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Scienziati e società sull’orlo di una crisi di nervi

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Allude al famoso film di Pedro Almodóvar il titolo dell’ultimo libro della serie The Rightful Place of Science, da alcune settimane disponibile su Amazon, Science on the Verge. Dal film il libro eredita molti aspetti, come l’intreccio di storie, l’affresco di una comunità messa in crisi da uomini inconsapevoli (se non irresponsabili), una babele di linguaggi che non facilitano la comunicazione tra le persone. Sull’orlo della crisi, però, non ci sono delle donne ma un’intera società che vede vacillare la fiducia sull’integrità della scienza e sulla sua capacità di rispondere adeguatamente alle sfide della modernità. Il libro raccoglie i saggi di vari studiosi internazionali, tra cui i creatori della scienza post-normale, Silvio Funtowicz e Jerome Ravetz, tutti accomunati, come si legge nella premessa, «dall’interesse per  una ricerca teorica, critica ed interdisciplinare finalizzata a migliorare le attuali pratiche della scienza e della governance.»

Il volume, che cerca di ricostruire cause e possibili soluzioni della crisi, è stato presentato nell’ambito di un Convegno dedicato alle sfide della qualità nella ricerca scientifica che si è tenuto a marzo ad Ispra, nella sede del JRC, il Centro di Ricerca Comune della Commissione Europea. Ne ho parlato con alcuni degli autori, Andrea Saltelli, Silvio Funtowicz e Alice Benessia. E’ stata un’occasione per passare in rassegna alcuni dei temi più rilevanti nel dibattito sull’attuale rapporto tra scienza, società e governance. 

Il punto di partenza della nostra riflessione - spiega Andrea Saltelli - è la constatazione di alcuni fenomeni degenerativi interni alla scienza, come la crisi del processo di ‘peer review’ delle riviste scientifiche, che è sempre più ingolfato da paper non sempre capaci di produrre risultati di qualità; l’uso e abuso di strumenti scientometrici per misurare e valutare la qualità della scienza, ai quali molti non credono più ma che sono diventati pervasivi per definire le carriere degli stessi scienziati. E ultimo, ma non meno importante, il problema della riproducibilità dei risultati scientifici che è la vera bomba che è esplosa negli ultimi anni. E’ come una montagna che crolla al rallentatore e che molti fingono di non vedere. C’è da chiedersi invece che impatto tutto questo ha avuto sull’uso della scienza nella definizione delle politiche sociali, ambientali, economiche, che come sappiamo si fondano sempre più spesso sulle evidenze scientifiche e sulla valutazione stessa della ricerca?”.

Il fenomeno investe un po’ tutti i settori disciplinari, anche quelli delle scienze sociali, come quelle economiche, che con la loro pretesa di assomigliare alle scienze fisiche, ne hanno adottato in maniera spinta l’approccio matematico. Secondo il Premio Nobel Joseph Stiglitz, i modelli adottati dagli economisti accademici, eccessivamente semplificati, distorti e carenti, avrebbero svolto un grande ruolo nel provocare la crisi, incoraggiando scelte politiche inadeguate.

Nel settore biomedico l’allarme era stato lanciato da John P.A. Ioannidis nel 2014 dalle pagine di una rivista accreditata, PLoS Medicine, che denunciava che ben l’85% dei fondi era andato sprecato in ricerche inutili per via di errori metodologici, per duplicazioni di risultati già ottenuti altrove, o divulgati in modo incompleto o insufficiente. Anni prima, sulla stessa rivista, Ioannidis aveva denunciato il fenomeno del publication bias, cioè un meccanismo secondo cui è più facile pubblicare se si diffondono risultati eclatanti rispetto a quelli non sorprendenti relativi a ricerche tuttavia corrette. E aveva accusato gran parte della letteratura biomedica contemporanea, dati alla mano, di fare l’interesse delle case farmaceutiche[1].

