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Servizio sanitario nazionale, addio? I rischi della privatocrazia

Stiamo perdendo il diritto costituzionale alla salute? La crisi del Servizio sanitario nazionale in atto è un problema grave, su cui è importante tenere accesi i riflettori. Al Mario Negri se ne è parlato nel seminario “Salve lucrum: come salvare il Servizio sanitario nazionale dalla privatocrazia”. Giuseppe Remuzzi, Chiara Cordelli e Ivan Cavicchi hanno illustrato i numerosi rischi connessi alla privatizzazione crescente del sistema sanitario. Rischi non solo per la salute, ma per la stessa democrazia. Una profonda riforma è necessaria, che corregga gli errori degli ultimi quarant'anni. 

Crediti immagine: Online-marketing/Unsplash  

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Il Servizio sanitario nazionale è condannato anche in Italia? In un recente articolo pubblicato su JAMA a firma di Donald M. Berwick dal significativo titolo “Salve Lucrum (salve, profitto). La minaccia esistenziale dell’avidità nell’assistenza sanitaria americana”, si sottolinea che «…se da un lato il profitto può svolgere un ruolo nel motivare l’innovazione e migliorare la qualità delle cure», dall’altro «in sanità i comportamenti cleptocapitalistici che portano all’aumento dei prezzi, dei salari e del potere del mercato, finiscono poi per danneggiare i pazienti, le loro famiglie, le istituzioni e i programmi governativi».

Non è un problema limitato agli Stati Uniti d’America: al contrario, la privatizzazione ormai galoppante dei sistemi sanitari pubblici in molti stati è parte di un più ampio movimento che vede enti privati sostituirsi agli stati nella gestione di settori sempre più ampi dell’amministrazione pubblica, in tutto il mondo.

Come si può modificare questo processo che sembra inarrestabile? Che cosa possiamo fare per ridare forza e centralità al servizio sanitario pubblico, autentico baluardo di democrazia? Se ne è discusso al Mario Negri il 5 giugno nel seminario "Salve lucrum: come salvare il SSN dalla privatocrazia", ottavo incontro organizzato dal Centro studi di politica e programmazione socio-sanitaria, con l’obiettivo di promuovere un confronto pragmatico per la riorganizzazione e il rilancio del Servizio sanitario nazionale.
Hanno partecipato Chiara Cordelli, docente di filosofia all’Università di Chicago, Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto Mario Negri, e Ivan Cavicchi, docente di Sociologia delle organizzazioni sanitarie all’Università di Roma Tor Vergata, moderati da Alessandro Nobili, direttore del Centro studi di politica e programmazione socio-sanitaria del Mario Negri.
Punto di partenza è l’articolo 32 della Costituzione secondo cui è la Repubblica a dover tutelare la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività. Un diritto fondamentale che tuttavia nello stato attuale delle cose è disatteso, facendo emergere, come spiega Giuseppe Remuzzi, un problema culturale: si avalla una società che fonda il benessere della popolazione sulla concorrenza e sul libero mercato dando così sempre più credito e più potere a un sistema orientato alle prestazioni e al profitto. In questo modo si finisce per rispondere più agli interessi degli azionisti che ai bisogni degli ammalati.

La privatocrazia sanitaria mette a rischio la democrazia?

