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Il silenzio delle bestie e le parole degli stupidi

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Gli animali sono muti? Da Aristotele a Heidegger, si è sempre detto così. Un filone di ricerche sempre più complesse ha negli ultimi decenni dimostrato il contrario. Si potrebbe pensare che la scienza abbia ridato la parola ai muti ma forse, più correttamente, si dovrebbe dire che la scienza ha trovato il modo di donare l’udito ai sordi, cioè, agli umani. La questione animale non è la questione animalista, o almeno non è solo questo. La questione animale ha a che fare con la capacità di una cultura di pensare la complessità. «Dobbiamo essere capaci - osserva la filosofa Elisabeth de Fontenay - di decostruire l'arroganza del carattere dell'uomo senza offendere l'umanità».

Nell'immagine: un passero dalla corona bianca, una delle specie nelle quali si possono osservare dialetti diversi tra una popolazione e l'altra. 

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Si potrebbe dire degli animali quello che Nietzsche diceva dei libri (almeno di tutti quelli scritti prima di lui), e cioè che sono sospetti di apologia dell’umano. Parlare di animali è sempre stato il miglior viatico per parlare dell’essere umano, della sua differenza, della sua unicità. I viventi senza logos di Aristotele, le insensibili macchine cartesiane così come gli “esseri poveri di mondo” di Heidegger sono lo specchio di tutto quello che l’uomo non è e, in questo modo, il miglior modo per farsi un’idea su cosa debba autenticamente essere. Gli animali funzionano come paradigma oppositivo, meglio li definiamo e più sappiamo di noi stessi.

Il folle, ovvero l'animale

In una millenaria tradizione di autoanalisi, l’uomo si è dunque guardato attraverso la lente dell’animale per scoprirsi, ma soprattutto per riconoscersi, ogni volta diverso. E poiché gli occhiali di lenti ne hanno due, potremmo dire che l’altro efficacissimo filtro attraverso cui l’uomo ha messo a fuoco la propria immagine è stata la follia. Anche in questo caso il filtro funziona per negazione. Per capire quanto sia stretto questo legame, la filosofa francese Elisabeth de Fontenay invita a sostituire nella prefazione del celebre volume di Michel Foucault sulla Storia della follia nell’età classica le parole “folle” e “follia” con le parole “animale” e “animalità”. Ne viene fuori un esperimento interessante. «Non c’è linguaggio comune [tra follia e ragione]; o piuttosto, non c’è più; la costituzione della follia come malattia mentale, alla fine del XVIII secolo, notifica la rottura del dialogo, pone la separazione come già acquisita, e sprofonda nell’oblio tutte quelle parole imperfette nelle quali si operava lo scambio della follia con la ragione. Il linguaggio della psichiatria, che è monologo della ragione sopra la follia, non ha potuto stabilirsi se non sopra questo silenzio. Non ho voluto fare la storia di questo linguaggio, piuttosto l’archeologia di questo silenzio».

Le bestie stanno zitte?

Uscito nel 1998, il libro in cui la pensatrice mette in opera l’archeologia del silenzio animale ha un titolo molto significativo, si chiama Le silence des bêtes, “Il silenzio delle bestie” (qui un suo intervento sul tema per France Culture). E in effetti nella galleria degli specchi che hanno proiettato di volta in volta l’immagine “autentica” dell’uomo, quello rappresentato dalla parola occupa senz’altro un posto privilegiato. L’uomo è tante cose, ma prima e più di tutto è l’animale che parla, è il vivente “in cammino verso il linguaggio”. E se questo è vero, gli altri animali non potranno che essere muti. E invece no. Anche gli animali parlano, eccome.

Modernità ferita a morte

Gli animali non solo parlano, ma hanno anche i dialetti. Sulla costa di San Francisco, per dire, distanti non più di cinquanta miglia l’uno dall’altro, a Marin, a Berkeley e a Sunset Beach, vivono tre comunità di passeri corona bianca che parlano tre differenti dialetti. Lo misero in luce già negli anni Sessanta Peter Marler e Miwako Tamura in una serie di ricerche pioneristiche per la zoosemiotica e catastrofiche per l’universo mentale dell’uomo del Novecento. Nati nel post-strutturalismo e nel pieno dissolvimento delle grandi narrazioni che hanno strutturato la modernità (chi si azzarderebbe oggi a pensare che natura o storia abbiano uno scopo?), sarebbe tuttavia fuorviante credere che l’antropocentrismo sia morto il 24 novembre del 1859, data di pubblicazione dell’Origine delle Specie. E nemmeno l’Origine dell’Uomo (1871) e, soprattutto, L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali (1872), hanno sferrato colpi mortali. Darwin, diciamo così, apre una breccia e ferisce a morte, ma l’elaborazione del delitto richiede tempo.

Heidegger a capo della resistenza

Nel 1930, per esempio, nei Concetti fondamentali della metafisica, Martin Heidegger cristallizza quella che sarà ancora per molti decenni la cornice teorica della riflessione sul tema con parole divenute presto un mantra nelle aule della facoltà di filosofia di mezzo mondo: «La pietra è senza mondo; l’animale è povero di mondo; l’uomo è formatore di mondo». Il potere di fabbricare mondi, di dar vita alla storia, spiega Heidegger, nasce dalla parola e dal linguaggio. Non solo l’essenza dell’uomo è nel linguaggio ma lo è in modo tale che il linguaggio non è una “cosa” che l’uomo possa padroneggiare ma come una realtà verso cui l’uomo è in cammino e da cui lui stesso è posseduto. Heidegger è un genio e nell’inventarsi il primato del Linguaggio (un altro nome per dire l’Essere) rinnova il primato dell’uomo. Essere privati della parola significa rimanere ancorati all’ambiente, agli automatismi dell’azione e della reazione, alla meccanicità dello stimolo e della risposta, significa cioè rimanere avvinghiati a una catena che non contempla alcun margine di libertà. Il dubbio insinuato da Darwin sulla fondatezza di queste gerarchie non è un suo problema, Heidegger esiste e con lui buona parte della cultura filosofica del XX secolo.