“Purtroppo c’è anche il fenomeno della corruzione - conferma Saltelli - ci sono casi di scienziati conniventi con le grandi aziende farmaceutiche, o peggio ancora con i loro avvocati, pagati per invalidare la ricerca fatta da altri colleghi scienziati che hanno dimostrato la pericolosità di alcuni prodotti. E spesso chi va a testimoniare in questi processi non dice che è pagato da una multinazionale ma che è un consulente, un tecnico. Le parti non si dichiarano per quello che sono e tutto questo meccanismo di complicità con l’industria è molto preoccupante. Anche in questo caso l’aspetto più rilevante è che tutto questo può portare a situazioni di totale paralisi del sistema”.

Alcuni esempi di questa paralisi hanno occupato le cronache giornalistiche. Si pensi a quanto è accaduto negli Usa a proposito dell’attività dell’Agenzia di Protezione dell’Ambiente (EPA) che ogni anno dovrebbe testare i prodotti chimici immessi sul mercato per valutarne la tossicità. Durante l’era Bush le relazioni tra industria chimica e Casa Bianca erano esplicite e l’attività dell’Agenzia si era drasticamente ridotta. Ma anche con il successivo governo Obama, che nel suo primo discorso di insediamento aveva dichiarato di voler «restituire il giusto posto alla scienza» proprio a partire da una ripresa delle attività di controllo dell’EPA, la situazione non è cambiata.

La crescita della scienza e il problema dell’accertamento della qualità

La riflessione del libro si inserisce in una lunga tradizione di studi che affronta il tema della trasformazione della scienza, soprattutto a partire dal passaggio dalla Small Science alla Big Science, e del suo impatto sulla società. Già negli anni ’60 A. M. Weinberg aveva denunciato i rischi di tale passaggio, che avrebbe portato gli scienziati a cercare di costruirsi un consenso sociale negli ambienti politici e nell’opinione pubblica per la necessità di accedere ai grandi finanziamenti necessari per la loro ricerca. Lo stesso aveva presagito che gli scienziati, in queste condizioni, avrebbero avuto meno stimoli a ridurre la complessità dei problemi per rendere gli esperimenti economicamente accessibili magari rinunciando a porsi delle domande sul senso delle proprie ricerche. Alcuni anni dopo, il fisico e storico della scienza Derek J. De Solla Price individuava i pericoli connessi ad una crescita esponenziale della scienza, mentre negli anni ‘70 Jerome Ravetz, sempre in merito a questa trasformazione, ne sottolineava il grande impatto sul sistema di accertamento della qualità scientifica, sugli aspetti morali ed etici del fare scienza. E’ questo uno dei temi più cari al libro.

Tutti questi aspetti - aggiunge Saltelli - si sovrappongono: la moltiplicazione delle discipline, la crescita esponenziale del numero di riviste, le specializzazioni, le incomunicabilità tra i vari campi di ricerca o il fatto che alcuni campi di ricerca adottino standard di prova e di argomentazione che non possono valere per discipline diverse. Questo fenomeno è stato descritto da un giovane studioso, Elijah Millgram, in un libro dal titolo, The Great Endarkenment, che evoca l’idea di un nuovo Medioevo dove  nessuno comprende più nulla di quello che fanno gli altri colleghi. Secondo Millgram, gli scienziati sono come schiavi di un meccanismo che li ha fatti diventare ‘iperspecializzati seriali’, cioè talmente specializzati da non essere capaci di comunicare neanche all’interno del proprio ambito disciplinare. Oggi tutto ciò ha un impatto per le decisioni politiche prese sulla base delle evidenze, benché nessuno apparentemente abbia voglia di fare una connessione tra le parti. Il problema è particolarmente acuto e cruciale nella misura in cui l’evidenza viene intesa come quantificazione e questa quantificazione viene perseguita ad ogni costo, usando modelli matematici con assunti non sempre chiari. Spesso si generano delle costruzioni che invece di illuminare un problema lo oscurano, provocano cioè una ‘ipocognizione’ in base alla quale più quantifico meno capisco, però fornisco dei numeri che mi servono per rassicurare il lettore che tutto è sotto controllo”.

