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La salute umana vale quanto la sostenibilità del pianeta

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Crediti: jplenio/Pixabay. Licenza: Pixabay License

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Pubblichiamo i commenti di Giuseppe Bertoni, professore di zootecnia in quiescenza e presidente dell’Associazione Ricercatori Nutrizione Alimenti, all'articolo “Una dieta per l'Antropocene”, pubblicato su Scienza in rete a giugno; di seguito, la risposta di Paolo Vineis, Roberto Cingolani e Luca Carra, autori dell'articolo.

Il 3 giugno è uscito su Scienza in rete l’articolo di Vineis, Cingolani e Carra dal titolo “Una dieta per l’antropocene”, che si riallaccia a un analogo contributo uscito sullo stesso giornale (“Nutrizione per la salute dell’uomo e del pianeta” di Serafini, Del Rio e Battino). Ambedue gli articoli insistono sul “rapporto impatto ambientale/valore salutistico al fine di suggerire regimi alimentari (apporti raccomandati e frequenza) in grado di tutelare la salute dell’uomo e quella del pianeta” con una serie di proposte strategiche che includono una riduzione del 50% degli sprechi di cibo, la decarbonizzazione della produzione e distribuzione del cibo e l’intensificazione tecnologica della produzione di cibo per ridurre l’uso di territorio.” Come non essere d’accordo con chi pone attenzione non solo alla sostenibilità della dieta, ma anche alla salute degli esseri umani e inoltre parla di intensificazione tecnologica per ridurre le aree coltivate e il loro impatto ambientale?

Eppure esiste un problema, quello, a mio parere, di aver preso spunto dal rapporto EAT-Lancet pubblicato recentemente dalla rivista medica The Lancet che, in buona sostanza, suggerisce di convertire la dieta del genere umano in vegetariana, o quasi, attribuendo agli animali e ai loro prodotti importanti effetti negativi non solo sulla salute umana ma anche sulla produzione di gas clima-alteranti (i famigerati gas serra: anidride carbonica, metano e protossido d’azoto). In merito a tale documento, nel mio precedente contributo “Alimenti di origine animale, dieta umana e sua sostenibilità”, pubblicato l’11 febbraio 2019 sulla rivista AGRICULTURE (della Federazione dei Laureati in Scienze Agrarie e Forestali), osservavo quanto segue:

  • nessun componente della Commissione EAT-Lancet che ha redatto il rapporto proviene realmente dalla produzione primaria (agricola); infatti vi sono solo due-tre ricercatori di Facoltà d’Agraria o similari, ma comunque appartenenti a dipartimenti di tipo socio-economico-ambientale (lo stesso dicasi per Vineis, Cingolani e Carra)
  • nell’introduzione si riconosce l’effetto positivo, nell’ultimo mezzo secolo, dell’aumento produttivo (anche animale ovviamente) nel ridurre fame e malnutrizione, per poi enfatizzarne la “deriva dietetica” perversa in quanto causa di obesità (giustamente ritenuta “madre” di tutte le malattie non trasmissibili). Nel far ciò si trascura tuttavia il fatto che come evidenzia il World Cancer Research Fund nel suo Report del 2018 la causa principale dell’obesità risiede nell’eccesso di zuccheri, amidi raffinati e grassi in genere; dunque non dei soli alimenti di origine animale che sono insufficienti specie nei Paesi poveri e in transizione (e si noti che in questi ultimi l’aumento dell’obesità è il più elevato del globo)
  • sempre nell’introduzione si dice che il 30% dei gas serra è di origine agricola (metà vegetali e metà animali) e che il 70% dell’acqua è utilizzata per la produzione di cibo, ma non si aggiunge che si tratta di stime estreme. Ad esempio, per le stime sulle emissioni di gas serra si include la deforestazione che – oltre a talune forme irrazionali di agricoltura (i.e. agricoltura itinerante) – annovera cause ben diverse dalla produzione di cibo (e comunque non solo animali, ma anche olio di palma e altre piantagioni da frutto) e fra queste l’uso dei prodotti forestali come combustibili o legname da opera. Tutti usi che poco hanno in comune con l’agricoltura, specie dei Paesi più efficienti, dove le foreste aumentano

Così per l’acqua si dice che il 70 % di acqua è usata per l’irrigazione ma non si dice che l’irrigazione è un potentissimo fattore di sicurezza alimentare in quanto non solo accresce potentemente le rese delle colture (fino a 18 tonnellate per ettaro per un mais irriguo contro le 6 per un mais non irriguo) ma le stabilizza limitandone la variabilità interannuale. Da ciò discende che solo il 20% degli arativi è irriguo ma produce ben il 40% del cibo mondiale e inoltre l’acqua usata per l’irrigazione riprende poi il suo ciclo naturale tornando all’atmosfera o alle falde. A ciò va anche aggiunto che il 60% del cibo mondiale è prodotto senza irrigazione, usando solo acqua piovana non passibile di altri impieghi.

