fbpx Spazio: radiazioni più pericolose del previsto | Scienza in rete

Spazio: radiazioni più pericolose del previsto

Primary tabs

Lavori di costruzione sulla Stazione Spaziale Internazionale. Credit: NASA.

Read time: 11 mins

La fantascienza ci ha ormai abituati a salire a bordo di potenti astronavi in grado di trasportarci dovunque nello spazio, inducendoci inevitabilmente a sottovalutare quanto possa essere letale questo ambiente. Oltre alle eccezionali sfide tecnologiche che si dovranno affrontare e vincere, infatti, lo scenario di un viaggio spaziale, specialmente una missione di lunga durata, porta inevitabilmente con sé terribili rischi. E non si sta parlando delle ineliminabili incertezze dovute al guasto di un apparato o a qualche sfortunato e casuale evento, ma unicamente dell’ostilità dello spazio in sé. Mentre il gelo spaziale, l’assenza di gravità e la mancanza di ossigeno sono noti a tutti, uno dei rischi forse meno appariscenti è la presenza di radiazioni. Un’insidia subdola, ma incredibilmente letale. E secondo una serie di studi molto recenti, ancora più letale di quanto si pensasse.

Astronauti e radiazioni

È ben noto che lo spazio è permeato di radiazioni: la luce stessa è radiazione. Parlando del rischio radiazioni, però, non si deve pensare solamente alla radiazione elettromagnetica, bensì a una più ampia famiglia di particelle ad alta energia che possono entrare in contatto con il corpo umano. Solitamente ci si riferisce ad esse con il termine di radiazioni ionizzanti, sottolineando come l’energia di tali particelle sia sufficiente a ionizzare la materia che attraversano, cioè a generare e mettere in azione un gran numero di particelle elettricamente cariche.

Oltre a una componente di origine terrestre, queste radiazioni hanno anche una sorgente spaziale. Il nostro pianeta, infatti, è costantemente esposto a un fondo di radiazioni di origine galattica ed extragalattica - prodotto dalle stelle e da eventi energetici quali, per esempio, le esplosioni di supernovae e le emissioni dei buchi neri che alimentano i quasar - al quale si sovrappongono le occasionali bordate di energia prodotte da alcuni fenomeni solari. Questi raggi cosmici sono costituiti per l’86% da protoni, per il 12% da particelle alfa, cioè nuclei di elio, e per la parte rimanente da nuclei più pesanti e, generalmente, vengono disinnescati interagendo con l’atmosfera e con il campo magnetico terrestre.

Per nostra grande fortuna, infatti, il campo magnetico e il guscio dell’atmosfera si comportano come eccellenti scudi e riescono egregiamente a proteggere dall’azione dei raggi cosmici le forme di vita che popolano il pianeta Terra. Man mano ci si allontana dalla superficie, però, questo scudo diventa sempre meno efficace e non solo ci si ritrova inevitabilmente esposti a una radiazione più intensa, ma si deve anche fare i conti con le particelle secondarie, altrettanto pericolose, generate dall’interazione dei raggi cosmici con ciò che incontrano. Un viaggiatore spaziale, insomma, non solo non può contare sul guscio protettivo del campo magnetico e dell’atmosfera, ma è anche soggetto alla radiazione degli atomi pesanti che vengono liberati quando la radiazione primaria colpisce gli atomi della nave spaziale o gli stessi atomi del suo corpo. L’entità di tale esposizione dipende da alcuni fattori strettamente legati alla missione, quali per esempio la sua durata, la quota di volo e il tipo stesso di orbita, e da altri decisamente meno controllabili, quali le bizze del Sole, l’entità della radiazione cosmica e, non meno importante, la differente sensibilità di ciascun astronauta agli effetti di tali radiazioni.

Valutare il rischio radiazione

Per valutare la pericolosità dell’esposizione alla radiazione è necessario considerare due parametri. Il primo è la dose assorbita, cioè la quantità di energia depositata dalle radiazioni per unità di massa; negli USA questa grandezza viene misurata in rad (radiation absorbed dose), mentre nel Sistema Internazionale viene misurata in gray (Gy). Il secondo parametro è la dose equivalente e considera il danno biologico che i differenti tipi di radiazione sono in grado di infliggere. Tale parametro si misura solitamente in millisieverts (mSv) - unità di misura che ha rimpiazzato il tradizionale rem (1 Sv = 100 rem) - e prende in considerazione non solo la quantità di radiazioni assorbite da una persona, ma anche quanto dannoso possa essere quel particolare tipo di radiazione.