Chiara Cordelli, che ha recentemente pubblicato il saggio Privatocrazia. Perché privatizzare è un rischio per lo Stato moderno, ha aperto i lavori citando diversi dati che mostrano quanto in Italia la situazione del servizio sanitario sia ormai orientata verso la privatizzazione: circa il 60% dei fondi pubblici finisce in mano ai privati, in particolare in sanità, per l’acquisto di servizi medici e farmacologici; più del 50% delle istituzioni sanitarie che si occupano di malattie croniche sono in mano ai privati, così come lo sono più dell’80% delle istituzioni di assistenza sanitaria residenziale. Ma la progressiva privatizzazione della sanità, ha spiegato Cordelli, è solo un tassello di un fenomeno più ampio e globale. Nel libro Cordelli utilizza il termine “privatocrazia” per identificare una modalità di gestire la cosa pubblica che da un lato si distanzia da quello che era il modello socialdemocratico tipico del dopoguerra, un modello secondo cui governare significava spendere e amministrare direttamente, ma dall’altro lato non corrisponde a quell’avvicinamento allo stato minimo tanto amato dai liberali e dagli anarchici: infatti, non c’è necessariamente una riduzione della spesa pubblica complessiva né delle dimensioni del governo e dello stato. Vediamo invece una redistribuzione del potere politico all’interno di un sistema amministrativo in cui il potere viene delegato ai privati. I privati vengono chiamati ad agire come amministratori pubblici, sullo stesso livello. I fondi pubblici vanno ai privati, che agiscono come agenti dello stato. Si trasforma così lo stato al suo interno, lo stato si privatizza: ecco perché Cordelli parla di “privatocrazia”. Il termine privatizzazione in realtà può confondere: non si tratta di una trasposizione del modello americano, in cui tutto è delegato interamente al privato; qui il privato è chiamato ad agire come braccio del pubblico.
Il pensiero politico sottostante è quello neoliberale, che punta all’introduzione di modelli di mercato all’interno dell’amministrazione pubblica (la cui legittimità era stata indebolita dalle inefficienze legate anche alla crescente burocrazia) come sistema per ridurre le spese e migliorare efficienza e qualità. L’implementazione delle politiche di austerità spinge ulteriormente verso il cosiddetto partenariato tra pubblico e privato, anche perché in questo modo alcune spese non vengono classificate come spesa pubblica.
Le promesse legate alle privatizzazioni, osserva però Cordelli, in molti casi non sono state mantenute: nonostante i pochi dati, si può dire che i benefici di molte forme di esternalizzazione non superano i costi; la concorrenza, specialmente nel campo della sanità, è stata ostacolata dal formarsi di monopoli, necessari alle indispensabili economie di scala; la privatizzazione può inoltre limitare la spinta all’eccellenza riservandola ai servizi più lucrativi, a scapito di quelli non lucrativi, in primis la prevenzione. E la sottovalutazione della prevenzione spinge il sistema sanitario verso la non sostenibilità, perché le cure e i costi correlati crescono.
Ma c’è una domanda cruciale, forse ancora più fondamentale di quella sull’efficienza. La privatocrazia è compatibile con uno stato democratico? In realtà, è la risposta di Cordelli, privatocrazia e democrazia entrano necessariamente in conflitto. Perché ci possa essere legittimità democratica, infatti, l’efficienza non basta: le decisioni devono rispondere a determinate condizioni. Alla base ci deve essere l’autogoverno democratico, ovvero il controllo direttivo. Il potere di effettuare scelte deve essere autorizzato democraticamente, sulla base di considerazioni che mettano al centro l’interesse pubblico. Se la privatizzazione è utilizzata come meccanismo sistematicamente principale per la programmazione ed erogazione dei servizi essenziali, sanitari e non solo, il sistema non è compatibile con principi democratici. In primo luogo, si perde la accountability, il dovere di rispondere delle proprie scelte, di chi prende le decisioni. Maggiore è la privatizzazione, inoltre, minore è il controllo delle istituzioni pubbliche sull’esecuzione delle funzioni, decentralizzate e frammentate fino a sfuggire al controllo: anche perché la spinta per tagliare la spesa pubblica ostacola la presenza di personale addetto al controllo e alla supervisione. Lo stato così si depotenzia e perde accesso anche alle informazioni, che sono passate in misura sempre maggiore in mano ai privati.
Inoltre a causa della privatocrazia si indebolisce l’attaccamento affettivo alle istituzioni, necessario alla vigilanza civica: i cittadini vedono con più difficoltà gli abusi; inoltre se sono sempre di più i privati che erogano prestazioni, i cittadini sono disincentivati a occuparsi della cosa pubblica e partecipare, incluso andare a votare. Infine, c’è anche un problema enorme di disuguaglianza politica: anche economica, ma la privatizzazione dà incentivi ai privati per fare pressioni sul sistema politico per privatizzare ulteriormente. Nel contesto di uno stato sempre più dipendente dai privati, resistere diventa difficile. Un problema molto difficile a livello globale, dove i privati hanno un potere sufficiente a ricattare gli stati. Vengono così minate le basi stesse della democrazia: non ci può essere uno stato privatocratico con una forma di autogoverno legittimo. Uno stato privatocratico, insomma, mina le stesse basi dell’esistere della democrazia.
Come resistere a questa deriva? Per quanto riguarda il servizio sanitario, a livello teorico servono più risorse, più personale, stipendi più alti; ma anche una nomina più democratica dei direttori sanitari, non più lasciata ai Presidenti delle Regioni, ma a commissioni formate da cittadini (medici, infermieri, pazienti). Questo potrebbe portare più partecipazione democratica all’interno della gestione dello stato, avvicinando i cittadini. Ancor prima, limiti alla privatizzazione dovrebbero essere introdotti nella Costituzione: la privatizzazione dovrebbe essere limitata proprio per proteggere la democrazia, i principi di base dell’autogoverno.

