fbpx Scienza e (è) democrazia | Scienza in rete

Scienza e (è) democrazia

Primary tabs

Primo incontro del CERN Council, 1952. Da destra a sinistra: Chr. Schmelzer, J. B. Adams, X, C.J. Bakker, L. Kowarski, P. Preiswerk. L'incontro ebbe luogo nel vecchio "Batiment electoral" a Ginevra. Credit: CERN (Terms of use for CERN audiovisual media).

Tempo di lettura: 7 mins

Il professor Roberto Burioni lo dice da tempo nel suo seguitissimo blog e lo ha ribadito nel suo ultimo libro, La congiura dei somari, il cui sottotitolo recita esplicitamente: Perché la scienza non può essere democratica. Ebbene, sia chiaro, la battaglia di Roberto Burioni contro le false notizie scientifiche e le affermazioni del tutto infondate, come quelle propalate dai no-vax, è sacrosanta. E merita tutto il nostro appoggio.

Quello che non ci convince affatto, è la tesi secondo cui “la scienza non è democratica” perché “la velocità della luce non si decide per alzata di mano”. Ebbene, dietro queste affermazioni si cela un doppio errore con riguardo alla natura sia della scienza sia della democrazia. Per essere chiari ancora una volta: la nostra (modesta tesi) è che “la scienza è democratica”. E non può non esserlo. E che la democrazia si fonda sulla ragione e quindi anche sulla scienza. E non può non farlo.

La scienza ha bisogno di libertà di ricerca

Intanto è la storia a dimostrarcelo. La creatività scientifica si sviluppa solo lì dove c’è libertà di ricerca. Basterebbe ricordare come Hitler, appena salito al potere e imposta la sua dittatura, abbia distrutto in poche settimane la più creativa comunità scientifica del mondo, quella tedesca, con il combinato disposto illiberale della cacciata degli ebrei dalle università e della lotta alla “scienza giudaica” in favore di un’assurda “scienza ariana”. In men che non si dica l’asse scientifico del pianeta si spostò al di là dell’Atlantico, negli Stati Uniti. Paese che assicurava la completa libertà di ricerca. La scienza dunque ha bisogno di democrazia.

Ma anche la democrazia ha bisogno della scienza, che con la sua produzione incessante di nuova conoscenza assicura innovazione costante nella cultura, nella società e nell’economia. Non a caso la moderna “società della conoscenza”, che sulla produzione di nuova conoscenza scientifica si fonda, è nata nelle società libere dell’Occidente.

Scienza e democrazia vanno di pari passo

Scienza e democrazia si sviluppano di pari passo. Il filosofo Umberto Cerroni faceva notare che questo è stato addirittura il carattere distintivo della seconda parte del XX secolo: quando il mondo ha assistito a uno sviluppo rapido e della scienza e della democrazia.

Naturalmente si potrebbe obiettare che la scienza si è sviluppata anche in paesi con regime totalitari. Basti pensare all’Unione Sovietica che ha potuto contare - stavamo per scrivere schierare - una comunità scientifica che per dimensioni e creatività nulla aveva da invidiare alla comunità scientifica occidentale. E tuttavia la scienza in Unione Sovietica ha potuto prosperare solo quando il regime ha assicurato alla comunità scientifica una libertà di ricerca “locale”. Facciamo un esempio: quando il regime ha negato questa libertà e imposto in campo biologico e agrario l’approccio antidarwiniano di Trofim Denisovič Lysenko, è andato incontro a una serie di catastrofi. Quando, invece, l’URSS ha chiesto ai suoi fisici di costruire la bomba atomica o di accingersi alla conquista dello spazio, ha dovuto abbandonare la sua ideologia contraria alla fisica relativistica e quantistica e concedere piena libertà di ricerca. Quando ha negato la libertà “locale”, l’URSS è andata incontro a clamorosi insuccessi, quando ha concesso ai suoi scienziati la libertà di ricerca, è stata ripagata con notevoli successi.

