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Sostenibilità ambientale e gestionale degli ospedali: less is more

Il consumo energetico degli ospedali è circa tre volte più elevato di quello degli edifici residenziali: migliorarne la sostenibilità significa ridurre il numero di strutture e concentrare le attività più energivore. Ma per un sistema sanitario resiliente, la sostenibilità ambientale dev'essere integrata con l'efficienza gestionale. In Italia, ci sono spazi importanti di razionalizzazione delle reti ospedaliere, in funzione di una loro maggiore sostenibilità sia gestionale che ambientale.

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Quello della sostenibilità ambientale della sanità è un tema da anni al centro della attenzione degli addetti ai lavori e dei decisori. In Italia molto più dei primi che dei secondi. Già un paio di anni fa comparve qui su Scienza in rete un intervento di Francesco Baroni-Adesi sulla decarbonizzazione del sistema sanitario, definita «impresa possibile».

Dentro il generale tema della sostenibilità ambientale della sanità, particolarmente rilevante è quello della sostenibilità degli ospedali, che sono notoriamente energivori. Nel Rapporto Annuale sull’Efficienza Energetica dell’ENEA del 2019, il consumo specifico di energia in ospedale è stato stimato superiore di circa tre volte rispetto a quello per uso abitativo. Sempre nello stesso rapporto, nel sottolineare come i consumi varino negli ospedali in funzione dei servizi offerti, si fa presente che un fattore comune è che, in tutte le strutture, l’energia viene utilizzata sotto forma di energia elettrica, termica e frigorifera per soddisfare la necessità di climatizzare gli ambienti e assicurare il ricambio dell’aria in aree speciali come le sale operatorie o i reparti di terapia intensiva. Un importante contributo ai consumi lo forniscono anche le apparecchiature diagnostiche in cui la richiesta di energia è legata sia alla loro alimentazione che alla dissipazione termica loro collegata (particolarmente rilevante in quelle dedicate alla diagnostica per immagini).

Ma gli ospedali sono anche e soprattutto grandi consumatori di risorse umane ed economiche in generale, proprio per gli stessi motivi: continuità della attività nelle 24 ore, presenza di aree ad alta intensità assistenziale e presenza di tecnologie avanzate.

L’ospedale che non c’è è quello a miglior sostenibilità

Date queste premesse, è rilevante ragionare su come integrare l’analisi della sostenibilità ambientale degli ospedali con quella della loro sostenibilità gestionale. Dentro questo termine facciamo rientrare sia la sostenibilità economica legata ai costi rispetto al finanziamento complessivo della sanità pubblica, sia quella organizzativa legata al personale. In tempi di crisi del Servizio sanitario nazionale (determinata tra l’altro dal suo sottofinanziamento e dalla carenza di personale nelle strutture pubbliche, fenomeni che sono ben evidenziati nell’appello pubblicato qualche tempo fa su Scienza in rete) le due dimensioni della sostenibilità ambientale e della sostenibilità gestionale vanno presidiate contemporaneamente e tutte le azioni che migliorano l’una e l’altra dovrebbero essere perseguite in via prioritaria.

Una di queste azioni è tanto concettualmente banale quanto trascurata nei fatti ed è la riduzione nel numero degli ospedali e la concentrazione delle loro attività maggiormente energivore in tutti sensi. Questa azione non solo potrebbe garantire delle economie di scala in termini gestionali, ma anche concentrare gli interventi di miglioramento di sostenibilità ambientale in un numero ridotto di strutture. Facciamo degli esempi: la riduzione delle strutture ospedaliere in generale e di quelle che ospitano dipartimenti di emergenza di primo o secondo livello in particolare, e quindi con una organizzazione complessa ed energivora con copertura nelle 24 ore delle aree di degenza e dei servizi, porterebbe certamente a significative economie in termini di personale e verosimilmente a un minor consumo di energia e a un minor impatto ambientale. Negli stessi ospedali, non a caso, c’è un sottoutilizzo delle sale operatorie e delle piattaforme tecnologiche, oltre che ridotti volumi di attività rispetto agli standard di volume “auspicabili”.

