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Se non è intensiva l’agricoltura sarà estensiva: ossia deforestazione

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I componenti del gruppo SETA (Scienze e Tecnologia per l’Agricoltura), formato da ricercatori, agronomi, forestali e agricoltori dediti esclusivamente allo sviluppo dell’agricoltura, offrono un contributo al dibattito sul Recovery Plan e sul progetto della Commissione Europea, denominato Green Deal, nella sezione Farm to Fork che vuole delineare il futuro dell’agricoltura europea.

Crediti immagine: GRID Arendal. Licenza: CC BY-NC-SA 2.0.

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Ampio spazio mediatico viene dedicato a ideologie alla moda che tendono a demonizzare gli allevamenti e le agricolture “intensive”. Al contrario gli allevamenti e le agricolture “intensive” (meglio descrivibili come “tecnologiche”) non sono in opposizione a “sostenibili”, ma dovranno convivere nell’obiettivo di fornire alla popolazione mondiale gli alimenti necessari.

Negli ultimi 10.000 anni l’agricoltura si è continuamente sviluppata per sostenere il fabbisogno alimentare di una popolazione crescente. A partire dal 1960 vi è stata un’importante accelerazione nell’applicazione delle scoperte scientifiche agli allevamenti e agricolture “tecnologiche”: meccanizzazione, genetica, fitofarmaci e fertilizzanti “chimici”. Se nel 1950 la popolazione mondiale era composta da 3 miliardi di individui, dei quali 2 avevano cibo a sufficienza e l’altro era sottonutrito, oggi, su di una superficie coltivabile mondiale cresciuta appena del 10% ma ridottasi in Europa, dei 7,8 miliardi di consumatori 7 dispongono di cibo a sufficienza, a volte anche troppo, e 0,8 sono sottonutriti.

Spesso viene richiamata la sicurezza alimentare come assenza di tracce, peraltro valutate innocue, dei fitofarmaci, trascurando che in assenza di protezione dai parassiti è possibile riscontrare la presenza, più rilevante per la salute pubblica, delle ben più tossiche micotossine e fitoalessine. Il tutto senza fare accenni alla garanzia della disponibilità di cibo.

L’Italia in questo settore è molto carente: se esportiamo frutta, vino e riso e siamo autosufficienti per pollame, uova, patate ed agrumi, per il resto dipendiamo dall’estero. Importiamo il 70% della carne ovicaprina, il 15% del latte, il 55% della soia, il 33% del mais. Degli ultimi due, i quantitativi importati sono prevalentemente derivati da piante OGM, delle quali in Italia è vietata la coltivazione ma non la commercializzazione e il consumo dei prodotti.

Non si considera che la rinuncia alle agricolture e agli allevamenti tecnologici incrementerebbe drammaticamente il deficit alimentare di Italia ed Europa, oltre a impedire l’aumento produttivo necessario nei paesi a basso reddito. Per dare una dimensione al problema, si cita la statistica pubblicata dall’Accademia di Agricoltura di Francia sulla produttività nazionale a ettaro del frumento tenero invernale, nella media 2008-2018: intensiva 7,1 tonnellate per ettato, biologica 2,78 tonnellate per ettaro. La vicenda della dipendenza dall’estero per la disponibilità dei vaccini dovrebbe aver insegnato qualcosa in merito all’alea di dipendere da altri paesi per il soddisfacimento dei bisogni primari. Senza scomodare la storia, ricca di carestie e conseguenti rivoluzioni, basti ricordare che, a seguito dell’incremento dei prezzi mondiali del grano tenero panificabile verificatosi tra luglio 2020 (182 euro per tonnellata) e marzo 2021 (230 euro per tonnellata), a partire dal 31 marzo 2021 Vladimir Putin ha posto un dazio in uscita di 50 euro a tonnellata, al fine di conservare le scorte nazionali ed evitare rincari sul mercato interno.

La priorità assoluta va quindi data alla produttività, migliorando nel contempo la sostenibilità ambientale dell’agricoltura e dell’allevamento tecnologici. Segnaliamo che da decenni questo progresso è perseguito con incoraggianti successi da chi si occupa di agricoltura (qui e qui degli approfondimenti).

Il 2 marzo 2021, ricercatori afferenti al Joint Research Centre di ISPRA della Commissione Europea e alla divisione di Statistica della FAO, hanno pubblicato su Nature Food un interessante articolo, in cui si evidenzia come le emissioni di tutti i gas serra (misurate come tonnellate equivalenti di anidride carbonica) legate alla produzione di cibo sono aumentate del 12,5% tra il 1990 ed il 2015 passando da 16 a 18 Gt CO2e/y. Tuttavia, mentre nel 1990 incidevano per il 44% sulle emissioni globali, nel 2015 pesavano solo per il 34% sulle emissioni di gas serra planetarie, nonostante la produzione di cibo fosse aumentata del 40% in quei 25 anni. Questi risultati eccezionali derivano dalla cura e professionalità degli addetti all’agricoltura nei paesi dove si applicano tecnologie appropriate e verranno persi se adotteremo politiche di coltivazioni “biologiche” estensive (ossia non basate su meccanizzazione, miglioramento genetico usando le tecnologie più recenti, fitofarmaci e fertilizzanti “chimici”). Per i paesi in via di sviluppo sarà economicamente conveniente produrre cibi da vendere in Europa, ovviamente solo dopo aver soddisfatto i loro bisogni. Il conseguente aumento delle emissioni di gas serra in quei paesi, la deforestazione e la perdita di biodiversità saranno i doni avvelenati che daremo in cambio, esternalizzando le pratiche sgradite alle nostre pubblicità.

