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Scienza e industria: come superare il collo di bottiglia

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Mercoledì prossimo, 27 novembre, si tiene a Milano, presso l’Università Bocconi, il II Incontro dei Dialoghi di Scienza del Gruppo2003: "Scienza e industria. Ricerca e innovazione in biomedicina”.
Il rapporto tra scienza e industria è un tema importante, probabilmente decisivo per il nostro paese. Perché viviamo nell’economia della conoscenza, in cui una parte sempre più rilevante dei servizi e dei beni che vengono scambiati ha un alto tasso di conoscenza aggiunta. In particolare di conoscenza scientifica. Si calcola, per esempio, che poco meno di un terzo dell’economia mondiale sia costituita dalla produzione e dallo scambio di beni e servizi hi-tech, ad alto tasso di conoscenza scientifica aggiunta. Si calcola, ancora, che il 75% della crescita economica degli Stati Uniti dal dopoguerra a oggi sia dovuto alla conoscenza scientifica che si è trasformata in beni e servizi innovativi.
L’Italia ha difficoltà evidenti a competere nella nuova economia della conoscenza. Per tre motivi strutturali. 

Primo: il paese nel suo complesso non è abbastanza attrezzato per svolgere un ruolo da protagonista nella società globale della conoscenza.

Secondo: l’Italia ha una specializzazione produttiva nella
media e bassa tecnologia. Si dice che ha, da oltre mezzo secolo, adottato un “modello di sviluppo senza ricerca”. 

Terzo: il trasferimento del sapere dai luoghi di produzione della conoscenza scientifica (università, enti pubblici) fa fatica a raggiungere i luoghi dello sviluppo tecnologico (le imprese).

L’Italia è un paese poco attrezzato per l’economia della conoscenza. In particolare per quella componente, peraltro maggioritaria, dell’economia della conoscenza che si fonda sulla scienza. Ce lo dicono, in particolare, due indicatori generali: quello relativo agli investimenti in Ricerca e Sviluppo (R&S) e quello relativo al numero di laureati. Ci sono alcuni paesi, come Israele e la Corea del Sud, che ogni anno investono oltre il 4%  del Prodotto Interno Lordo (Pil) in R&S. Ci sono altri paesi (Giappone, Svezia, Finlandia) che investono in R&S intorno al 3,5% del Pil. Ci sono, infine, altre paesi che si avvicinano quasi al 3% (Usa, Germania). Lo scorso 22 ottobre il governo di Pechino ha annunciato, con soddisfazione, che la Cina ha raggiunto il 2,0% del Pil negli investimenti in R&S.
La media mondiale è, per l’appunto, il 2,0%. La media europea è intorno all’1,9%. Le ultime statistiche dell’Unione Europea e dell’OCSE ci dicono che l’Italia è a poco meno dell’1,3%: un terzo in meno della media mondiale; meno della metà della Germania e degli Stati Uniti; circa un terzo di Corea del Sud o Israele. Il dato italiano, peraltro, è “drogato” dalla recessione, particolarmente acuta nel nostro paese, che negli ultimi anni ha visto diminuire il denominatore (il Pil) molto più velocemente del numeratore (gli investimenti in R&S). In termini assoluti i nostri investimenti in ricerca e sviluppo continuano a ridursi, mentre quelli di gran parte del mondo continuano a crescere. Questo basso tasso di investimenti, per fortuna, ha più effetti quantitativo che qualitativi. Detta in altri termini: i nostri ricercatori sono pochi, ma buoni. Sono i più produttivi al mondo (per numero di articoli scientifici pubblicati) dopo gli svizzeri e al pari con gli olandesi. E, infatti, la produzione scientifica italiana è pari al 75% di quella tedesca. Una sorta di miracolo, dato il numero (i ricercatori italiani sono appena quarto rispetto ai ricercatori tedeschi) e la disparità di mezzi a disposizione.
Un secondo indicatore che ci ricorda come il nostro paese sia fuori dalla società della conoscenza riguarda il numero dei giovani laureati. In Italia, nella fascia di età compresa tra 25 e 34 anni, sono circa il 20%; contro il 40% della media OCSE; il 60% o quasi di Giappone, Canada e Russia; il 64% della Corea del Sud.   