Coerentemente Vineis, Cingolani e Carra, che ripetono gli stessi concetti su La Stampa del 26 giugno, puntando in questo caso sull’aspetto della sostenibilità ambientale, ammettono che il contributo dell’agricoltura alla CO2 equivalente rilasciata dalle attività umane è l’11% (ben diverso dal 30%), ma poi paiono non resistere alla tentazione di caricare tutte le emissioni su carne (e animali), aggiungendo: “…di cui la maggior parte si deve all’allevamento…” per poi citare anche lo spreco di acqua: “…il consumo di acqua associato alla produzione di carne è elevatissimo: un terzo dell’acqua usata globalmente nella produzione di cibo riguarda gli allevamenti.”

Se fossero del settore agricolo, i predetti autori saprebbero anzitutto che, usualmente, si reputa essere vicina al 50% la quota di CO2 equivalente agricola rilasciata dalle coltivazioni (specie le risaie che emettono moltissimo metano) mentre il restante dipende dagli animali (ma dal rumine, non dall’intestino). Così saprebbero, con riferimento all’acqua, che se il 60% del cibo mondiale è prodotto senza irrigazione e una quota rilevante di carni (ruminanti) è prodotta sui pascoli, la copiosa acqua necessaria per produrre carne è in larga misura quella piovana. Di qui il quesito: a cosa servirebbe quest’acqua – che si è accumulata nel suolo - se non fosse utilizzata dalle piante per crescere e quindi produrre cibo direttamente o dopo essere state “pascolate” dagli animali?

Per inciso, ricordiamo che quanto suggerito da Vineis et al., e cioè che il 40% (in realtà il 35%) delle terre emerse è occupata dall’agricoltura, non considera che solo il 12% (1,5 miliardi di ettari) è costituito da arativi mentre il restante 23% (3,2 miliardi di ettari) è costituito da aree semi-naturali quali praterie, steppe eccetera, il cui utilizzo avviene solo grazie agli animali, con pochissimi input e probabilmente con un bilancio del carbonio favorevole. Né il lettore deve dimenticare che molti alimenti destinati agli animali (paglie, cruscami, farine residue degli oleifici, semi di cotone, polpe di bietola e di frutti usati per succhi e altre conserve vegetali, siero di latte dei caseifici, farine di pesce ecc.) rappresentano un esempio positivo di “economia circolare”: da un scarto costoso da trattare, si ottiene un alimento “ricco”.

Gli stessi autori, traendo informazioni dal predetto documento di Lancet, sono estremamente drastici anche in relazione alla salute: “La carne rossa non è essenziale ed è associata linearmente con la mortalità”, mentre su La Stampa viene “precisato” che ridurla “…aiuterebbe a prevenire molte malattie degenerative e infettive.” Si tratta evidentemente di considerazioni generiche, per certi versi comprensibili per le malattie degenerative (visto che lo IARC ha incluso la carne rossa nel gruppo 2A delle sostanze cancerogene, cioè quelle con azione cancerogena dimostrata solo negli animali da laboratorio), ma non certo per quelle infettive, in relazione alle quali la carne svolge un’importate azione preventiva potenziando il sistema immunitario.

In particolare mi sia allora consentito ricordare che nel terzo report del World Cancer Research Fund (2018) si eleva da 70 a 85 g/die la quantità massima di carni rosse per un consumo senza rischi e si continua a non porre limiti per latte o uova. Vi si richiama invece l’attenzione sulle cause di sovrappeso e obesità che – oltre all’insufficiente attività fisica – sono da ricercare negli alimenti troppo ricchi di grassi (animali e vegetali), unitamente a cibi amidacei raffinati e zuccheri (dunque vegetali), come detto in precedenza.

Ancora con riferimento alla salute, giova far notare che ai più pare essere sfuggito quanto lo stesso Report EAT-Lancet evidenzia in un box e cioè che le raccomandazioni alimentari suggerite vanno applicate con molta cautela nei Paesi dove l’agricoltura è di sussistenza. Il riconoscimento è a dir poco curioso, poiché in tali Paesi la dieta è prettamente vegetariana (e dunque è quella che EAT-Lancet raccomanda) e nonostante ciò è oggi unanimemente riconosciuta come la principale causa della malnutrizione, specie nei bambini da 3 a 6 anni.

