fbpx Musica: suoni e silenzi | Scienza in rete

I silenzi della musica

Primary tabs

La musica è forse l’arte più complessa, esiste solo nello scorrere del tempo e può essere approcciata da un punto di vista fisico-acustico, ma anche anatomico, fisiologico e neurologico. E che dire poi del silenzio? Il silenzio è musica? Come viene percepito e, soprattutto, esiste davvero? Gianni Zanarini affronta questi temi in due dei suoi libri, «Silenzio» (Doppiavoce, 2020) e «Invenzioni a due voci» (Carocci, 2015).

Immagine: Pixabay License.

Tempo di lettura: 9 mins

«Il legame fra teoria musicale e conoscenza scientifica si presenta nel suo sviluppo storico come un affascinante dialogo tra due saperi che nel corso dei secoli si consolidano separatamente, ma nello stesso tempo si collegano in modo sempre più stretto», così Gianni Zanarini scrive nell’introduzione di «Invenzioni a due voci». È quasi artificiale una separazione netta tra l’arte e la scienza, a maggior ragione se tra le arti si sceglie la musica.

La particolarità della musica sta essenzialmente nel suo esistere solo nel momento in cui si decide di eseguirla. Si potrebbe dire lo stesso del teatro o del cinema, certamente, eppure chiunque potrebbe idealmente leggere le sceneggiature per immedesimarsi nel contesto teatrale o cinematografico; dall’altro lato, forse solo i musicisti più capaci sono in grado di immaginarsi tutti i suoni leggendo, magari, una partitura per orchestra sinfonica. La peculiarità del pensiero musicale, poi, sta anche nel suo lungo percorso espressivo: il compositore scrive lo spartito, lo spartito viene letto e proposto dal direttore agli orchestrali, gli orchestrali, leggendo le proprie parti e osservando il direttore, suonano lo strumento e, infine, i suoni amalgamati arrivano al pubblico.

Questo naturalmente crea una gamma di interpretazioni molto più ampia di quanto si possa pensare. Non basta, in altre parole, dare in pasto a un computer uno spartito per ascoltare a pieno tutta la musica, per quanto sia raffinata la sintesi informatica dei timbri. L’interpretazione, infatti, è data da tutta una serie di elementi (rallentandi e accelerandi non scritti, ma anche ritornelli arbitrari, cadenze improvvisate, …) e microelementi (piccolissime variazioni di dinamica – cioè di volume – e di agogica – cioè di tempo) che, di fatto, rendono nel complesso ogni esecuzione diversa dalle altre, unica.

Stimoli acustici: orecchio e dissonanza

Come Gianni Zanarini spiega nel suo «Invenzioni a due voci», le variazioni di pressione dell’aria vengono intercettate dal timpano, in fondo al canale uditivo, che tramite martello, incudine e staffa (gli ossicini) trasmette l’informazione alla coclea. La coclea è divisa in due dalla membrana basilare che, vibrando in zone diverse a seconda della frequenza in ingresso, trasmette i segnali alle terminazioni nervose.

L’orecchio, secondo l’analogia del fisico Hermann von Helmholtz riportata da Zanarini, è come un «pianoforte segreto»: le vibrazioni vengono trasmesse per simpatia alle parti di membrana basilare che hanno la stessa frequenza di risonanza della nota suonata – come quando si liberano le corde del pianoforte dagli smorzatori (col pedale) prima di premere un tasto e le onde sonore vengono così trasmesse anche ad altre corde, che iniziano a vibrare. Lo stesso accade quando si prendono due diapason identici: se ne eccita uno solo e l’altro, andando in risonanza, inizia vibrare per simpatia grazie alle onde che si propagano nell’aria.

Tutto il complesso funzionamento del senso dell’udito (orecchio e, ovviamente, cervello), secondo gli studiosi, è probabilmente all’origine di un altro aspetto curioso della percezione musicale. Le distanze tra le note (che si chiamano «intervalli») si identificano con dei rapporti tra le frequenze, anche se noi le percepiamo come differenze. In altre parole, quando intoniamo la scala cromatica1 (i sette tasti bianchi con inframezzati i tasti neri del pianoforte) abbiamo la netta sensazione di aggiungere sempre la stessa «quantità», anche se in realtà non stiamo aggiungendo ma moltiplicando sempre per lo stesso numero, nella fattispecie: radice dodicesima di due (circa 1.059463). Così, l’intervallo di ottava per esempio – come quello tra una nota Do e il Do successivo (un’ottava sopra, appunto) – ha sempre lo stesso rapporto 2:1 tra le frequenze delle due note; ma le differenze tra le frequenze sono diverse a seconda delle note che consideriamo. In appendice2 è riportata una tabella con le frequenze in Hertz (Hz) di alcune note per lasciare che il lettore si diverta nei calcoli. Dall’immagine che segue emerge l’andamento esponenziale della successione delle frequenze delle note che vanno dal Do4 (con frequenza di circa 262 Hz) al Do6 (1047 Hz).

frequenze scala musica

Figura 1. Quello che appare evidente da questo grafico è che i semitoni, cioè la distanza tra due note vicine, procedono per incrementi di «quantità» di frequenza sempre maggiori salendo verso le note acute (e, viceversa, sempre minori scendendo verso le note gravi). È da precisare che, nella fattispecie, è necessario scegliere un’accordatura opportuna per ottenere un simile andamento perfettamente esponenziale: il cosiddetto «temperamento equabile»; con altre accordature si osserverebbero dei leggeri scalini, pur restando intatto il rapporto costante delle ottave (e di altri intervalli).

