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Scienza e Mezzogiorno: dal secondo dopoguerra a oggi

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La fine della seconda guerra mondiale, che è il punto di partenza di questo contributo, segna un importante momento di mutamento nella ricerca e nei suoi rapporti con la politica, l’economia e la cultura. Il ruolo avuto dagli scienziati, mobilitati dagli Stati durante il conflitto, aveva fatto maturare nei governi la convinzione che la destinazione di risorse alla ricerca scientifica poteva dare ritorni importanti e questa convinzione fu alla base dell’imponente crescita degli investimenti pubblici in ricerca dopo la guerra.
In questo scenario, di cui protagonisti principali erano Stati Uniti e Unione Sovietica, l’Europa, uscita indebolita dalla guerra, manifestava grandi difficoltà nel riconquistare un ruolo significativo nel campo scientifico e tecnologico.
Questo contesto internazionale ha ovviamente pesato fortemente anche sulla situazione della ricerca italiana su cui, peraltro, hanno influito anche altri fattori specificamente nazionali. Il primo fattore è legato al rapporto che c’è stato, e per certi versi c’è ancora, nel nostro Paese tra le due culture ossia tra arte e scienze umane, da un lato, e scienze naturali e scienze ingegneristiche e tecnologiche dall’altro.
La difficoltà a considerare le scienze naturali parte della cultura, a causa della prevalenza della cultura umanistica, si è riflessa anche nella politica e ha favorito la sottovalutazione del ruolo strategico della ricerca per lo sviluppo.
Tale atteggiamento ha certamente contribuito a orientare le scelte in campo economico, soprattutto dopo gli anni Sessanta, verso un modello di crescita basato prevalentemente su tecnologie mature e imprese di piccole dimensioni e quindi poco propense a investire risorse in ricerca e innovazione.

Questo quadro di riferimento generale ha creato naturalmente difficoltà nella ricostruzione del nostro sistema scientifico a livello nazionale e in particolare nelle regioni meridionali dove le vicende belliche avevano aggravato lo storico dualismo Nord-Sud esistente nel nostro Paese.
Pertanto parlare di ricerca nel Mezzogiorno, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, con specifico riferimento al Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), significa fare un po’ anche la storia di queste difficoltà precisando comunque che non c’è alcuna pretesa di esaurire con il CNR il quadro delle iniziative di ricerca pubbliche (vedi per esempio le Università) e private che hanno avuto ed hanno ancora un ruolo significativo nella scienza meridionale.

