Non solo è possibile superare quegli ostacoli, ma molto è già stato fatto. Solo dieci anni fa non si faceva assolutamente nulla per contrastare la diffusione dell’Aids nell’Africa sub-sahariana. Oggi solo il mio istituto, l’istituto di virologia umana di Baltimora per cui lavoro, sta monitorando mezzo milione di persone in Africa. E presto altre 300.000 saranno aggiunte.  Il nostro scopo è di consentire l’accesso alle terapie a tutte queste persone. Ma questo non è che un esempio dei tanti. Gli Stati Uniti già con il presidente Bush aveva lanciato un piano di emergenza contro l’Aids nei paesi in via di sviluppo che ora è stato rilanciato con maggior forza dal presidente Obama. È un piano che funziona, perché raggruppa non solo università e medici americani, ma anche forze mediche e scientifiche locali. Gli aiuti americani in un primo momento ammontavano a 15 miliardi di dollari. Obama li ha portati a 50 miliardi di dollari. Si tratta di un impegno effettivo. Tuttavia sottolineo che, oltre agli aiuti internazionali, è necessaria la collaborazione a livello locale, perché l’Aids, la sua gestione, la sua cura sono fenomeni complessi. Se, per esempio, la terapia è mal diretta crea più problemi di quanti ne risolva, perché favorisce la capacità di adattamento e di resistenza ai farmaci da parte del virus. Non basta, dunque, dare soldi e mandato a una qualche organizzazione internazionale – all’Organizzazione mondiale di sanità, per esempio – di risolvere il problema, occorre che a livello locale ci sia una effettiva partecipazione alla gestione dell’intervento.

 A proposito di gestione complessa del problema Aids. Lei sarà certamente al corrente del recente intervento del Papa, secondo cui la prevenzione mediante il preservativo non funziona o, almeno, non funziona come si vuol far credere. Molti medici hanno reagito con una certa durezza a queste dichiarazioni. Sostengono che il metodo funziona e non è responsabile metterlo in discussione. Lei cosa ne pensa?

In primo luogo vorrei capire quali sono esattamente le parole pronunciate dal papa e in che contesto, perché non basta estrapolare una frase da un discorso. Occorre leggere almeno un paragrafo. Devo dire, però, con nettezza che se ben utilizzato il profilattico certamente è un mezzo efficace di prevenzione del contagio e diminuire sensibilmente l’infezione per via sessuale. Ci sono, tuttavia, alcuni studi che dimostrano come forzando troppo l’uso del profilattico fa sì che le persone diventino sessualmente più attive e tendano ad assumere atteggiamenti poco corretti, dimenticando, per esempio, di usare in maniera appropriata il profilattico. Ma ripeto, non c’è dubbio alcuno che usando in maniera appropriata il profilattico si fa una prevenzione efficace e si diminuisce la diffusione dell’infezione.

Professor Gallo, viviamo in un anno darwiniano. Sono duecento anni dalla nascita di Charles Darwin e centocinquanta dalla pubblicazione dell'Origine delle specie. Lei stesso ha parlato della straordinaria capacità di mutazione e di adattamento del virus Hiv. Si sta realizzando quel principio che gli evoluzionisti chiamano «corsa della regina Rossa» tra uomini e virus, tutti corrono sempre più forte per non perdere terreno. Pensa che la medicina evolutiva - col suo approccio darwiniano - possa essere utile nella lotta al virus Hiv e più in generale contrastare il cosiddetto ritorno delle malattie infettive?