Qualche dato numerico può aiutarci a inquadrare la situazione. Se consideriamo il fondo di radiazione presente naturalmente (con differenti valori) in ogni angolo del pianeta, mediamente noi italiani siamo annualmente esposti a 3,3 mSv, più o meno la dose di irraggiamento che potremmo accumulare con 11 radiografie al petto (la media mondiale è di 2,4 mSv annui). Certamente ben più pesante la situazione sperimentata da chi, abbandonando la superficie terrestre, non può più disporre al massimo livello del guscio che protegge il nostro pianeta dalla radiazione. Per un semplice confronto, riassumiamo in una tabella i dati raccolti nel corso di alcune missioni spaziali:

Mission type Radiation dose mSv
Space Shuttle 41C (8-day orbiting the Earth at 460 km) 5,59
Skylab (87-day orbiting the Earth at 473 km) 11,4
Skylab 4 (87-day orbiting the Earth at 473 km) 178
ISS (up to 6 orbiting Earth at 353 km) 160
Estimated Mars (3 years) 1.200

NASA Education - Space faring: The radiation challenge - Mod. 1, p. 8

I dati sono piuttosto chiari. Nel corso dei nove giorni della missione lunare Apollo 14 gli astronauti sono stati esposti a una dose equivalente di radiazioni pari a quella che un italiano accumulerebbe in circa tre anni e mezzo. Ben più pesante la situazione registrata nel corso della missione Skylab 4: in soli tre mesi gli occupanti della stazione spaziale hanno accumulato una dose di radiazioni simile a quella che, per effetto del fondo naturale, un italiano accumulerebbe in quasi 54 anni. È pur vero che il confronto tra i dati della missione Skylab 4 e quelli relativi alla ISS (riferiti a condizioni di minimo solare) sottolinea gli indubbi passi in avanti compiuti nella schermatura delle strutture abitative utilizzate dagli astronauti in orbita, ma questo non deve mettere in secondo piano che gli occupanti della Stazione spaziale possano in soli sei mesi accumulare una dose di radiazioni cinquanta volte superiore a quella del fondo naturale.

È evidente, infine, come l’aumento dei tempi di esposizione renda ancora più critica la situazione. Un aspetto assolutamente non di poco conto, visto che rischia di trasformare una missione di tre anni per Marte in una sorta di missione suicida.

I protocolli della NASA

Per quanto atipici, gli astronauti sono lavoratori a tutti gli effetti e questo, a partire dagli anni Ottanta, ha comportato anche per la NASA la stesura di un piano normativo in linea con le regole dettate dall’OSHA (Occupational Safety and Health Administration), l’ente deputato alla sicurezza sul lavoro. Poiché i limiti fissati per le normali situazioni lavorative risultavano di fatto inapplicabili al caso degli astronauti, venne consentito alla NASA di darsi regole autonome. La stesura di queste regole è demandata all’OCHMO (Office of the Chief Health and Medical Officer), che costantemente aggiorna la sua normativa adeguandola alle nuove ricerche e alle valutazioni di varie agenzie scientifiche nazionali.

I protocolli NASA fissano un limite massimo per l’esposizione a radiazioni ionizzanti relativo all’intera carriera di un astronauta e stabiliscono che la probabilità di contrarre un cancro mortale a seguito di tale esposizione debba essere inferiore al 3% (tecnicamente si parla di REID, risk exposure induced death). Davvero complicato tradurre questo limite in quantità di radiazione equivalenti valide in assoluto: nella valutazione intervengono molti fattori, quali per esempio il sesso e l’età dell’astronauta, la sensibilità del suo organismo alle radiazioni e, non ultimo, il suo stesso stile di vita. Per una panoramica di tale complessità si può consultare l’analisi di Francis Cucinotta, Khiet To ed Eliedonna Cacao pubblicata a gennaio su Life Sciences in Space Research in cui si propone una revisione al modello utilizzato dalla NASA per la valutazione del rischio cancro, il cosiddetto NSCR (NASA Space Cancer Risk).