A buona programmazione, minor impatto

In tema di sostenibilità ambientale degli ospedali, i possibili articoli, documenti e siti di riferimento sono moltissimi, ma quasi mai si cita la programmazione delle strutture ospedaliere come possibile misura per la migliore gestione della loro sostenibilità ambientale. Questo vale per esempio per il peraltro ottimo The Global Green and Healthy Hospitals Network, un network che ha 1.900 membri in oltre 80 paesi. In Italia, a oggi (dato aggiornato al 2 maggio 2024), hanno aderito otto strutture: l’ASST Melegnano e Martesana, l’Istituto Auxologico Italiano, l’ASST Bergamo Est, l’Ospedale di Alessandria, il Policlinico Sant’Orsola di Bologna, l’Azienda USL della Romagna, l’Azienda Ospedaliero-Universitaria Meyer di Firenze e l’Azienda Ospedaliero Universitaria di Sassari.

Filosofia, organizzazione e metodo di lavoro del network sono ben descritti qui, dove troviamo anche una descrizione dell'Agenda del network che prevede dieci aree di obiettivi, ognuna delle quali comprende decine di azioni da intraprendere per garantire una maggiore sostenibilità e una maggiore salute ambientale in modo da migliorare la salute dei pazienti, della comunità e del pianeta. Ma del ruolo di una diversa programmazione delle strutture ospedaliere non si fa cenno, mentre vengono per esempio presi in considerazione la leadership (per dare priorità alla salute ambientale), i rifiuti (in modo da ridurre, trattare ed eliminare in modo sicuro i rifiuti sanitari), l’energia (in modo da arrivare a un uso efficiente di energia pulita e da favorire l’uso di energia rinnovabile) e ovviamente gli edifici (in modo da favorire la progettazione di ospedali green e “salutari”).

C’è spazio per razionalizzare?

A questo punto diventa logico chiedersi se nel Servizio sanitario nazionale del nostro Paese ci siano spazi importanti di razionalizzazione delle reti ospedaliere, in funzione di una loro maggiore sostenibilità sia gestionale che ambientale. Non solo ci sono, ma sono molto consistenti. Il racconto favolistico del taglio di ospedali e posti letto, di cui ho già scritto su Scienza in rete, tiene in una sorta di incomprensibile (per me) cono d’ombra la dispersione irrazionale e inefficiente di troppe strutture ospedaliere nella stragrande maggioranza delle regioni italiane. Non solo è ancora elevato il numero di piccoli ospedali pubblici che, in un capitolo del Rapporto OASI 2020 dell'Università Bocconi, sono censiti nel 2017 pari a 210 su un totale di 630 ospedali per acuti con una funzione di Pronto Soccorso, ma sono ancora numerose le strutture ospedaliere pubbliche sede di un Dipartimento di emergenza e accettazione (DEA) molto vicine tra loro con una moltiplicazione spesso ingiustificata di funzioni coperte nelle 24 ore ad alto assorbimento di risorse di tutti i tipi.

Ciò che è grave è che la spinta a una razionalizzazione di queste reti ospedaliere regionali già debole si è ulteriormente affievolita quando a governarle sono arrivate le sanità populiste, come avvenuto nelle Marche (per saperne un po’ di più leggere qui). A titolo di esempio, in questa regione la nuova giunta ha rivisto i progetti di integrazione strutturale in corso tra coppie di ospedali con DEA di primo livello vicinissimi tra loro e ha previsto la riapertura “mascherata” di piccoli ospedali già riconvertiti.

Ancor più grave è il fatto che queste reti sono interessate da programmi di edilizia ospedaliera all’insegna della bassa sostenibilità sia gestionale che ambientale, programmi che proiettano i loro effetti negativi sul lungo periodo (su questo leggere qui). Infatti, se una regione costruisce o adegua più ospedali di quelli sostenibili, dati i tempi dell'edilizia sanitaria (in Italia serve un decennio per costruire un nuovo ospedale pubblico), quella rete ospedaliera non si correggerà se non troppo tardi.

In realtà lo strumento per governare la programmazione più razionale delle reti ospedaliere ci sarebbe (il Decreto Ministeriale 70 del 2015), ma nessuno ne verifica la applicazione sistematica e gli effetti del mancato controllo si vedono oggi e si vedranno ancor di più domani.

Quanto alla domanda inevitabile «Ma così non si favorisce il privato?», la risposta è che il privato viene favorito dalla ridondanza delle strutture ospedaliere pubbliche, che le condanna all'inefficienza e al sottoutilizzo delle potenzialità operative, e non dalla loro integrazione e caratterizzazione. Fenomeno alla base anche della fuga nel privato di molti professionisti, specie di area chirurgica. Insomma, messaggi da portare a casa: sostenibilità ambientale e sostenibilità gestionale degli ospedali vanno affrontate contemporaneamente, la sanità per essere sostenibile deve essere sobria e, quanto agli ospedali, less is more.

 


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