L’approccio della scienza post-normale

“Le patologie descritte ed analizzate dal libro - mi spiega Silvio Funtowicz - possono anche essere il risultato del grande successo della scienza, e non sarebbe la prima volta. In un certo senso anche la crisi del ‘peer review’ è il risultato di una massiccia crescita della produzione scientifica. Tuttavia la crisi della riproducibilità degli esperimenti scientifici è connaturata allo stesso metodo scientifico. La riproducibilità è il risultato del riduzionismo che presuppone che un dato fenomeno possa essere riproposto e studiato in tutti i laboratori del mondo. Ma se noi ragioniamo in termini di complessità, soprattutto in ambito ambientale, in fondo tutti i fenomeni sono unici e allora cade la possibilità della riproducibilità. Quello che si è fatto con il riduzionismo è stato di ‘esternalizzare’ l’incertezza e la complessità”.

Il contesto epistemologico del libro è quello della scienza post-normale, un concetto che Funtowicz e Ravetz hanno coniato quasi 30 anni fa, aprendo il campo ad una riflessione critica nella comunità scientifica sul modo di produrre conoscenza e di governare l’incertezza tipica dei nostri sistemi.

“La scienza post-normale fa riferimento esplicito all’idea di scienza normale di Kuhn, alla riflessione di Stephen Toulmin sulla scienza post-moderna e al concetto di  trans-scienza di Alwin Weinberg - aggiunge Funtowicz. “Ma adotta un approccio che include l’incertezza dei sistemi naturali, la pluralità dei punti di vista all’interno e all’esterno della scienza e la necessità di ricorrere ad altre risorse, non solo scientifiche, per poter gestire il rischio”.

In particolare, la scienza post-normale è maggiormente adeguata a definire quei casi in cui c’è un alto livello di incertezza e la presenza di diversi interessi o valori dei soggetti coinvolti rende problematico il ricorso, nelle decisioni di policy, alla sola evidenza scientifica. Qui sono in gioco due aspetti: uno connaturato alle nostre società contemporanee, sempre più complesse e vulnerabili, e l’altro al modo con cui tutti noi (dai politici ai cittadini) decidiamo di fare i conti con le sfide che esse pongono in termini di sicurezza, in definitiva, con il rischio.

“Il rischio è un elemento importante che definisce le nostre società contemporanee - continua Funtowicz - come spiegano Ulrik Beck o Anthony Giddens. Il rischio definisce il nostro tempo, le nostre preoccupazioni, la nostra vita. Mary Douglas diceva che tutte le civiltà hanno un’idea del pericolo, ma solo quelle contemporanee hanno un’idea del rischio, che altro non è che un tentativo di ridurre il pericolo, e gestirlo, in termini matematici e scientifici. E’ soprattutto sulla questione del rischio che emergono le contraddizioni e le ambiguità, prima tra tutti l’idea che tutti i problemi pratici - sociali, economici, ambientali, politici, ecc. - possano essere ridotti a problemi tecnici. Ma non c’è nessun algoritmo che stabilisce quale di questi problemi tecnici risolverà la domanda pratica e quale decisione in definitiva bisogna prendere. E, siccome non esiste un algoritmo che fornisce le decisioni da prendere, bisognerà operare una scelta, ma questa scelta va discussa e condivisa con la società, trovando i mezzi istituzionali, politici, per gestire questa fondamentale ambiguità”.