La cosa interessante, come riferisce nei suoi due libri Gianni Zanarini, è che due frequenze vicine vanno a far vibrare la stessa regione dell’orecchio interno e questo fenomeno crea all’ascolto una certa asprezza, che i musicisti chiamano «dissonanza». Se poi i suoni sono davvero molto vicini, si creano i cosiddetti «battimenti»: non si riescono a distinguere i due suoni separati, ma si sentono delle oscillazioni nell’ampiezza del suono risultante (lo sanno bene i chitarristi quando devono accordare a orecchio).

La musica continua a stupirci però, perché la dissonanza non si avverte solo quando si ascoltano due note vicine, ma anche con intervalli più «larghi» (uno dei quali è stato addirittura soprannominato «diabolus»!) e, in parte, anche a seconda degli strumenti che si prendono in considerazione. Perché?

Come sanno i fisici, ogni suono non puro (un suono puro è quello del diapason, per intenderci) è la risultante della sovrapposizione di più suoni puri con ampiezze diverse: è in questo modo che si viene a creare il timbro degli strumenti, ma anche delle voci e, in generale, di tutti i possibili eventi sonori. Questi suoni puri sovrapposti si chiamano «armonici» e tendenzialmente sono multipli interi del primo armonico «fondamentale» (quello che dà il nome alla nota che effettivamente udiamo). Ebbene, quando si suonano due note diverse, si produce una serie di armonici per ciascuna delle due note; viste le suddette relazioni matematiche che stanno dietro alla successione degli armonici, alcuni armonici fra le due serie coincideranno e altri no. La dissonanza tra le due note aumenterà quanto più diminuiscono gli armonici che coincidono tra le due serie rispettive. Questo fatto (qui descritto in modo semplificato) è particolarmente rilevante, perché gran parte della teoria musicale si basa proprio sull’alternanza tra dissonanza e consonanza, tra tensione e distensione.

Tutto ciò cos’è? Musica o fisica? O piuttosto entrambe?

La musica come percezione del silenzio

Che dire invece dell’assenza di suono, il silenzio, che sul pentagramma viene scritto come «pausa» dotata, per altro, degli stessi attributi temporali delle note scritte? Gianni Zanarini scrive in «Silenzio» che «nella musica come nel linguaggio, il silenzio è condizione necessaria per l’ascolto. È una pausa di silenzio quella che separa una parola dall’altra, una frase dall’altra, o anche una nota dall’altra, un motivo musicale dall’altro». Senza il silenzio, in altri termini, non ci sarebbe né musica né parola.

Ma non è di questo silenzio che parla Zanarini nel suo libro più recente, quanto piuttosto del «silenzio attivo, carico di emozioni che punteggia e arricchisce la comunicazione e l’ascolto. Anche in presenza di un silenzio attivo, e non solo in presenza di un flusso sonoro, la complessa rete di relazioni tra le diverse aree cerebrali svolge la sua straordinaria funzione di colorare ogni istante di emozioni, suscitare ricordi, anticipare il futuro». Potremmo parlare, per esempio, del silenzio che separa i movimenti delle sinfonie e che i frequentatori di teatri e sale da concerto sanno che non deve essere riempito di applausi. Quella pausa lunga e non scritta in partitura non è la fine dell’esecuzione – e non è nemmeno l’intervallo – ma è un silenzio denso ancora di carica emotiva: la musica è ancora in corso.

Leggendo «Silenzio» emerge chiaramente come il silenzio stesso sia musica. Seguendo questo concetto, nei primi anni ’50 del secolo scorso, John Cage – eclettico compositore statunitense – compose il silenzio più famoso di tutti: «4’33’’». Un brano per qualunque strumento o voce, scritto in tre movimenti con le seguenti durate: 30’’, 2’23’’ e 1’40’’. All’inizio del brano la scritta Tacet è l’unica parola che appare. Se ancora non fosse chiaro, «4’33’’» è un brano dove non viene emessa alcuna nota; ma questo vuol dire forse che nessun suono è percepito?