Un problema prima di tutto culturale

Come ha sottolineato Giuseppe Remuzzi, se per ora in Italia nessuno di noi ha ancora la preoccupazione dei soldi quando è malato, come già avviene in misura drammatica negli Stati Uniti, questa situazione è destinata a mutare velocemente. Stiamo andando rapidamente verso il modello USA. Siamo ancora in tempo per salvare il Servizio sanitario pubblico? Si tratta di un problema sostanzialmente culturale. Si tratta di ritrovare lo spirito che ha animato la fondazione del sistema sanitario in Inghilterra nel ’48: bisogna sostenere il Servizio sanitario pubblico con le proprie tasse per non avere la preoccupazione economica nel momento in cui ci si ammala. Questa è una dichiarazione di civiltà fondamentale: consentire a tutti i cittadini gratuitamente gli interventi più avanzati. Rendersi conto dell’importanza di un sistema di assistenza universale, da non dare per scontato. Un sistema che eroga gratuitamente tutte le prestazioni, e non solo quelle economicamente più remunerative, trascurando le altre.
Qual è il problema di un sistema sanitario basato sul privato? Che risponde alle esigenze degli azionisti più che a quelle dei malati. Un sistema pubblico lavora per ridurre le prestazioni, attraverso la prevenzione. Un sistema privato lavora per aumentarle e aumentare così i fatturati.
Non per caso, ha ricordato Remuzzi, ormai si moltiplicano gli studi che mostrano come un sistema basato sugli enti privati, non è più efficiente, ma al contrario lo è meno: tanto che un recente editoriale sul New England Journal of Medicine sostiene che, dopo l’esperienza del Covid, è ora di creare un servizio sanitario pubblico negli Stati Uniti. I dati peraltro sono chiari, parlano di un sistema privato inefficiente, come la pandemia ha portato inequivocabilmente alla luce: Remuzzi cita un dato per tutti, si è calcolato un milione di vite umane perse negli ultimi due anni a causa delle inefficienze del sistema. Il sistema sanitario del paese più ricco del mondo è costosissimo e fa acqua da tutte le parti: le grandi innovazioni vengono da lì, ma i malati non ne godono. Bisogna cambiare approccio, ha sottolineato Remuzzi. Un sistema sanitario basato sul libero mercato non può funzionare nell’assicurare un’assistenza sanitaria universale di qualità: finisce col creare un sistema sanitario guidato dal prodotto, in cui provvedere al bisogno del malato diventa facoltativo. Non bastano piccole riforme e aggiustamenti: bisogna recuperare la cultura dell’importanza della salute pubblica, da cui dipendono forza e prosperità di una nazione. In questo senso, molto laicamente, Remuzzi riprende un editoriale pubblicato sugli Annals of internal medicine che nel lontano ’78 invita a recuperare la visione di Marx, secondo cui l’intreccio tra medicina e capitale è deleterio per la salute pubblica e l’unica via per mettere limiti alla crescita senza controllo e alla ricerca di profitto del settore privato è creare un sistema sanitario pubblico: sull’esempio dell’Italia o del Regno Unito, si diceva allora. Come ha osservato Remuzzi, è vicino il momento in cui non potrebbero più scriverlo.