Estendere il diritto a condividere le domande di ricerca con una comunità allargata di pari

La formula che propongono gli autori è di rivedere la presunta separazione tra scienza e società. Non solo la torre d’avorio non esiste più, ma la pretesa di autonomia della scienza tipica del sogno cartesiano e il modello di demarcazione che separa la scienza dalle altre attività umane, si rivelano una chimera. Così come risulta ingannevole la quantificazione del mondo, che riduce i fenomeni in numeri e che, separando i fatti dai valori, chi produce conoscenza da chi la usa, si illude di proteggere la scienza da eventuali abusi a fini politici. Meglio invece partire dalla consapevolezza dei limiti della conoscenza scientifica e dalla responsabilità degli stessi scienziati. E, soprattutto, ascoltare le istanze di partecipazione della società.

“La massima della ‘governance’ - continua Funtowicz - è che il cittadino deve credere che tutto sia sotto controllo. E le stesse persone non vogliono rinunciare alla scienza come ad un fattore determinante per le decisioni perché non riescono ad immaginare un’alternativa condivisa. Questo è comprensibile ma definisce la natura del problema. E il sistema rischia di diventare sempre di più un ‘ancien regime’, incapace di rispondere ai bisogni dei suoi cittadini”.

E’ in questo scenario che gli autori hanno sviluppato una nuova idea di qualità, che non può prescindere dal dialogo aperto tra tutti coloro che sono coinvolti, e che deve essere affidata ad una extended peer community, vale a dire ad una comunità estesa di pari. Secondo gli studiosi, il diritto ad accedere e a creare la conoscenza, a formulare le domande di ricerca e a prendere le decisioni non può essere appannaggio solo degli appartenenti alla comunità scientifica riconosciuti come esperti in una data materia. Tale diritto andrebbe invece esteso anche agli scienziati portatori di prospettive minoritarie, agli esperti di altri settori rilevanti, ai cittadini, che possono contribuire con conoscenze tradizionali non riconosciute dalla scienza normale oppure con opzioni sociopolitiche, nonché a tutti i titolari di interessi in gioco. In una parola, la qualità non può prescindere dalla partecipazione democratica.

La visione ottimistica del progresso

Trovare delle soluzioni condivise tra scienza, politica e società è fondamentale perché non stiamo parlando di una crisi che riguarda solo la scienza, ma di un fenomeno globale che investe tutti i settori. Ne è convinta Alice Benessia, che nel libro ha curato, insieme a Funtowicz, un capitolo dedicato al ruolo che gioca una certa narrazione positivistica del progresso, che presenta l’innovazione tecno-scientifica come soluzione unica alla crisi sistemica che ci troviamo ad affrontare, dalla recessione economica alla scarsità di risorse energetiche e materiali, al degrado socio-ambientale[2].

“Il nostro modello di crescita affronta oggi un paradosso - spiega Benessia - sostenere l’aumento costante del nostro consumo di risorse in un mercato sempre più saturo e all’interno di un sistema caratterizzato da risorse limitate. Nella narrazione dell’innovazione, la via d’uscita dal paradosso è affidata alla tecnoscienza, considerata in grado di estendere indefinitamente i confini dell’essere e dell’agire umano mediante la manipolazione creativa della materia, dell’energia e della vita. Un processo che ci può portare a dilatare i limiti biofisici individuali, di specie e della biosfera, e di migliorare indefinitamente la qualità e la durata della vita umana. Ma è evidente che mentre l’innovazione ci rende sempre più potenti, nel contempo essa ci rende altresì più vulnerabili. Da Chernobyl a Fukushima, da Bophal alla piattaforma Deepwater Horizon nel Golfo del Messico, la nostra epoca è costellata di casi esemplari”.

Nel capitolo sono evidenziati due aspetti. Il primo è la traiettoria storica di questa narrazione, che gli autori riconducono agli ideali cartesiani di potenza e controllo sulla natura [3]. In questa ricostruzione si evidenzia l’ineludibile correlazione tra la dimensione dei “fatti” della scienza e quella dei “valori” immersi nei processi di governo e di convivenza civile. L’altro è il senso di inevitabilità connesso a questa narrazione, l’idea, cioè, che il progresso tecnoscientifico sia l’unica direzione verso cui possiamo andare se vogliamo stare meglio, vivere a lungo e salvare il mondo. Non solo le tecnologie emergenti – quali ad esempio la cosiddetta Internet delle Cose o la biologia sintetica – sono presentate come desiderabili e possibili, ma anche come necessarie, esonerandoci dalla necessità di discutere, di volta in volta, quali possano essere i motivi per decidere di produrle e i modi per gestire le loro conseguenze.   