Beh, sì e no. Con un approccio darwiniano potremo certo contrastare meglio alcune malattie, ma altre no. La teoria dell’evoluzione ci può aiutare a capire cosa faranno certi agenti infettivi, ma non sempre ci potranno dire come contrastarli. Quanto al riemergere delle malattie infettive, questo è vero proprio a causa del virus Hiv. Nel senso che la presenza del virus indebolisce talmente il sistema immunitario delle persone da favorire l’aggressione da parte di altri agenti infettivi. È il caso della tubercolosi. L’agente infettivo della tubercolosi sta ritornando a colpire soprattutto a causa del virus dell’Hiv. Senza l’Hiv il ritorno della tubercolosi sarebbe stato certamente meno importante. Certo ci sono anche altri problemi. Ultimamente si parla molto delle infezioni ospedaliere, da stafilococco e da streptococco, che aumentano a causa di un massiccio e a tratti smodato uso degli antibiotici. La selezione darwiniana, dunque, non può spiegare tutto ciò che accade.

Lei è stato - ed è riconosciuto - come uno dei grandi protagonisti di tutta la storia della scoperta e del contrasto dell'Aids. Eppure quando nei mesi scorsi questa azione di studio e di contrasto è stata giudicata degna del premio Nobel, a Stoccolma hanno premiato altri - compreso Luc Montagnier - ma non lei. Lo stesso Luc Montagnier - con cui pure in passato c'erano state discussioni in merito alla priorità dell'isolamento del virus Hiv - ha definito ingiustificata la sua esclusione. Lei ha dichiarato di non essere rimasto particolarmente amareggiato nell'apprendere la notizia. Ma come si spiega questa esclusione?

Sa, con l’età che mi ritrovo so valutare esattamente – molto meglio di chiunque altro, compresa l’Accademia delle scienze di Stoccolma – cosa ho fatto e cosa non ho fatto. E poi mi ritengo molto fortunato: ho avuto tantissimi altri premi, in moltissimi altri paesi. Talvolta insieme al professor Montagnier, altre volte senza il professor Montagnier. Davvero non ho nulla di cui lamentarmi. La mia carriera è stata piena di successi e di riconoscimenti. Dal punto di vista del premio Nobel, ricordo benissimo la mattina dell’annuncio. Ero in partenza per il Sud Africa e ho ricevuto due telefonate. La prima da parte di un giornalista dell’Upi – un giornalista che conosco molto bene – che mi ha svegliato alla 4 del mattino, ponendomi la sua stessa domanda: cosa ne pensi della tua esclusione? Io non sapevo nulla ed ero ancora addormentato. Lui mi ha spiegato. E io sono rimasto sorpreso e, come dice lei, un po’ amareggiato. Ma nulla di più. Così ho risposto al giornalista: fai i complimenti a nome mio a chi è stato premiato. La seconda telefonata è stata, per l’appunto, da parte di Luc Montagnier. Mi ha detto che si sentiva un po’ a disagio e che la mia esclusione era stata una scelta sbagliata. E quindi cosa dire: meglio di così … La mia risposta a Montagnier fu: non preoccuparti per me, sii felice per te stesso, perché il premio Nobel te lo sei meritato. Poi sono partito per il Sud africa e, devo dire, non è che in seguito abbia pensato più di tanto alla faccenda. Vede negli Stati Uniti abbiamo un proverbio: tutti amano il vincitore. Con me non è stato così. Molti hanno amato il perdente. Dopo di allora ho avuto un sacco di premi e nei prossimi giorni vado in Israele a ritirarne uno da un milioni di dollari: molto più di quanto mi avrebbero dato a Stoccolma. Infine, da un punto di vista scientifico, ci sono ancora molte cose da fare. Io sono sul campo. E quindi non è detto che in futuro anche a Stoccolma … Anche perché il prossimo 9 maggio, prima dell’assegnazione del prossimo Nobel, si terrà a Baltimora ci sarà una riunione dove il professor Montagnier riconoscerà pubblicamente l’importanza dei quattro lavori da me pubblicati all’inizio del 1984 su Science e su Lancet sia sul ruolo del virus Hiv nell’Aids sia sui test ematici per rilevare il virus.


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Crediti immagine: Kelly Lambert/The Conversation. Licenza: CC BY-ND 4.0

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