Il ruolo chiave del CNR

Per comprendere a pieno il ruolo svolto dal CNR nel Mezzogiorno è opportuno, sia pur brevemente, richiamarne le origini e seguirne l’evoluzione nel corso dei novant’anni di vita sottolineando le tappe fondamentali per lo sviluppo della ricerca nelle regioni meridionali.
Istituito il 18 novembre 1923 come ente morale con un decreto a firma del re Vittorio Emanuele III, del presidente del Consiglio dei Ministri e ministro degli Esteri Benito Mussolini e del ministro della Pubblica Istruzione Giovanni Gentile, il CNR aderì al Conseil International des Recherches avente sede a Bruxelles, organismo nato a seguito di conferenze interalleate sull’organizzazione scientifica necessaria nel dopoguerra per soddisfare i bisogni sia dei diversi rami del sapere, sia dei vari settori industriali. Il decreto stabiliva le funzioni del CNR: promozione e coordinamento delle ricerche, controllo delle loro applicazioni, rapporti con l’estero, difesa nazionale, brevetti, collaborazione con laboratori universitari e organismi privati, istituzione di laboratori.
I diversi settori furono affidati a specifici Comitati che coincidevano sostanzialmente con le Matematiche, con le varie branche dell’Ingegneria civile e industriale, la Fisica, la Chimica, l’Agricoltura e la Zootecnica. A distanza di pochi anni dalla costituzione del Consiglio, la cui presidenza era stata affidata a Vito Volterra, due leggi di ristrutturazione intervennero nel 1927 e nel 1932 a cambiarne la fisionomia originaria facendo assumere gradualmente al CNR un ruolo di ente di ricerca al servizio del governo, pur senza perdere la caratteristica di fondo di intreccio tra scienza, tecnica e produzione e di espressione della comunità scientifica tramite i vari Comitati. Si dovette però aspettare il 1945 perché, con il decreto luogotenenziale n. 82 del 1° marzo, il CNR raggiungesse un assetto stabile come “Organo dello Stato, dotato di personalità giuridica e gestione autonoma, alla diretta dipendenza della Presidenza del Consiglio dei Ministri”. L’attività del CNR consisteva essenzialmente nel promuovere, coordinare e indirizzare la ricerca scientifica e tecnologica, svolta fino ad allora in larga misura nelle Università, al fine di contribuire al progresso del nostro Paese. L’ente disponeva di una struttura amministrativa molto ristretta e sorprendentemente efficace, anche se simile, nell’articolazione delle carriere, all’amministrazione dello Stato. I ricercatori dipendenti erano pochi, così come pochissimi erano i centri di ricerca. Tra questi è da segnalare l’Istituto Nazionale dei Motori di Napoli inaugurato il 9 maggio 1940 alla presenza del re Vittorio Emanuele III e fortemente danneggiato durante le vicende belliche.
Si trattava del più grande organo di ricerca del CNR del periodo fascista, dedicato a studi e ricerche sui motori a combustione interna, settore all’epoca strategicamente rilevante per applicazioni militari. Con la riorganizzazione del 1945, voluta dal presidente Gustavo Colonnetti per rilanciare l’ente dopo la pausa bellica, i centri di ricerca preesistenti furono trasformati in “Centri di studio e di ricerca presso le Università o presso altri enti e amministrazioni”, con alcune eccezioni. In particolare l’Istituto Nazionale di Geofisica assunse personalità giuridica autonoma sotto la vigilanza del Ministero della Pubblica Istruzione; gli istituti talassografici (tra cui quelli di Taranto e Messina) furono trasferiti al Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste mentre l’Istituto per l’esame delle invenzioni passò alle dipendenze del Ministero dell’Industria, Commercio e Lavoro. A questo proposito è opportuno ricordare che, negli anni precedenti la guerra, questi istituti avevano assorbito gran parte delle risorse del CNR.

Nel quindicennio 1945-1960 l’attività del CNR si consolidò su basi certe, il finanziamento crebbe dai 540 milioni di lire del 1950-51 ai quattro miliardi di lire del 1960-61 e così pure crebbe la sua autorevolezza scientifica. Restava però un ente sostanzialmente subalterno al mondo accademico con una rete propria di ricerca (gli istituti) poco sviluppata. Il numero di organi di ricerca nei primi anni Cinquanta era di 78 di cui solo 7 Istituti e 71 Centri di studio localizzati in prevalenza presso le università. Di questi organi quelli operanti nel Sud erano i seguenti:

1. Istituto nazionale dei motori – Napoli
2. Centro di studio per la fotoelasticità – Palermo
3. Centro di studio per la biologia – Napoli
4. Centro di studio per la fisiopatologia sperimentale – Palermo
5. Centro di studio per l’enzimologia – Napoli
6. Centro di studio per la parassitologia veterinaria – Sassari
7. Centro di studi silani – Sezione climatica-agricola – Napoli
8. Centro di studio del terreno nell’Italia meridionale – Portici
9. Centro di studio per la geografia economica – Napoli
10. Centro di studi silani – Sezione geo-mineraria – Napoli