“L’urgenza con cui dobbiamo rispondere alle pressanti emergenze socio-ambientali che affliggono il pianeta - continua Benessia - fa sì che ogni riflessione ponderata sul processo di valutazione degli impatti dell’innovazione venga rimandata, ridotta o addirittura esclusa. L’eventuale incertezza riguardo al futuro viene presentata come ‘provvisoria’, definita nei termini statistico-quantitativi della valutazione dei rischi e gestita tramite un’analisi dei costi-benefici. Tutte le conseguenze che esulano da tali modelli, sono considerate anomalie”.

Sono queste la scienza e la società che vogliamo?

Ma è possibile uscire da questa empasse dove un problema complesso con ramificazioni molteplici, come può essere, ad esempio, l’introduzione di cibo OGM sulle nostre tavole, viene ridotto ad una mera analisi di costo-beneficio o di effetti sulla salute? E c’è un modo di conciliare ricerca scientifica e tecnologica con questioni come etica, responsabilità, sostenibilità? La risposta sembra essere sì, ma a patto che ci chiediamo quale mondo vogliamo sostenere, e per chi?

“Tra le conclusioni del capitolo c’è una esortazione - dice Benessia - proviamo a fare un esperimento mentale, immaginiamo che queste tecnologie non comportino rischi e pericoli. Anche ammesso questo, rimane a mio avviso irrisolta la domanda: ma che mondo è quello in cui tutto ciò che facciamo dipende da una macchina  in cui tutto è controllato, che ci segnala quello che dobbiamo fare, che decide per noi, che ci fa essere ‘never late never lost never unprepared’? come recita il titolo del capitolo. Se procediamo nella direzione degli organismi creati in laboratorio con delle funzioni specifiche, che impatto ha tutto ciò sul nostro modo di stare al mondo con gli altri esseri viventi? Se si prova a fare questo esercizio, ci si rende conto di quello che è desiderabile e per chi, che non è possibile separare i fatti, i dati, dai valori”.

Il libro vuole aprire uno spazio di riflessione democratica su nuove possibili narrazioni, nelle quali le dimensione politica, etica e sociale dell’innovazione assumano un ruolo essenziale accanto a quelle scientifica e tecnologica.

Science on the Verge è una lettura che dovrebbe interessare, a mio avviso, molte persone. Non solo gli scienziati, a volte poco attenti a ciò che si muove intorno all’attuale modo di produrre scienza e tecnologia, ma anche politici e cittadini dovrebbero riflettere sulle questioni sollevate dagli autori, perché spesso pretendono dalla scienza più di quanto essa possa offrire. Come Daniel Sarewitz scrive nella premessa, in nome dell'efficienza e del controllo dei rischi abbiamo delegato alla tecnologia il nostro stesso giudizio, la nostra facoltà di operare scelte e di agire con raziocinio. E questo a discapito della capacità, che uomini e sistemi hanno sempre posseduto, di adattarsi all’incertezza e agli imprevisti. Ma il libro invita ad un cambio di paradigma generale che, immagino, farà anche molto discutere.

“Sarebbe una lettura sbagliata del libro e della nostra attività dedurre che noi vogliamo distruggere la scienza - chiarisce Funtowicz. Tutt’altro, noi riconosciamo i progressi della scienza e della tecnologia. Eppure, aggiungiamo, ci sono segnali che non vanno ignorati, e il libro rappresenta un invito alle persone a riflettere su una problematica di cui è difficile parlare, soprattutto in situazioni di grande conflitto e con posizioni ideologiche così marcate”.