Forse memore di questi esempi, la Cina di oggi, che non è certo un paese democratico, sta sviluppando una notevolissima capacità scientifica fondata sulla libertà di ricerca. Non c’è dubbio, la scienza ha bisogno di democrazia. Quanto meno “locale”: ovvero ha bisogno di libertà di ricerca.

Dalla torre d'avorio alla compatercipazione

Il nuovo rapporto tra scienza e democrazia nelle società della conoscenza ha modificato nel profondo il “modo di lavorare degli scienziati”. Se in quella che John Ziman chiama l’ “era accademica della scienza” - nata all’inizio del XIX secolo con la riforma dell’università di von Humboldt e venuta a termine, sostanzialmente, con la Seconda guerra mondiale - i ricercatori potevano lavorare in una sorta di “torre d’avorio” e assumere la gran parte delle decisioni rilevanti per lo sviluppo della scienza all’interno del proprio “collegio invisibile” (la comunità disciplinare), oggi che la scienza è il motore primo del sistema di innovazione e, dunque, dell’economia, le mura della torre d’avorio sono crollate e sempre più decisioni rilevanti a carattere scientifico vengono prese in compartecipazione con attori laici: siano essi gli stati, le imprese private e i cittadini tutti.

I diritti di cittadinanza scientifica

Di particolare rilevanza è la domanda di compartecipazione dei cittadini. Si parla, giustamente, di una nuova domanda di diritti di cittadinanza, quella emergente dei diritti di cittadinanza scientifica. È questa domanda di compartecipazione che chiede - che impone - un nuovo rapporto tra scienza e società. Ne sanno qualcosa proprio i medici, che negli ultimi lustri sono passati (sono stati costretti a passare) dall’antico rapporto paternalistico con i pazienti, quando il paziente guardava al medico come al buon padre di famiglia che “sapeva” e quindi “decideva” nel miglior modo possibile, a un rapporto che potremmo definire “negoziale”, in cui il paziente compartecipa con il medico alla definizione della diagnosi e della cura. Questa domanda di compartecipazione è sancita per legge: ogni intervento medico, ormai, richiede il “consenso informato” del paziente.

Ma, forse, un esempio più chiaro dei tentativi di risposta alla domanda emergente dei diritti di cittadinanza scientifica viene da un altro ambito, quello ambientale. La Convenzione di Århus, sottoscritta e ratificata anche dall’Italia, riconosce il diritto dei cittadini all’accesso alla migliore conoscenza scientifica disponibile sullo stato dell’ambiente. E questo diritto non è fine a se stesso, ma è elemento essenziale per il diritto, che la Convenzione sottolinea con forza, a compartecipare alle scelte in maniera ambientale. Un diritto democratico, appunto.

Dunque la domanda sociale nella società democratica della conoscenza - una domanda ineludibile - è quella di compartecipazione da parte dei laici (dei cittadini non esperti) alle scelte a carattere scientifico in ogni ambito.

Democrazia versus demagogia

La comunità scientifica deve fare la sua parte per soddisfare al meglio questa domanda. Intanto perché è, appunto, una domanda ineludibile di democrazia. E poi perché solo una profonda cultura scientifica può evitare che nella società democratica della conoscenza prevalgano i venti della demagogia (qual è il vento no-vax). In definitiva, occorre una nuova alleanza tra scienza e società.

Fin qui la parte storica e sociologica del rapporto tra ricerca scientifica e democrazia. Ma c’è un correlato, per così dire, anche filosofico. Che riguarda la natura stessa della scienza. E, anche, la natura stessa della democrazia.

Scienza e consenso

Cos’è, dunque, la scienza? Be’, da un punto di vista sociologico, come sostiene John Ziman, la scienza è un’istituzione sociale tesa a raggiungere “un consenso razionale di opinione” (cioè libero) sul più vasto campo possibile. La scienza, infatti, si sviluppa passando attraverso due fasi, una privata e l’altra pubblica. Quella privata è quando il singolo scienziato o, sempre più, i singoli gruppi di scienziati interrogano la natura. Ma i risultati ottenuti non sono ancora scienza finché essi non vengono comunicati a tutti (a tutti i membri dei “collegi invisibili”) e sottoposti ad analisi critica (fase pubblica). Naturalmente gli uomini di scienza hanno dei metodi (non “il” metodo) di lavoro. Ma nessun metodo può prescindere dal consenso razionale di opinione della comunità. È questa prassi che abbatte ogni paradigma di segretezza e di autorità ex cathedra che definiamo scienza. Questa prassi è intrinsecamente democratica. La scienza, dunque, è democratica.