La necessità di completare la riforma del servizio sanitario

In un recente articolo pubblicato su Quotidiano sanità Ivan Cavicchi ha paragonato il Servizio sanitario al ponte Morandi di Genova, crollato per mancanza di manutenzione. Per salvare il sistema sanitario in Italia, afferma Cavicchi, oggi bisogna ripartire dalla legge 833 del 1978, che l’ha fondato, per riequilibrarlo in modo da rifondarne le condizioni di sostenibilità.
Oggi il governo ha proposto una politica sanitaria di tagli lineari, lasciando intatti i tetti alle assunzioni e stabilendo una politica di definanziamento per il futuro. Nel DEF è chiaramente indicata la riduzione in percentuale della spesa sanitaria rispetto al PIL. Il problema è quindi affrontato come una questione, essenzialmente, di sostenibilità del sistema.
Alla sua fondazione, il servizio sanitario era invece progettato come un sistema profondamente integrato nell’economia del Paese, con una programmazione economica e sanitaria intrecciate. La sostenibilità era garantita da un doppio equilibrio: equilibrio tra la produzione di salute, da considerare una ricchezza, per mezzo della prevenzione e della cura; e tra il ruolo principale del servizio sanitario pubblico e di quello privato.
È a partire dagli anni 90 che questo cambia: la spesa sanitaria diventa semplicemente una spesa compatibile con il PIL, indicata come percentuale di spesa rispetto al PIL. In quarant’anni sono stati accumulati molti squilibri, e per salvare il Servizio sanitario pubblico occorre rimediare in primo luogo agli errori fatti. In caso contrario le politiche di tagli, come quelle attuali, determineranno inevitabilmente la fine infausta del sistema. Alcuni esempi degli squilibri alla base dei problemi di sostenibilità indicati da Cavicchi:

• lo spezzarsi del rapporto tra economia e sanità, con l’esaurirsi della programmazione sanitaria e il divergere dei percorsi delle diverse Regioni; bisogna ripristinare il legame tra sanità ed economia, vedendo la sanità non come antitesi, ma come complementare alla produzione di ricchezza del Paese;

• lo squilibrio tra salute e cura, con uno sbilanciamento importante a danno della prevenzione, quasi completamente trascurata: è proprio attraverso la prevenzione che bisogna invece produrre salute, considerandola, appunto, una ricchezza;

• lo squilibrio tra pubblico e privato, con una esplosione di quest’ultimo negli ultimi quarant’anni: anche grazie agli sgravi fiscali che agevolano eccessivamente il settore privato, creando una disparità e consentendo così una forma di concorrenza sleale;

• lo squilibrio tra ospedale e territorio.

Tra le prime soluzioni: rimuovere il tetto alle assunzioni e analizzare e correggere gli errori che hanno condotto in questa situazione, in modo da definire le nuove condizioni di sostenibilità, eliminando gli squilibri accumulati in questi anni e riprendendo il cammino interrotto negli anni 90. Attraverso un accordo con il governo, ristabilire le condizioni di equilibrio: tra economia e salute, tra cura e prevenzione, tra pubblico e privato. Proseguendo con il processo riformatore che è stato interrotto, a partire da una vera programmazione per obiettivi, che porti a interconnettere nuovamente economia e sanità. Infine, bisogna riaffermare il principio dell’art. 46 della 833, per cui le tutele integrative devono essere a carico del singolo e non compartecipate dal pubblico.


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