Tutto questo ci parla del sistema paese. Non ancora del rapporto tra ricerca e industria nel nostro paese. In questo ambito i numeri sono ancora più impietosi. Gli investimenti in ricerca scientifica e sviluppo tecnologico nelle imprese non superano lo 0,5% del Pil. Un quarto rispetto agli investimenti delle imprese americane e tedesche; un quinto rispetto alle imprese giapponesi; un sesto rispetto a quella della Corea del Sud.
Se scorporiamo i dati, vediamo che in Italia gli investimenti pubblici in ricerca sono poco meno della media mondiale; mentre gli investimenti in R&S delle imprese.
Sono del 60% in meno della media mondiale. Sono soprattutto le nostre industrie che investono poco in ricerca.
Anche in termini di risorse umane non stiamo meglio. Nelle imprese italiane ci sono 3,5 ricercatori ogni mille addetti, contro la media OCSE di 7,5 ricercatori, la media Usa di 10 ricercatori, la media della Finlandia di 17 ricercatori ogni mille addetti. L’intensità di innovazione, misurata come numero di brevetti per milione di abitanti, vede ancora una volta l’Italia in affanno: nel nostro paese sono 82, contro i 94 degli Usa, i 110 della media europea, i 134 della Francia, i 155 del Giappone, i 295 della Germania. 
Questi dati indicano in maniera chiara che il sistema produttivo italiano segue un “modello di sviluppo senza ricerca”. In altri termini, l’Italia produce conoscenza scientifica ma poi questa conoscenza non si trasforma in beni e servizi di qualità. E, infatti, la nostra bilancia tecnologica dei pagamenti è da molti anni in rosso. E la nostra dipendenza dalle tecnologie straniere tende ad aumentare. Ultimo esempio, quello delle fonti rinnovabili. Negli ultimi anni, anche grazie a generosi incentivi, i settori dell’eolico e del fotovoltaico in Italia hanno subito un autentico boom. Ma la gran parte delle tecnologie sono state acquistate all’estero (Germania, Cina). Cosicché la domanda di innovazione nel settore energetico produce ogni anno un deficit commerciale aggiuntivo di 10/12 miliardi di euro.

Come se ne viene fuori? Vannevar Bush, in un testo consegnato al presidente Truman nel 1945 che può essere considerato il manifesto della moderna politica della ricerca, sosteneva che è compito dello stato realizzare il cambiamento di specializzazione produttiva, favorendo il passaggio da un’economia senza ricerca a un’economia fondata sulla ricerca. Lo stato ha due compiti: aumentare gli investimenti pubblici in ricerca di base e in ricerca applicata; favorire lo sviluppo dell’alta formazione, consentendo l’accesso all’università a tutti coloro che lo meritano, a prescindere dal loro reddito. Mentre tocca alle imprese, in piena autonomia, lo sviluppo tecnologico. Ovvero la trasformazione delle nuove conoscenze scientifiche in beni e servizi. Seguendo questa ricetta, gli Stati Uniti sono diventati leader al mondo dell’economia della conoscenza.
Tuttavia agli ingredienti di Vannevar Bush lo stato federale ne ha aggiunto un altro: ha creato costantemente una domanda di alta tecnologia, per favorire indirettamente lo sviluppo di un’industria hi-tech. In campo civile, ricordiamo lo spazio negli anni ’60 del XX secolo (sbarcheremo sulla Luna, entro la fine del decennio fu l’obiettivo indicato da Kennedy; vinceremo la guerra contro il cancro, fu l’obiettivo indicato da Nixon nel 1970, quando la spinta propulsiva dello spazio sembrava ormai in via di esaurimento). 

Anche l’Italia dovrebbe, probabilmente, realizzare in tempi stretti un cambiamento di specializzazione produttiva, sia attraverso un netto incremento dei fondi pubblici per la ricerca e l’alta formazione sia attraverso progetti che evocano la produzione di alta tecnologia. Ma la trasformazione della specializzazione produttiva richiede anche l’emergere di una nuova classe di imprenditori con la formazione e la vocazione adatta. Imprenditori giovani e versati nelle scienze.
“Vaste programme”, avrebbe detto De Gaulle. Difficile da attuare. Ma non si può uscire da una crisi profonda senza un brusco scossone. Senza un cambiamento radicale. È nel contesto di questo cambiamento che si pone il problema di come migliorare il trasferimento del know how dai luoghi in cui si produce nuova conoscenza (Università, enti pubblici di ricerca) ai luoghi dove si trasforma quella conoscenza in beni e servizi (le imprese).
Molti ritengono che il tentativo di trasferimento diretto non funziona. Troppo diversi gli interessi legittimi di chi fa ricerca rispetto a chi fa impresa. Occorre, piuttosto, creare “luoghi adatti all’innovazione”: centri, quartieri, intere città dove ricercatori, docenti, studenti universitari, artisti, addetti alle industrie creative vivano fianco a fianco e abbiano la possibilità di contaminarsi intellettualmente. Luoghi – come l’Ivrea di Adriano Olivetti o la Silicon Valley in California o, oggi, Berlino e la Ruhr in Germania – dove le idee possano avere la possibilità di circolare in maniera libera e incontrare le gambe con cui correre.

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