Nella seguente tabella possiamo leggere i limiti massimi di radiazione per l’intera carriera stabiliti dalla NASA a seconda dell’età degli astronauti e del loro genere:

  Sv
Età (in anni)   Donne    Uomini  
25 1,00 1,00
35 1,75 2,50
45 2,50 3,25
55 3,00 4,00

Fonte: NASA Education - Space faring: The radiation challenge - Mod. 1, p. 7

L’Agenzia spaziale statunitense è comunque ben consapevole che gli astronauti che saranno inviati in missioni spaziali più profonde saranno esposti a livelli di rischio ben superiori di quelli sperimentati nelle cosiddette missioni in orbita bassa. Secondo gli attuali parametri, già ripetute missioni sulla Stazione spaziale per una durata complessiva superiore ai 24 mesi per un astronauta maschio e ai 18 mesi per un astronauta di sesso femminile vanno al di là di quel limite del 3%. Purtroppo, però, riuscire a contenere e rendere accettabile il rischio da radiazioni per gli astronauti è un obiettivo ancora piuttosto lontano.

Eccessivo ottimismo

A buttare acqua sul fuoco è prima di tutti la stessa Agenzia spaziale americana. Sono senza dubbio molto significative, infatti, alcune considerazioni contenute nel rapporto NASA’s Efforts to Manage Health and Human Performance Risks for Space Exploration diffuso dall’Office of Inspector General a fine ottobre 2015. Ne riportiamo alcuni passi: «Sebbene la NASA continui a migliorare i suoi processi per identificare e gestire i rischi per la salute e per le prestazioni associati al volo spaziale umano, riteniamo che, considerato lo stato attuale delle conoscenze, il programma di mitigazione dei rischi che l'Agenzia si è dato sia ottimistico e che la NASA non riuscirà a sviluppare contromisure per alcuni rischi della navigazione nello spazio profondo prima del 2030, come minimo. Tra i principali fattori che limitano un più tempestivo sviluppo delle contromisure vi è l'incertezza che riguarda i requisiti di massa, volume e peso dei veicoli spaziali e degli habitat destinati allo spazio profondo. Inoltre, anche se la NASA acquisisse ulteriori conoscenze sui veicoli, gli habitat e gli effetti che le radiazioni e altre condizioni dello spazio esercitano sul corpo umano, l'Agenzia potrebbe anche non essere in grado di sviluppare contromisure in grado di abbassare il rischio per i viaggiatori nello spazio profondo a un livello paragonabile a quello che la NASA applica alle missioni in orbita terrestre bassa. Di conseguenza, almeno gli astronauti scelti per fare da primi esploratori nello spazio profondo dovrebbero accettare un livello più elevato di rischio rispetto a quelli che partecipano alle missioni verso la Stazione Spaziale Internazionale. Dobbiamo inoltre constatare che la NASA non è in grado di definire con precisione quali possano essere i reali costi di sviluppo delle contromisure ai rischi identificati.»

Al di là della pericolosità per la salute degli astronauti, è comunque evidente che la scelta di quali possano essere i limiti accettabili per le missioni nello spazio profondo porti con sé importanti e inderogabili considerazioni etiche.

Rischi imprevisti

I devastanti effetti delle radiazioni ionizzanti sul corpo umano e la loro responsabilità nella carcinogenesi sono noti da tempo. Negli ultimi mesi, però, sono emersi ulteriori elementi che hanno complicato ancor di più la già intricata valutazione del pericolo che incombe sugli astronauti per una prolungata esposizione alla radiazione dello spazio. Elementi che ci obbligano a considerare le missioni nello spazio profondo molto più pericolose di quanto si pensasse finora. Qui ci limitiamo a segnalare un paio di ricerche particolarmente significative.