Accanto a questi è da menzionare la Stazione Zoologica di Napoli che, pur essendo autonoma, era inserita tra gli enti coordinati con il CNR. Questo coordinamento molto stretto, anche perché il Centro di Studio per la Biologia del CNR era localizzato presso la Stazione, contribuì significativamente al rilancio della ricerca biologica a livello nazionale e fu alla base della nascita della genetica nel Mezzogiorno.
La presenza del CNR nel Sud era dunque largamente minoritaria rispetto alle altre aree del Paese e peraltro appariva occasionale non configurando ancora una vera e propria strategia di promozione e sviluppo della ricerca scientifica nelle regioni meridionali. Con la legge 2 marzo del 1963 n. 283 andava intanto in porto la cosiddetta “riforma Polvani”, dal nome di Giovanni Polvani (presidente del CNR dal 1960 al 1964) con la quale si riordinavano le carriere e i ruoli del personale del CNR, si estendevano le competenze dell’ente anche alle scienze umane e si aumentava nel contempo l’autonomia organizzativa tramite l’emanazione di regolamenti propri, approvati con decreto del presidente del Consiglio dei Ministri.
Con questa legge (art. 5) si ponevano anche le basi per lo sviluppo della rete di ricerca interna. Infatti negli anni successivi, con la presidenza di Vincenzo Caglioti, nel CNR si andò configurando una rete di ricerca extra universitaria così come la conosciamo oggi. In particolare nel periodo 1968-1972, furono creati numerosi nuovi organi di ricerca articolati in quattro tipologie: gli istituti e i laboratori, dipendenti direttamente dal CNR, i primi per lo svolgimento di attività permanenti, i secondi per esigenze di ricerca a carattere temporaneo; i centri di studio, istituiti con durata quinquennale rinnovabile presso altri enti, che fino ad allora costituivano la principale forma di integrazione con l’Università; infine i gruppi di ricerca, anch’essi temporanei con il fine di coordinare a livello nazionale ricerche che richiedevano l’apporto di diverse persone e organismi scientifici.
In realtà la distinzione tra istituti e laboratori era destinata a durare relativamente poco tempo perché dopo gli anni Settanta, ferme restando le altre due tipologie, si tornò a identificare gli organi di ricerca propri con i soli istituti, considerati come le strutture preposte a presidiare a lungo termine specifiche aree scientifiche.
In questo quadro di espansione cominciò a delinearsi una particolare attenzione del CNR per lo sviluppo scientifico del Mezzogiorno che può essere sintetizzato dalla presenza attiva nel 1972 di 14 Istituti e 9 Centri di studio, riportati nelle tabelle 1 e 2, che inducono due considerazioni immediate.

(clicca per ingrandire Tab.1-2)

La prima è che, pur restando Napoli il baricentro del CNR nel Sud, vennero realizzate, per la prima volta e sia pur con diverso peso, iniziative diffuse anche in altre regioni meridionali. La seconda considerazione è che l’intervento del CNR restò concentrato nei settori storici (Chimica, Biologia, Medicina, Agraria, Ingegneria, ecc.) mentre furono ancora esclusi la Matematica e i settori umanistici. Nel quadriennio 1972-1976, con la presidenza di Alessandro Faedo, si arrestò l’espansione della rete di ricerca nel Mezzogiorno con l’unica eccezione del Centro di fisiologica clinica di Reggio Calabria istituito nel 1975.
La politica del CNR, in questo periodo, fu essenzialmente rivolta a consolidare la rete esistente in tutta Italia e ad avviare numerosi studi di fattibilità di grandi progetti nazionali di ricerca meglio noti come “Progetti Finalizzati”.