D’altra parte, come ricordava lo storico Paolo Rossi, la scienza moderna nasce nel Seicento in Europa con un’azione profondamente democratica: abbattendo il “paradigma della segretezza” e imponendo ai membri della “Repubblica della scienza” (notare il termine usato, repubblica, non monarchia) di “comunicare tutto a tutti”.

I cinque valori portanti di scienza e democrazia

Anche il sociologo Robert Merton guarda alla griglia valoriale della scienza come a una griglia profondamente democratica, indicando i cinque valori portanti nel comunitarismo (comunicare tutto a tutti), universalismo (tutti possono concorrere a fare scienza), disinteresse (perché la scienza come sosteneva Francis Bacon non deve essere a beneficio solo di alcuni, ma di tutta l’umanità), originalità (riconosciuta dai peer, dai colleghi), infine, scetticismo sistematico (tutto può e deve essere sottoposto a critica).

Naturalmente gli scienziati derogano talvolta a uno o più di questi valori. Ma, aggiunge Merton, lo fanno sapendo di essere in colpa. Sapendo di tradire la democrazia della scienza.

Bene, ora chiediamoci cos’è la democrazia. Non è la rissa al bar dove vince chi ha la voce più forte. Questa è una parodia della democrazia. Né è rappresentata da un Parlamento che decide di votare a maggioranza “qual è la velocità della luce”. Questa è una parodia di Parlamento. La democrazia altro non è che “un’istituzione sociale dedita a raggiungere un consenso razionale di opinione” sul più vasto campo possibile. Ha dunque il medesimo obiettivo della scienza.

Certo le metodologie pratiche che usa l’istituzione “politica” per raggiungere un “consenso razionale d’opinione” sono diverse da quelle della istituzione “scienza”. Ma il sistema valoriale è sostanzialmente lo stesso: comunitarismo (comunicare tutto a tutti); universalismo (tutti possono concorrere al governo della cosa pubblica); disinteresse (obiettivo della democrazia è il bene pubblico); originalità (trovare soluzioni originali e appropriate ai problemi); scetticismo sistematico (rifiuto di ogni autoritarismo e ancor più di ogni dittatura).

Dunque scienza e democrazia hanno molto in comune. Sono istituzioni che - idealmente - funzionano in maniera analoga e a tratti persino omologa.

Certo, infinite sono le deviazioni da questi ideali. Ma è (dovrebbe essere) impegno di tutti denunciarle, le deviazioni, e trovare i modi per indurre e la scienza e la democrazia verso i loro ideali. Che sono ideali comuni.

 


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Siamo troppi o troppo pochi? Dalla sovrappopolazione all'Age of Depopulation

persone che attraversano la strada

Rivoluzione verde e miglioramenti nella gestione delle risorse hanno indebolito i timori legati alla sovrappopolazione che si erano diffusi a partire dagli anni '60. Oggi, il problema è opposto e siamo forse entrati nell’“Age of Depopulation,” un nuovo contesto solleva domande sull’impatto ambientale: un numero minore di persone potrebbe ridurre le risorse disponibili per la conservazione della natura e la gestione degli ecosistemi.

Nel 1962, John Calhoun, un giovane biologo statunitense, pubblicò su Scientific American un articolo concernente un suo esperimento. Calhoun aveva constatato che i topi immessi all’interno di un ampio granaio si riproducevano rapidamente ma, giunti a un certo punto, la popolazione si stabilizzava: i topi più anziani morivano perché era loro precluso dai più giovani l’accesso al cibo, mentre la maggior parte dei nuovi nati erano eliminati.