Segnali di cambiamento tra citizen, responsible ed open science

A valle di questa interessante chiacchierata, chiedo agli autori se intravedono esempi di pratiche, dentro e fuori il panorama scientifico, che comincino a usare un paradigma diverso nell’affrontare la modernità così come è definita dal libro.

“Gli scienziati giocheranno certamente un ruolo centrale in futuro - mi risponde Saltelli - se ne vedono già i segnali. La campagna di Timothy Gowers contro Elsevier all’insegna di una nuova ‘primavera accademica’, o il dibattito in Olanda sulla ‘scienza in transizione’ sono chiari esempi della consapevolezza dei ricercatori di voler voltare pagina. Ma la partecipazione alla costruzione di conoscenza vede protagonisti anche altri attori. Si pensi a tutto ciò che sta avvenendo attorno ai meccanismi della ‘citizen science’, che ha aspetti molto diversi, dall’amateur che contribuisce semplicemente a raccogliere dati al ricercatore militante che si impegna in battaglie per scoprire le irregolarità delle amministrazioni locali. Ci sono esempi di scienziati che diventano giornalisti investigativi, o cittadini, che, abbandonando l’idea di una scienza separata e avendo passioni e interesse, prendono parte ai processi in maniera esplicita. Tutto questo può aiutare la scienza, demolendo la torre d’avorio, ristabilendo la fiducia non solo dei cittadini, ma anche degli scienziati verso la propria comunità e le sue pratiche”.

Che sia in atto un tentativo di cambio di rotta lo dimostra la Commissione Europea, che da alcuni anni sta promuovendo un approccio alla ricerca e all'innovazione in cui invita tutti gli attori sociali (scienziati, cittadini, decisori politici, aziende, organizzazioni della società civile, mondo dell'educazione, terzo settore, ecc.) a collaborare con il comune obiettivo di “allineare i processi e i risultati della ricerca e dell'innovazione ai valori, ai bisogni e alle aspirazioni della società”. L'approccio è stato definito Responsible Research and Innovation” (RRI) ed è diventato un tema trasversale del più importante programma europeo di  finanziamento della ricerca e dell’innovazione, Horizon 2020. Un’opportunità e al contempo una sfida per il mondo scientifico, dagli esiti non scontati.

“Io non posso dare esempi - replica Funtowicz - ma una cosa è chiara, quando abbiamo parlato della necessità di estendere la comunità di pari, e del controllo di qualità negli anni ’90 non potevamo immaginare lo sviluppo che avrebbero avuto le reti sociali e la blogosfera, Internet in generale. Oggi tutta la scienza che ha un impatto è dibattuta con non scienziati, amateurs, al punto da mettere in  discussione e rivedere la stessa scienza, e questo è veramente incredibile. E’ quello che succede nel dibattito sul clima, sull’energia, sugli OGM, sull’ambiente, ecc. Questi strumenti, che pure hanno contraddizioni, a mio avviso hanno incredibili elementi di apertura. In questo senso per me il cambiamento del processo è più importante di un esempio riuscito, dove ci porta il processo è meno importante del modo con cui ci arriviamo”.

Alice Benessia, Silvio Funtowicz, Mario Giampietro, Ângela Guimarães Pereira, Jerome R. Ravetz, Andrea Saltelli, Roger Strand, Jeroen P. van der Sluijs, 2016. "The Rightful Place of Science": Science on the Verge. Tempe, AZ: Consortium for Science, Policy & Outcomes.

[1] vedi John P.A. Ioannidis: How to Make More Published Research True (2015), e Why Most Published Research Findings Are False (2005).
[2] I due autori hanno recentemente dedicato un libro al tema dell’innovazione. Si veda anche il testo.
[3] Sulla fine del sogno cartesiano, gli autori hanno anche pubblicato Science, Philosophy and Sustainability. The End of the Cartesian dream.

Cfr. anche The Guardian.


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