Nel 1976, anche a seguito dell’impulso dato dalla legge n. 183 sull’intervento straordinario nel Mezzogiorno che prevedeva contributi anche per l’ampliamento e/o l’istituzione di centri di ricerca, il presidente dell’epoca, Ernesto Quagliariello, diede il via a una nuova stagione di potenziamento della rete CNR nel Sud che portò, nel periodo 1976-1984, all’istituzione di 42 nuovi organi di ricerca tra istituti, centri e nuove sezioni di organi già esistenti. Fu un’operazione difficile perché si trattava di individuare i settori di intervento e, nell’ambito di essi, le tematiche che più opportunamente potevano essere sviluppate nel CNR anziché nell’Università. Un primo gruppo di organi, quasi tutti Istituti, fu approvato alla fine del 1978 e prevedeva settori di intervento molto diversi: dalla Matematica e l’Informatica all’industria alimentare; dalla salute dell’uomo allo sviluppo dei settori umanistico ed economico-sociale.
Questa rete fu successivamente integrata con altre iniziative inerenti tematiche tipicamente scientifiche che, a una successiva analisi, era sembrato opportuno avviare.
Contemporaneamente il CNR provvide anche alla sistemazione degli Istituti talassografici di Taranto e Messina che, nel 1977, erano stati riacquisiti dall’ente, dopo una lunga crisi a cui erano stati condannati dalla mancanza di attenzione verso le scienze marine da parte del Ministero dell’Agricoltura e Foreste al quale (come ricordato in precedenza) erano stati trasferiti nell’immediato dopoguerra. Inoltre negli stessi anni, venivano approvate la legge n. 675/1977 sulla riconversione industriale e la legge n. 984/1977 sugli interventi in agricoltura che, oltre a contenere specifiche norme tese allo sviluppo delle attività di ricerca, prevedevano anche una riserva di fondi a favore delle regioni meridionali.

Il gap tra Centro-Nord e Sud negli anni Ottanta

In questo periodo, il CNR avviava concretamente i primi Progetti Finalizzati deliberati dal CIPE come nuovo esperimento di ricerca a termine che coinvolgeva Università, centri di ricerca pubblici e industrie, dando un notevole impulso anche a tutta la ricerca nel Mezzogiorno e quindi contribuendo significativamente al potenziamento della precedente rete di organi del CNR e al decollo delle nuove strutture. L’elenco completo di queste nuove strutture è riportato in tabella 3.

(clicca per ingrandire Tab.3)

Un’analisi più puntuale della rete complessiva e dei relativi finanziamenti, a quella data, evidenzia che nel Sud furono privilegiati i settori delle scienze biologiche, chimiche e agrarie e che, dal punto di vista geografico, le regioni privilegiate erano nell’ordine Campania, Sicilia e Puglia.
Queste concentrazioni disciplinari e geografiche erano, fra l’altro, giustificate dalle preesistenze culturali nelle Università meridionali di più antica tradizione e di maggiori dimensioni, nonché dalla presenza di un tessuto economico e sociale più sviluppato nelle tre regioni indicate rispetto alle altre.
Nonostante questi interventi mirati, il gap tra Centro-Nord e Sud restava comunque elevato tanto che, a metà degli anni Ottanta, soltanto il 18% delle risorse complessive del CNR era destinato alle aree meridionali. Questa situazione indusse l’ente a svolgere un’indagine su tutti gli organismi di ricerca operanti nel Mezzogiorno, iniziativa questa che consentì nel 1985 la creazione di una vera e propria banca dati relativa a 1.021 strutture (Università, enti di ricerca pubblici, organismi regionali, consorzi, ecc.) analizzate. L’analisi fatta all’epoca portò a una valutazione complessiva riassumibile nelle conclusioni che seguono.
1. Il personale di ricerca impegnato nel Sud era l’8% del totale nazionale e quasi tutto dipendente da amministrazioni pubbliche (90%). Tra di esso predominava il personale universitario (77%) e del CNR (9,2%).
2. Per quanto riguarda invece il personale di ricerca delle imprese (pubbliche e private), la quota impegnata nel Mezzogiorno risultava essere solo il 5% del totale mentre la quota a livello nazionale complessivo era del 50%.
3. L’attività di ricerca prevalente era quella di base con una produttività equivalente alla produttività media nazionale e in alcuni settori anche superiore. Limitandoci alle pubblicazioni scientifiche più qualificate, ai ricercatori del Sud veniva attribuito il 14% del totale delle pubblicazioni attribuite a tutti i ricercatori italiani. Si trattava di un dato che, confrontato con la consistenza numerica percentuale (8%), confermava le grandi potenzialità di sviluppo della scienza nelle regioni meridionali.
4. Il numero di personale necessario, per raggiungere la quota prevista del 40% rispetto al totale nazionale, veniva stimata in 4.000 nuovi ricercatori e 4.000 nuovi tecnici solo nel settore pubblico. Si trattava quindi di una situazione complessiva di squilibrio molto più grave di quello esistente nel solo CNR.

