Se da un lato ci si chiede quali saranno le ripercussioni dal punto di vista economico, dall’altro è doveroso chiedersi quali saranno i lasciti riguardanti la sfera psicologica che questo lungo periodo di quarantena si porterà dietro.
Immagine: Pixabay License.
Salute mentale prima, durante e dopo il lockdown
Il 26 febbraio, mentre in Italia cominciavano a moltiplicarsi i casi di Covid-19, su The Lancet usciva una Rapid Review sull’impatto psicologico della quarantena per esplorare i suoi probabili effetti sulla salute mentale [1]. Partendo da 3166 pubblicazioni, la Review ha focalizzato la sua attenzione su 24 di questi, condotti in dieci paesi. Nello specifico riguardavano persone con SARS (undici studi), Ebola (cinque), l’influenza H1N1 del 2009 e 2010 (tre), sindrome respiratoria del Medio Oriente (due) e influenza equina (una). In ognuno di questi casi era stata adottata come misura di contenimento proprio la quarantena.
La maggior parte degli studi esaminati ha riportato effetti psicologici negativi quali sintomi di stress post-traumatico, confusione, rabbia, paura, dolore e insonnia indotta dall’ansia. I fattori di stress includevano una maggiore durata della quarantena, paure d’infezione, frustrazione, noia, forniture inadeguate, perdite economiche e stigma.”
Tra i fattori di stress è inclusa anche l’informazione inadeguata. La Rapid Review riporta infatti che dopo l’epidemia della SARS di Toronto del 2003, i partecipanti hanno percepito che la confusione derivava da come variava lo stile, l’approccio e il contenuto dei vari messaggi di sanità pubblica a causa del cattivo coordinamento tra i molteplici livelli di governo coinvolti; in più lamentavano una mancanza di linee guida chiare sulla natura del rischio che hanno affrontato e sul motivo del perché fossero stati messi in quarantena. Garantire una buona comprensione della malattia in questione e le ragioni della quarantena, dovrebbero essere la priorità.
The Lancet Psychiatry ha pubblicato, lo scorso 21 luglio, uno studio [2] che, secondo uno dei suoi autori, Matthias Pierce dell’Università di Manchester, sarebbe in grado di “tracciare i cambiamenti nella salute mentale della popolazione del Regno Unito da prima della pandemia Covid-19 fino al successivo periodo di lockdown” [3]. Lo studio, effettuato tramite un sondaggio su 17.452 persone, ha rilevato che più di un quarto delle persone ha riportato livelli di disagio mentale clinicamente rilevanti alla fine di aprile 2020, rispetto a una persona su cinque prima dell'isolamento (27,3% e 18,9% rispettivamente).
L’autrice Sally McManus, della City University of London, ha detto: “La pandemia ha acuito le differenze negli stili di vita delle persone. In particolare, abbiamo scoperto che, nel complesso, le disuguaglianze già esistenti nella salute mentale delle donne e dei giovani si sono ampliate” e “allo stesso tempo sono emerse nuove disuguaglianze soprattutto per coloro che vivono con bambini in età prescolare.” Viene sottolineato invece, come il disagio mentale maschile non in aumento in questo sondaggio, potrebbe manifestarsi in modalità differenti, come l’abuso di alcol. È stato riscontrato inoltre un aumento del disagio mentale in coloro che avevano un lavoro prima della pandemia, perché magari licenziati a seguito dell’emergenza sanitaria, oppure preoccupati di rimanere senza lavoro o semplicemente per le mutate modalità lavorative. Ancora un’altra autrice, Kathryn Abel, dell'Università di Manchester, afferma che “mentre l'infezione da COVID-19 rappresenta un rischio maggiore per la salute fisica delle persone anziane, il nostro studio suggerisce che la salute mentale dei giovani è stata colpita in modo sproporzionato dagli sforzi per fermare la pandemia.”