Scienze e altre disillusioni

L’etologia intanto avanza, e dagli anni Sessanta ai giorni nostri una crescente messe di articoli, ricerche e discipline non ha fatto altro che contribuire a disinventare la centralità dell’uomo, mettendo in luce come proprio la qualità distintiva per eccellenza, la parola, non fosse poi così distintiva. Si potrebbe pensare che la scienza abbia ridato la parola ai muti ma forse, più correttamente, si dovrebbe dire che la scienza ha trovato il modo di donare l’udito ai sordi. Una bella sintesi delle ricerche condotte dalle scienze della comunicazione animale vengono descritte con puntualità e leggerezza da Francesca Boninconti in Senti chi parla. Cosa ci dicono gli animali (Codice edizioni), un libro che ha il merito di parlare dei linguaggi degli animali senza cadere nella trappola dell’antropomorfismo.

Il dialetto degli animali

Molti uccelli, fa notare la naturalista, imparano, copiano e tramandano di generazione in generazione il canto, praticamente inalterato, dando vita a una vera e propria tradizione canora. Adottano una strategia ispirata al cosiddetto “pregiudizio conformista”, fino a poco tempo fa considerato prerogativa degli umani. «I dialetti, probabilmente, si sono sviluppati per superare problemi di interferenza acustica, barriere ecologiche differenti, tipi di fogliame diverso nei boschi o il rumore delle città. Ancora non se ne sa molto, ma di sicuro diverse popolazioni di una stessa specie hanno sviluppato una “sottocultura” canora differente. E proprio come nelle lingue umane, l’esperienza sociale un fattore che incide fortemente nell’elaborazione del canto».

Assai curioso e per molti versi stupefacente è il caso delle api, che parlano danzando. All’aumentare della distanza tra la risorsa alimentare e l’alveare, la cosiddetta danza circolare si trasforma in una danza di transizione, e quando la distanza è ancora maggiore diventa una vera danza a otto. Per cui, per esempio, nel caso dell’Apis mellifera ligustica entro i 20 metri si ha una danza circolare, oltre si ha una danza di transizione, e quando si superano i 40 metri di distanza la bottinatrice esegue la danza a otto. «E se ve lo state chiedendo, la distanza che determina il passaggio da un tipo di comunicazione varia da una specie all’altra, mentre da sottospecie a sottospecie ci sono piccole differenze nella fase oscillatoria o nella curva con cui viene descritto l’8». Anche le api hanno i dialetti.

Il mondo è complesso? Meno arroganza, please

Se gli animali parlano, gli animali sono dunque come l’essere umano? No. Ma anche su questo punto la complessità condensata nelle parole di Darwin secondo cui la differenza è “di grado e non di genere” meriterebbe altre riflessioni. Non si tratta di tracciare confini più aderenti alla realtà o di cancellare l’idea stessa di una differenza. «Dobbiamo essere capaci - osserva Elisabeth de Fontenay - di decostruire l'arroganza del carattere dell'uomo senza offendere l'umanità». Ecco un aspetto importante. Il gioco stesso di erigere identità su paradigmi oppositivi manifesta in fondo una debolezza non più sostenibile al cospetto di un mondo che non smette di palesare una complessità crescente. Il fatto che le scienze ci rendano il mondo incomprensibile, come dice Benjamin Labatut, non è una buona ragione per lasciarsi cullare nel mito. Se le cose si complicano, il meglio che si possa cominciare a fare è evitare di impettirsi sperando di nascondere il disappunto.

Perché la questione animale parla di noi

La questione animale non è la questione animalista, o almeno non è solo questo. La questione animale non riguarda solo l’etica della relazione tra specie, riguarda prima ancora la capacità di una cultura di saper rintracciare identità senza far leva su criteri oppositivi. La questione animale ha a che fare con la capacità di una cultura di pensare la complessità. Tornano in aiuto in tal senso le riflessioni di Jacques Derrida. Derrida ha dedicato alla questione dei confini che intercorrono tra l’uomo e l’animale gli ultimi anni della sua ricerca. Ne L’animale che dunque sono, uscito postumo nel 2006, Derrida invita a fare attenzione alla stessa parola “animale” (su YouTube è possibile trovare un breve passaggio di Derrida sul tema). “L’ Animale”, dice, è una parola “inquietante”. «È inquietante l’uso al singolare di una nozione così generale come “L’ Animale”, come se tutti i viventi non umani potessero essere raggruppati nel senso comune di questo “luogo comune”. […] In questo concetto tuttofare sarebbero chiusi, […] tutti i viventi che l’uomo non riconosce come suoi simili, prossimi o fratelli». E aggiunge: «Ogni volta che si dice “L’ Animale”, ogni volta che il filosofo, o chiunque altro, dice al singolare e senza aggiungere altro “L’ Animale”, pretendendo così di indicare ogni essere vivente tranne l'uomo, ebbene, ogni volta, il soggetto di tale frase, quel “si”, quell’ “io” dice una stupidaggine». Prima di ingaggiare il nuovo gioco delle differenze, ci si fermi a riflettere: meglio stare zitti che parlare e togliere ogni dubbio.

 


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