John Cage è stato probabilmente ispirato dalla sua visita alla camera anecoica all’Università di Harvard, una stanza isolata acusticamente dall’ambiente esterno e allestita per eliminare qualsiasi eco (da cui il nome). Entrando in questo spazio e restandoci da soli non si percepisce alcun tipo di suono né rumore, avendo la sensazione di ascoltare il silenzio più assoluto. Ma, come John Cage ha raccontato, gli unici rumori che piano piano si iniziano a udire sembrano proprio essere quelli prodotti dal battito cardiaco e dall’attività cerebrale: il silenzio assoluto non è ascoltabile, che è come dire che non esiste.

In linea teorica, per i fisici, il silenzio assoluto ci sarebbe quando nulla vibra e tutto è fermo, configurazione che si ottiene nello stato termodinamico che si chiama «zero assoluto» o «zero Kelvin», cioè alla temperatura di -273.15°C (per altro, teoricamente e praticamente irrangiungibile). John Cage – magari tentato da uno spirito numerologico tipico della musica antica – potrebbe aver scelto di scrivere 273 (appunto) secondi musicali di silenzio, e cioè 4 minuti e 33 secondi. Non si sa se questo sia il significato originale, ma è piuttosto intrigante notare inoltre che, prendendo il modulo della sola parte intera (273 e non 273.15), è come se Cage volesse suggerire che, pur senza alcuna nota, «4’33’’» non è un silenzio assoluto. E di fatto è così, perché, durante l’esecuzione di «4’33’’», una volta che il pubblico capisce qual è il contenuto del brano, si iniziano a sentire fruscii, respiri e magari i suoni dall’esterno del teatro.

Gianni Zanarini prova a descrivere le sensazioni che possono aver colpito gli spettatori, in particolare della prima esecuzione del 1952.

«Qualcuno rimane interdetto, forse addirittura scandalizzato. Con un gesto di impazienza sfoglia, con un leggero fruscio, il programma di sala in cerca di una spiegazione che non trova, si agita sulla sedia che scricchiola leggermente, sussurra qualcosa al suo vicino, che gli risponde con un’espressione sorpresa e incredula. E non senza una buona ragione: mai, nella storia della musica, è accaduto qualcosa di simile! Forse, però, altri hanno un vissuto diverso. Qualcuno si immerge anche qui, anche ora nel silenzio che precede ogni esecuzione, denso di attesa e animato da suoni appena percettibili: respiri, colpi di tosse, fruscio di programmi, bisbigli, scricchiolii. E, anche se un po’ sorpreso, interpreta la composizione come un invito a entrare con attenzione e concentrazione in questo silenzio vivo: un silenzio che è parte della musica, che è musica esso stesso».

Oggi chiunque può ascoltare musica in rete (soprattutto durante un lockdown), ma quanto è stato detto finora fa capire che recarsi in teatro comporta una serie di azioni e di riti che coinvolgono in modo compiuto l’ascoltatore. La musica – anche quella che contiene pause più corte di 4 minuti e 33 secondi – non si limita quindi a essere un insieme di suoni, ma, come si evince leggendo «Invenzioni a due voci» e «Silenzio» di Gianni Zanarini, è una vera e propria esperienza immersiva e totale, fatta di suoni e di silenzi.

 

Note
L'autore dell'articolo è diplomato in pianoforte e laureato in fisica, l'autore dei due libri è flautista e docente di fisica acustica.
[1] La scala cromatica è fatta da dodici note consecutive distanti tra loro un semitono, cioè la dodicesima parte di un’ottava (l’ottava è l’intervallo per cui il rapporto tra la frequenza più alta e quella più bassa è 2). Una scala cromatica può essere «Do, Do#, Re, Re#, Mi, Fa, Fa#, Sol, Sol#, La, La#, Si, Do». La scala diatonica, invece, è quella in cui gli intervalli non sono solo semitoni, ma toni (il doppio di un semitono) e semitoni; la più famosa è: «Do, Re, Mi, Fa, Sol, La, Si, Do».
[2]
frequenze scala diatonica do maggiore
 
Bibliografia
Zanarini G., Invenzioni a due voci, Carocci editore, Città della scienza, Roma, 2015.
Zanarini G., Silenzio, Doppiavoce, Napoli, 2020

Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Siamo troppi o troppo pochi? Dalla sovrappopolazione all'Age of Depopulation

persone che attraversano la strada

Rivoluzione verde e miglioramenti nella gestione delle risorse hanno indebolito i timori legati alla sovrappopolazione che si erano diffusi a partire dagli anni '60. Oggi, il problema è opposto e siamo forse entrati nell’“Age of Depopulation,” un nuovo contesto solleva domande sull’impatto ambientale: un numero minore di persone potrebbe ridurre le risorse disponibili per la conservazione della natura e la gestione degli ecosistemi.

Nel 1962, John Calhoun, un giovane biologo statunitense, pubblicò su Scientific American un articolo concernente un suo esperimento. Calhoun aveva constatato che i topi immessi all’interno di un ampio granaio si riproducevano rapidamente ma, giunti a un certo punto, la popolazione si stabilizzava: i topi più anziani morivano perché era loro precluso dai più giovani l’accesso al cibo, mentre la maggior parte dei nuovi nati erano eliminati.