Il primo studio, pubblicato su Nature Scientific Reports lo scorso ottobre, riporta le conclusioni alle quali sono giunti Vipan Parihar (Department of Radiation Oncology - University of California, Irvine) e collaboratori dopo aver analizzato le conseguenze dell’irraggiamento di particelle pesanti (atomi di ossigeno e titanio completamente ionizzati) su cavie. Sei mesi dopo l’esposizione, non solo il cervello delle cavie mostrava ancora significativi livelli di infiammazione e danni neuronali, ma si registrava anche una ridotta capacità delle cavie nel superare con successo i test comportamentali che servivano a valutarne capacità di apprendimento e memoria. A questo quadro già critico, il team ha anche aggiunto la scoperta che la radiazione aveva in qualche modo alterato il processo di soppressione della paura. Una situazione piuttosto grave, dato che un deficit in questo processo così cruciale per la nostra mente potrebbe indurre stati di ansia.

Dovendo affrontare una missione di lunga durata quale potrebbe essere quella verso Marte, insomma, gli astronauti potrebbero essere esposti al rischio che i loro collegamenti neuronali possano andare in tilt. Ed è piuttosto evidente come la presenza di disfunzioni cognitive accompagnata da stati ansiosi sia tutt’altro che desiderabile per gestire operazioni spaziali di routine e, ancor peggio, per affrontare situazioni di emergenza.

La seconda ricerca, pubblicata su Nature Scientific Reports a metà maggio da Francis Cucinotta ed Eliedonna Cacao (University of Nevada, Las Vegas), riguarda gli effetti indiretti delle radiazioni ionizzanti. Numerosi studi hanno ormai mostrato che l’insorgere delle mutazioni tumorali non avviene soltanto nelle cellule direttamente colpite dai nuclei ad alta energia della radiazione cosmica, ma anche nelle cellule circostanti. Si tratta dei cosiddetti non-targeted effect o NTE. Cucinotta li spiega in questo modo: «L'esposizione ai raggi cosmici galattici può devastare il nucleo di una cellula e causare mutazioni che possono provocare tumori. Abbiamo scoperto che le cellule danneggiate trasmettono segnali alle cellule circostanti non direttamente interessate dalla radiazione e modificano i microambienti dei tessuti. Questi segnali sembrano indurre le cellule sane a mutare, causando così tumori aggiuntivi.»

Nella loro analisi i due ricercatori sottolineano che l’applicazione di un modello che preveda effetti non-targeted nella valutazione del rischio-tumore per un astronauta porta a valori doppi rispetto ai modelli che considerano soltanto le cellule direttamente colpite dalla radiazione. Sul versante già profondamente problematico del pericolo radiazioni, insomma, andare su Marte diventa ancora più rischioso, con probabilità di contrarre il cancro addirittura doppia di quanto si pensava finora.

Quale conclusione, prendo a prestito le considerazioni che Vittorio Cotronei, medico e ricercatore tecnologo dell’ASI (Agenzia Spaziale Italiana), ha espresso in una nota in cui veniva presentata una ricerca sugli effetti cancerogeni delle radiazioni: «I tre elementi chiave e limitanti di una missione spaziale sono il sostentamento, la microgravità e le radiazioni. Queste ultime costituiscono l’incognita maggiore. E se realmente vogliamo andare su Marte occorre non solo approfondire e intensificare lo studio dell’effetto dell’esposizione alle radiazioni cosmiche, ma anche realizzare adeguate contromisure, siano esse fisiche o chimiche, che ne limitino le conseguenze.»

Per approfondire


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Perché ridiamo: capire la risata tra neuroscienze ed etologia

leone marino che si rotola

La risata ha origini antiche e un ruolo complesso, che il neuroscienziato Fausto Caruana e l’etologa Elisabetta Palagi esplorano, tra studi ed esperimenti, nel loro saggio Perché ridiamo. Alle origini del cervello sociale. Per formulare una teoria che, facendo chiarezza sugli errori di partenza dei tentativi passati di spiegare il riso, lo vede al centro della socialità, nostra e di altre specie

Ridere è un comportamento che mettiamo in atto ogni giorno, siano risate “di pancia” o sorrisi più o meno lievi. È anche un comportamento che ne ha attirato, di interesse: da parte di psicologi, linguisti, filosofi, antropologi, tutti a interrogarsi sul ruolo e sulle origini della risata. Ma, avvertono il neuroscienziato Fausto Caruana e l’etologa Elisabetta Palagi fin dalle prime pagine del loro libro, Perché ridiamo. Alle origini del cervello sociale (il Mulino, 2024):