La circostanza non è trascurabile, poiché non stiamo parlando di pochi milioni di persone, ma di circa il 50% dell’intera umanità che, in tali Paesi, fruisce di una dieta prevalentemente vegetale (cereali, manioca, patate e così via, quindi in massima parte prodotti amidacei) con poche frutta e verdure non amidacee, pochissimi alimenti di origine animale e anche pochi legumi (per una ragione molto semplice: la loro produzione per ettaro è mediamente pari a 1/3 di quella dei cereali), per cui modesto è lo stesso apporto di proteine vegetali. L’evidente squilibrio nutritivo, e in particolare la carenza proteica e di micronutrienti vari, spiega i problemi legati a questa dieta vegetariana. Tutto questo risulta poco comprensibile nei Paesi “occidentali” ove molti praticano diete “analoghe” senza gravi problemi poiché da noi, per ovvie ragioni logistiche e finanziarie, è presente un’amplissima varietà di cereali, di legumi, di ortaggi, di frutta e così via, e vi è inoltre una larga disponibilità di alimenti animali accettati dai vegetariani e di integratori alimentari. Dunque saggezza vorrebbe che proprio nei Paesi “poveri” gli alimenti di origine animale, seppur in modeste quantità, possano costituire un ideale complemento nutrizionale all’attuale dieta puramente vegetariana ed è proprio su questa linea che si sono orientati i programmi di cooperazione allo sviluppo che come Università Cattolica del sacro Cuore e come Fondazione Invernizzi stiamo seguendo in Africa e in India.

Per concludere, pare possibile richiamare quanto segue:

  1. l’entità della quota gas serra attribuibile agli animali è da ritenere esigua (non più del 4-5 % secondo l’EPA degli USA) e non si può comunque eliminare in toto poiché, se non vi fossero animali allevati, aumenterebbero quelli selvatici (e comunque un minimo di tali alimenti è ammesso anche da EAT-Lancet)
  2. specie nei Paesi poveri la lotta alla malnutrizione passa attraverso la disponibilità di corrette quantità di alimenti di origine animale nella dieta
  3. è necessario chiedersi se abbia una logica l’accanimento contro gli alimenti di origine animale, a prescindere, o non ci si debba piuttosto sforzare –proprio perché consapevoli che anche piccoli miglioramenti sono utili – per ottimizzare da un lato le diete dell’uomo in modo da contenere a livelli prudenziali il loro consumo (senza scordare che è prudente ingerire un grammo al giorno di proteine per kg di peso corporeo, di cui la metà o poco meno di origine animale: pesce, carni, latticini, uova)
  4. non ci si deve in ogni caso esimere dall’operare per ottimizzare le tecniche di allevamento animale onde massimizzarne l’efficienza e ridurre l’impatto ambientale per unità di prodotto. Cosa che si sta facendo da anni; infatti da un’indagine svolta negli Usa per produrre 1 litro di latte si rilasciano 1,35 kg di CO2 equivalente sull’intera filiera produttiva contro i 3,66 kg del 1944; risultati conseguiti proprio grazie a quell’“intensificazione tecnologica” di cui parlano gli stessi Vineis et al.

 

Di carne e scienze giovani

Alcune precisazioni e un ringraziamento all'analisi di Bertoni

di Paolo Vineis, Roberto Cingolani e Luca Carra

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Ringraziamo il dottor Bertoni per la dettagliata analisi dei nostri articoli sui co-benefici sanitari e climatici degli interventi in agricoltura. Crediamo che da un dialogo tra diverse competenze non possa che originare un maggiore affinamento delle proposte tecniche e politiche. Le conclusioni cui giunge Bertoni sono largamente compatibili con le nostre, dal momento che non proponiamo una svolta vegetariana ma una riduzione del consumo di carne.

La critica alla Commissione EAT-Lancet coglie tuttavia parzialmente nel segno, perché la dieta per l’Antropocene non è adattata in modo chiaro ai Paesi a basso reddito. Il quesito può essere posto direttamente alla Commissione. Questo è forse il punto principale, per il quale siamo grati Bertoni.
In quanto alle stime riportate, nei nostri diversi articoli specifichiamo che c’è grande incertezza relativamente al contributo dell’agricoltura all'emissione di gas serra, e riportiamo stime tra l’11% e il 30% (estreme) proprio per sottolineare questa incertezza. La scienza del cambiamento climatico è relativamente giovane e un affinamento progressivo delle stime è fisiologico.

Altri dettagli: non sosteniamo che la carne sia la causa principale dell’obesità, ma che ne è una delle cause, come fa lo stesso documento di EAT-Lancet, e crediamo che su questo vi sia un ampio consenso tra gli esperti.

Bertoni cita poi il fatto che la IARC colloca la carne rossa nel gruppo 2A (potenzialmente cancerogena) ma dimentica di dire che la carne rossa processata è stata inserita nel Gruppo 1 (cancerogena per l’uomo).
Infine, è corretta l’affermazione secondo cui l’assunzione di proteine dalla carne aumenta le difese immunitarie e pertanto – in particolare nei Paesi a basso reddito – contribuisce a proteggere dalle malattie infettive. Noi ci riferiamo tuttavia alle numerose zoonosi legate agli allevamenti, tra cui ovviamente le epidemie dovute a virus H5N1 e H1N1 legate agli allevamenti di suini e di pollame.