Per sopperire all’incremento della richiesta alimentare di una popolazione mondiale in continua crescita vi sono due vie: o aumentare le superfici coltivate a scapito delle foreste e delle praterie “naturali”, o incrementare la produttività di ogni ettaro coltivato, migliorando le attuali tecnologie e incrementando le conoscenze. Rinunciare alle produzioni tecnologiche, e passare alle agricolture e zootecnie “biologiche”, avrebbe risultati disastrosi sia in termini di produzione sia di impatto ambientale globale (si vedano qui, qui e qui gli articoli del sito SETA).

Per incrementare la sostenibilità ambientale delle produzioni tecnologiche occorre quindi migliorare le pratiche attuali, eliminando i pregiudizi. Le nuove tecniche di miglioramento genetico (Tea, Tecniche di Evoluzione Assistita, citate come utili in “Farm to Fork”) promettono una ulteriore riduzione dei fitofarmaci e, per gli animali, degli antimicrobici a rischio resistenze. Promettono anche di conseguire una migliore efficienza nell’assorbimento degli elementi nutritivi, limitando la dispersione dei fertilizzanti nell’ambiente. Purtroppo la Corte di Giustizia Europea con la sentenza 5 luglio 2018 ha assimilato le Tea agli OGM, assoggettandole agli stessi lunghi, difficili e costosti iter burocratici per ottenere l’autorizzazione al loro utilizzo (qui un approfondimento)

I miglioramenti della sostenibilità ambientale passano anche attraverso le applicazioni delle tecnologie informatiche e l’utilizzo dei sistemi di geolocalizzazione precisa. Se fino a fine '900 si tendeva a standardizzare gli interventi colturali a livello di grandi superfici, dall’inizio del secolo attuale è iniziata la tendenza di ottimizzare gli interventi operativi, tramite traiettorie precise, senza fallanze o sovrapposizioni. È stata anche introdotta la modulazione delle dosi dei fattori tecnici somministrati, adattandole alle necessità sito-specifiche del terreno, e al relativo stato nutrizionale delle piante coltivate, che dimostrano ampie variabilità in piccoli spazi. Si possono individuare tramite rilievi veloci e non invasivi (satelliti, droni, sensori portati da macchine operatrici) i primi focolai delle malattie, limitando l’uso dei fitofarmaci a quanto serve per bloccarne tempestivamente la diffusione. In futuro i robot, guidati da sistemi di intelligenza artificiale che sappiano distinguere le infestanti dalla coltivata, potranno sostituire il lavoro eseguito un tempo con la zappa e attualmente con lo spargimento di erbicidi selettivi. Alcuni prototipi sono già in sperimentazione. La tecnologia più matura riguarda la veicolazione degli erbicidi solo sulle infestanti, senza interessare la coltura, con risparmi di erbicidi superiori al 50%. Il passo successivo potrà essere quella della distruzione meccanica delle infestanti.

La tecnologia fin qui descritta è stata ultimamente denominata come “agricoltura 4.0”. Ma vietando l’uso degli erbicidi prima di disporre dei robot, si dovrà riportare il numero degli addetti all’agricoltura ai numeri del 1950: il 50% dei cittadini ad usare la zappa, sempre che si trovino soggetti disponibili. L’introduzione di tecnologie sofisticate richiede un largo innesto in agricoltura di nuove generazioni che dispongano buona padronanza dei dispositivi informatici, non disgiunta da una discreta esperienza di agricoltura, che deve essere ereditata dalle generazioni anziane. I cicli dell’agricoltura sono annuali nei cereali, poliennali nelle piante arboree. Non si può pretendere di portare a termine una tale rivoluzione in pochi anni, né di attuarla senza importanti investimenti finanziari, da parte di chi deve mettere a punto e produrre la strumentazione, e dagli agricoltori che dovranno dotarsene.

Naturalmente la sostenibilità deve essere anche economica: i produttori agricoli sono imprenditori, che non possono evitare di compensare le uscite con le entrate, pena il fallimento. In USA ed Europa, particolarmente in Italia, il numero degli imprenditori agricoli si sta riducendo continuamente, e la loro età media è molto avanzata. Una ulteriore riduzione della popolazione attiva in agricoltura vedrà sparire un enorme patrimonio di conoscenze pratiche, difficile da ripristinare in tempi brevi.

La sostenibilità deve essere anche etica, per fornire una nutrizione appropriata alla salute per l’uomo, che implica corrette disponibilità di alimenti di origine sia vegetale, sia animale (carni, latte e uova), tutti deficitari se si considera – come giusto – l’intera popolazione mondiale. Anche per la produzione animale vale quanto detto sopra per l’intensificazione delle colture vegetali (che in questo caso implica anche il responsabile benessere degli animali coinvolti). Da notare che, secondo Capper e Cady, intensificare le tecniche di allevamento bovino significa tagliare drasticamente le emissioni di GHG per litro di latte.

Riguardo alla tutela della biodiversità, si ritiene che il modo migliore sia quello di rispettare l’estensione delle foreste. Anche l’agricoltura si giova della biodiversità, specie di quella del suolo, dove si trovano milioni di microorganismi in un centimetro cubo. Ma se si vuole ottenere una buona produzione dal punto di vista qualitativo e quantitativo, occorre privilegiare le piante coltivate e le specie simbiotiche od utili, ostacolando una miriade di altre specie, in competizione per lo spazio, la luce del sole, ed i nutrienti. Occorre inoltre controllare attentamente i parassiti a livello fogliare e radicale, e le infestanti. Volendo rispettare una biodiversità totale anche sui terreni agricoli, si tornerebbe indietro di oltre 10.000 anni, a comportarci come i cacciatori-raccoglitori. Questo comportamento umano permetteva alla Terra di nutrire non più di 5 milioni di abitanti. 

 


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