Fu proprio la consapevolezza di questa situazione che incentivò l’ente a promuovere un ulteriore sforzo nel Sud che si concretizzò in un’intesa di programma con il Ministero per gli Interventi Straordinari nel Mezzogiorno (MISM), sottoscritta l’8 marzo 1988 tra il presidente del CNR e il ministro competente.
L’intesa, della durata di sei anni, aveva l’obiettivo di accelerare il processo di riequilibrio territoriale delle iniziative del CNR nel Sud, portando gli interventi dell’ente dal 18% al 30% del totale dopo una prima fase triennale e al 40% al termine dell’intesa. Si trattava di un obiettivo ambizioso per raggiungere il quale fu previsto un investimento complessivo di 740 miliardi di lire di cui 518 miliardi a carico del governo e 222 a carico del CNR.
Questa intesa ebbe varie vicissitudini, anche per la macchinosità iniziale dei controlli previsti, che portarono a successivi aggiornamenti che ne allungarono i tempi di realizzazione.
Quando, con il decreto 3 aprile 1993, cessò l’intervento straordinario nel Mezzogiorno, l’intesa con il CNR fu ereditata dal Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica, circostanza questa che provocò ulteriori ritardi nei tempi di realizzazione dei vari progetti-obiettivo.
Senza entrare nei dettagli del lungo iter di questa vicenda, possiamo far coincidere il completamento sostanziale degli impegni relativi alle assunzioni di nuovo personale con la fine del 2001, con un ritardo di circa 7 anni rispetto alla previsione iniziale.
Per quanto riguarda le restanti parti dell’intesa l’ultimo decreto ministeriale di rimodulazione del luglio 2002 aveva fissato, per il loro completamento, le seguenti date:
– 31/12/2004 per l’attività di ricerca e l’acquisizione della strumentazione;
– 31/12/2006 per le attività edilizie.

I ritardi hanno indubbiamente pesato sull’efficacia dell’iniziativa. Tuttavia, oggi possiamo ritenere che essa sia stata certamente significativa ai fini del riequilibrio territoriale anche se non ha consentito di raggiungere a pieno l’obiettivo programmato del 40% al termine dell’intervento. Infatti, facendo riferimento al bilancio del CNR 2006, si può stimare la seguente ripartizione territoriale delle risorse finanziarie:
– Fonti interne: 29% Nord; 41% Centro; 30% Sud;
– Fonti esterne: 21% Nord; 52% Centro; 27% Sud;
– Totale complessivo: 24% Nord; 47% Centro; 29% Sud.

Questi dati non devono sorprendere se si pensa soltanto al ruolo del Lazio che può essere considerato il più grande science park d’Italia e, per quanto riguarda il Mezzogiorno, allo sforzo di riequilibrio fatto nel tempo e alle opportunità di attingere, attraverso le regioni, a cospicui finanziamenti aggiuntivi dell’Unione Europea.
Ritornando all’intesa, ed entrando nello specifico, le principali azioni svolte possono riassumersi in:
a. costituzione di 36 nuovi organi di ricerca di cui 28 Istituti e 8 Centri di ricerca (tabella 4) con relativa dotazione organica di personale e strumentazione;
b. costituzione di 9 aree di ricerca intese come strutture territoriali dove concentrare un numero consistente di organi di ricerca con servizi tecnico- scientifico comuni (tabella 4). In quanto tali, queste aree si presentano come centri di competenze multidisciplinari in grado quindi di catturare meglio le esigenze di ricerca del territorio in cui operano;
c. finanziamento di progetti strategici mirati e finanziamenti aggiuntivi per l’attività di ricerca istituzionale di tutta la rete CNR operante nel Sud, ivi compreso l’acquisto delle apparecchiature e della strumentazione necessaria;
d. assunzione di 1307 unità di personale aggiuntivo previo adeguato periodo di formazione.