Questi chiarimenti non tolgono che le precisazioni di Bertoni siano utili per consentire di prendere sul serio le politiche dei co-benefici anche nel settore agricolo, e ci pare che le conclusioni cui egli giunge siano largamente compatibili con i nostri articoli.

 

Ancora su cibo, salute e sostenibilità

di Giuseppe Bertoni

Crediti: AnnaER/Pixabay. Licenza: Pixabay License

Di rientro dal mio 9° viaggio nella Provincia del Lomami (Congo RD), ma altrettanti ne ho fatti in Meghalaya (India) e solo qualcuno in meno in Etiopia e Uganda, torno su quanto espresso nel mio articolo: “La salute umana vale quanto la sostenibilità del pianeta”, cortesemente pubblicato in Scienza in rete con l’aggiunta di un qualche appropriato commento. L’esperienza da me maturata in oltre otto anni presso Paesi dove l’agricoltura è di sussistenza dimostra che, pur con una qualche differenziazione, si caratterizzano tutti per la malnutrizione grave nel 30-40% dei bambini. A essa contribuiscono varie cause: scarsa varietà di cibi e prevalenza di vegetali amidacei, totale ignoranza delle mamme circa i principi della nutrizione, impossibilità di acquistare alimenti dal mercatoe così via; tuttavia, la “mancanza” di alimenti di origine animale rimane cruciale.

Dopo 8-9 anni, nei primi due Centri Pilota da noi costituiti (India e RD Congo), stiamo ottenendo significative produzioni anche di uova (l’ha riconosciuto nei giorni scorsi il Governatore della Provincia del Lomami in Congo, proprio come strumento anti-malnutrizione). Da notare che il nostro intervento è a livello dei piccoli contadini, non certo finalizzato a impianti “mega-galattici” in stile occidentale e, proprio per questo, i tempi sono “biblici”.

Consapevoli delle carenze nutrizionali in questi Paesi, vorremmo accrescere anche altre produzioni animali, ma per i suini mancano gli alimenti (“tutta la produzione agricola” –ahimè modesta - è destinata all’uomo, salvo i pochi “scarti”), mentre per i ruminanti assistiamo a due opposte situazioni. In India vi sono bovini (zebù) soprattutto per il lavoro (siamo nella parte che non segue la religione Indù) e il potenziamento della produzione di latte cozza contro la scarsità di superficie/foraggi, mentre in larga parte del Congo i piccoli contadini non sono in grado di gestire grossi ruminanti – neppure per il lavoro se ne avvalgono - e posseggono solo poche capre a fronte di superfici enormi né coltivate né pascolate (ma in compenso “disboscate”, anche dei pochi alberi delle savane, per fare legna o carbone da ardere e così, oltre al disboscamento, il particolato atmosferico è superiore a quello dell’Italia).

Non intendo andare oltre per non annoiare, ma spero di aver raggiunto il mio scopo: far comprendere che gli impellenti problemi della salute umana e di quella del pianeta – entrambi ineludibili - non si prestano a facili e semplificate soluzioni, con riferimento alla produzione di cibo. Dopo di che, circa i commenti degli autori:

  • concordo, e lo sostengo da circa vent'anni, con l’affermazione che serve moderazione nell’uso di alimenti di origine animale (nei Paesi ricchi), per ragioni in parte simili a quelle da loro sostenute
  • ho invece difficoltà a capire il problema delle zoonosi, non perché inesistente, ma perché ve ne sono di non dipendenti dai grandi allevamenti (come la rabbia, il carbonchio, la tubercolosi eccetera), tanto che la forma più grave di epidemia da “aviaria” si ebbe nel 1918 (la “spagnola”). La gestione del problema è quindi cruciale e la circostanza vale anche nel caso delle non rare “tossicosi” connesse agli alimenti vegetali, appunto se mal gestiti; mi riferisco alle micotossicosi varie, alla limarina della manioca, e così via 
  • infine ho assoluta perplessità circa la carne suggerita come causa “primaria” di obesità, essendo originariamente piuttosto magra; ugualmente non comprendo la puntualizzazione della carne conservata come cancerogena… nessuno obbliga a conservarla con sale e nitrati, specie oggi che abbiamo la linea del freddo! Sarebbe come osteggiare le uova perché nella maionese sono “caricate” di grassi

Per concludere, anch’io ritengo che l’approccio pacato e competente (sui diversi piani) agli enormi problemi che l’umanità dovrà affrontare nel prossimo futuro, per potersi sfamare senza distruggere il pianeta, sia la sola via per non creare ulteriore confusione nella popolazione e per renderla viceversa consapevole.

 

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