Valeria Locati, psicologa e psicoterapeuta della famiglia e blogger di Una psicologa in città, che ha vissuto da professionista di salute mentale il lockdown, ci spiega come ci sia “stata una sorta di paura iniziale dettata dal contagio fisico e dall’emergenza sanitaria, che però lentamente ha dato il via anche a tutti quelli che sono stati i disagi nel dover gestire presenza e assenza. Ci sono state anche situazioni nelle quali l’ansia non era soltanto personale ma nella relazione. Un doppio livello di ansia se vogliamo.” In generale, come già accennato, l’improbabile condizione di confinamento vissuta dalle persone ha acuito molti dei problemi esistenti, anche se con qualcosa in più. Nella fattispecie, risulta interessante quella che viene chiamata “sindrome del prigioniero” o “sindrome della capanna”. Come ci dice Locati, “un insieme di situazioni, sensazioni, percezioni che si sviluppano prevalentemente quando si è esposti a un evento traumatico come è stato quello del lockdown. Arriva dagli Stati Uniti e fa riferimento al trascorrere i mesi invernali all’interno di contesti caldi, protetti e sicuri e poi dal dover uscire in primavera e temere il mondo esterno avendo trascorso tanto tempo in una logica di protezione, si fatica a ricominciare a uscire, riprendere quelle abitudini come la socializzazione all’aperto.” Se si pensa che il lockdown ha toccato una quantità di persone molto elevata rispetto a una situazione ordinaria, è verosimile pensare che tale sindrome abbia colpito un numero cospicuo di pazienti.
Salute mentale degli operatori sanitari
Eroi. Questo è il termine più utilizzato e forse di cui si è più abusato per definire il personale sanitario durante l’emergenza Covid-19. Se da una parte l’utilizzo di questo termine è spinto dalla voglia di riconoscere un merito in chi ha avuto un ruolo centrale durante questa emergenza sanitaria, dall’altra, come afferma lo psichiatra Damir Huremovic nel suo Psychiatry of Pandemics, questo può risultare controproducente per il benessere psichico del personale sanitario portandolo a sentirsi inadeguato e imprigionato in un ruolo salvifico per la società che così facendo invece si deresponsabilizza.
Si rischia di dimenticare come medici, infermieri, operatori socio sanitari in situazioni di emergenza siano stati messi alla prova su due fronti: da una parte il lavoro in prima linea aggravato da un persistente rischio di esposizione e morte, turni più lunghi e stancanti, mancanza di materiale protettivo adeguato e la disperazione di veder morire pazienti, e anche colleghi, ai quali si sono dedicate le proprie giornate e la propria professionalità. Dall’altra come donne e uomini, intenti a gestire la propria fatica, paura e a volte inadeguatezza di fronte a una situazione ingestibile, con una famiglia e dei cari a casa da proteggere.
Non stupisce infatti che studi effettuati su infermieri che hanno curato pazienti durante l’epidemia di SARS del 2003 [4] abbiano presentato elevati livelli di stress e tassi dell’11% di reazioni traumatiche da stress, inclusi depressione, ansia, ostilità e sintomi di somatizzazione. Uno studio sul Canadian Journal of Psychiatry del 2007 [5] ha addirittura dimostrato come anche un anno dopo l’epidemia di SARS, i sopravvissuti tra gli operatori sanitari avevano ancora livelli persistentemente più elevati di stress e disagio psicologico. Questo indica come i bisogni e le ferite emotive rischino di ripercuotersi a lungo, forse per molti anni, dopo che un’emergenza sanitaria si è placata.
Uno squilibrio a livello emotivo e di personalità rischia di compromettere il benessere del professionista con un consequenziale aumento di stress legato al lavoro e sindrome di burnout, la quale a sua volta può portare stanchezza, insonnia, responsabilità emotiva, frustrazione e ansia. Come viene riportato dallo studio pubblicato nel 2019 sul Journal of the Intensive Care Society condotto dalla rianimatrice Laura Vincent [6] su rianimatori e staff delle unità di cure intensive già prima dell’emergenza Covid-19. La sindrome di burnout minaccia l'assistenza ai pazienti, un aumento dell'assenteismo e del turnover del personale, una riduzione della sicurezza e dell'efficienza e maggiori costi.
Per prevenire il burnout degli operatori sanitari sarebbe quindi utile sviluppare a livello nazionale – in situazioni di emergenza sanitaria o situazioni particolarmente stressanti per gli operatori – un sistema di auto aiuto, denominato buddy system, dove due colleghi operanti nella stessa unità possano monitorarsi e prestarsi aiuto vicendevolmente, in modo da rispondere ad una esigenza di supporto emotivo per tenere sotto controllo un eventuale senso di solitudine e stress.