Si è trattato quindi di un intervento ampio e articolato che ha consentito un significativo passo avanti alla ricerca scientifica nel Mezzogiorno, anche per l’impatto che ha avuto sulle altre componenti del sistema ricerca (ivi comprese le Università).
L’attuazione dell’intesa CNR-MISM, per i ritardi accumulati, ha però interferito con la riforma del CNR varata con il decreto legislativo del 20/1/1999 che ha significativamente modificato la natura e l’organizzazione dell’Ente. Il decreto ha dato l’avvio a un processo riformatore complesso che ha comportato una riprogettazione della struttura centrale e della rete scientifica e ha coinvolto anche gli organi di ricerca del Mezzogiorno attraverso soppressioni, fusioni e/o ridefinizione della loro missione. Le tabelle 5 e 6 fotografano la rete CNR nel Sud così come riorganizzata nel 2000/2001 a seguito della riforma del 1999. Come si può notare, nel Sud sono presenti 35 (circa un terzo del totale) dei nuovi Istituti, alcuni dei quali sono articolati in più sezioni, localizzate nel Centro-Nord e anche nelle stesse regioni meridionali. Parimenti alcuni istituti localizzati nel Centro-Nord hanno sezioni presenti nel Sud. Complessivamente queste ultime, come risulta dalla tabella 6, sono 53 e coprono tutte le regioni con eccezione del Molise.

(clicca per ingrandire Tab.4)

Per questa nuova configurazione della rete di ricerca del CNR era prevista una fase di sperimentazione a valle della quale valutare l’opportunità di ulteriori aggiustamenti. Questa fase è stata inopinatamente interrotta dal ministro Moratti con il decreto legislativo del 4/6/2003 che ha introdotto una “riforma della riforma” con la quale è stata drasticamente ridotta l’autonomia del CNR riportandolo di fatto sotto il controllo politico.

(clicca per ingrandire Tab.5 - Tab.6)

I successivi governi che si sono succeduti fino a oggi non hanno di fatto modificato questa situazione mentre, al contempo, sono diminuite le risorse finanziarie complessivamente assegnate al CNR. I dati 2011 (fonte CNR-DCSPI) confermano un’articolazione territoriale della rete scientifica per cui nel Mezzogiorno sono presenti 35 Istituti e 64 sezioni raggruppati in 6 aree di ricerca.
Il personale assegnato a queste strutture del Sud è circa il 36% di quello dell’intera rete (il 37% spetta al Centro e il 27% al Nord). Anche la ripartizione di genere risulta essere sufficientemente riequilibrata (57% uomini, 43% donne). Per quanto riguarda il bilancio complessivo i dati per il 2012 sono riportati in Tabella 7.

(clicca per ingrandire Tab.7)

Accorpando il Sud con le isole e considerando anche le spese del personale, le risorse finanziarie risultano allocate per il 21% al Nord, il 50% al Centro e il 29% al Sud. Questi numeri confermano che l’obbiettivo del 40% al Sud, fissato nell’intesa CNR-MISM, non è stato raggiunto e tuttavia un significativo riequilibrio rispetto al 18% di metà anni Ottanta è stato ottenuto. Possiamo pertanto concludere che l’azione del CNR in favore del Mezzogiorno dal secondo dopoguerra, pur tra difficoltà varie e con ritardi rispetto alle aspettative è stata decisiva per lo sviluppo e l’attuale assetto del sistema scientifico meridionale. La rete di ricerca resta oggi la sua spina dorsale e l’auspicio che possiamo fare è che l’attuale vertice del CNR sia messo in condizione di valorizzarla a pieno e di adeguarla nel tempo alle mutevoli esigenze della scienza e dello sviluppo tecnologico.

LUCIO BIANCO


Tratto da Scienza & società - Novant'anni di CNR 1923-2013


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