Il ministro della salute Roberto Speranza.
Tra oltre 130 possibili vaccini anti Covid-19 su cui si sta lavorando, una quindicina dei quali già in fase di studio sugli esseri umani, il ministro della salute Roberto Speranza ha annunciato la sua scelta. Insieme a Francia, Germania e Olanda, l’Italia ha puntato su quello messo a punto dal Jenner Institute di Oxford e di cui sta portando avanti la sperimentazione Astrazeneca, con sostanziosi finanziamenti anche da USA e Regno Unito. Non era una decisione ovvia, né facile: aspettare, mentre gli altri Paesi prenotano milioni di dosi, significa rischiare di restare scoperti e più esposti a nuove ondate di infezione mentre altrove la vita quotidiana, l’economia, il turismo, possono riprendere con maggiore serenità; optare oggi per questo vaccino senza attendere gli altri potrebbe significare perdere l’occasione di usufruire di altri prodotti che potrebbero anche essere migliori, in termini di sicurezza o di efficacia.
Un ruolo nella decisione deve aver avuto senz’altro il fatto che alla realizzazione del vaccino di Oxford ha contribuito un’azienda italiana, la IRBM di Pomezia, il cui presidente, Piero Di Lorenzo, si è esposto molto in televisione negli ultimi mesi. Un altro elemento giudicato fondamentale potrebbe essere stato il fattore tempo. Il vaccino prescelto infatti è quello che si dichiara più avanti, con la promessa che i primi due milioni di dosi, si dice, possano essere disponibili addirittura per l’autunno. L’altro vaccino in fase più avanzata, quello a RNA prodotto da Moderna, negli Stati Uniti, sembra non possa arrivare prima del 2021.
Entrambi sono prodotti con tecniche innovative. Quello scelto dal governo italiano si basa su un vettore virale ricombinante, un adenovirus che provoca raffreddore negli scimpanzé, in sigla ChAdOx1. Il virus è modificato geneticamente perché non sia in grado di replicarsi, e quindi infettare l’organismo, ma produca in più la proteina spike di SARS-Cov-2, contro cui stimola il sistema immunitario a produrre una risposta. A tutt'oggi un solo altro vaccino per uso umano che sfrutta un vettore virale ha superato i controlli delle autorità regolatorie, e lo ha fatto, come in questa occasione, in condizioni di emergenza: è quello creato da MSD con il virus della stomatite vescicolare contro ebola, approvato dall’Agenzia europea dei medicinali (EMA) a novembre 2019. Quello per covid-19 parte invece da una piattaforma che era stata messa a punto per il virus della MERS, l'altra gravissima malattia da coronavirus che, con buona pace di qualche "esperto" che l'ha definita scomparsa, continua a mietere vittime negli Emirati Arabi e in Arabia Saudita.
Con l'obiettivo di contrastare quest’altra minaccia, il vaccino aveva già superato la prima fase, di sicurezza, per cui è parsa una buona idea partire da lì, cambiando solo il "codice a barre", per far riconoscere al sistema immunitario il nuovo coronavirus, invece del cugino responsabile della sindrome mediorientale.
Sicurezza ed efficacia ancora sotto esame
Questa scelta ha permesso di guadagnare tempo sulla prima fase di sperimentazione, che deve procedere con molta cautela per escludere possibili rischi negli esseri umani, dato che il prodotto, per quanto leggermente diverso, era già stato utilizzato negli studi contro la MERS. Da qui a definire "assolutamente sicuro" un vaccino prodotto con una tecnologia così innovativa, tuttavia, ne passa. Anche se si parte da un dato positivo, la prudenza è comunque d'obbligo. La segnalazione di effetti indesiderati infatti non è riservata alla fase 1, quella condotta su poche decine di soggetti per accertare reazioni gravi, comuni e immediate. In ogni fase successiva della sperimentazione, oltre all’efficacia, si cercano conferme della sicurezza. A mano a mano che si estende il numero di partecipanti ai trial possono emergere conseguenze meno frequenti o caratterizzate da maggiore latenza. Anche dopo l’immissione in commercio questa sorveglianza continua, e permette di individuare casi ancora più rari, nell’ordine di uno su decine o centinaia di migliaia di soggetti, che non sarebbe possibile accertare nel corso degli studi precedenti l’autorizzazione.
La prospettiva di somministrare il prodotto a centinaia di milioni di persone richiede ancora più cautela. La richiederebbe un vaccino prodotto con tecniche tradizionali, tanto più questo, completamente nuovo. Se si vuole guadagnare tempo lo si può fare accelerando le operazioni burocratiche, non i controlli: le conseguenze di una brutta sorpresa andrebbero infatti ben oltre i danni, anche se fossero lievi, a eventuali persone colpite, ma rischiano di riflettersi, come già accaduto in passato, sulla fiducia nei confronti di tutte le altre vaccinazioni, con un effetto a catena che potrebbe provocare alla lunga un impatto ancora peggiore.
Pur nella consapevolezza dell’importanza di avere il vaccino in tempi brevi, è bene quindi ricordare che la situazione non basta a giustificare scorciatoie pericolose. Le autorità regolatorie devono essere incentivate anche in questo caso, come per tutti gli altri farmaci e vaccini immessi in commercio, a garantire la sicurezza sulla base di dati solidi. Dati che per ora non sono disponibili e non consentono quindi di affermare che il vaccino “è assolutamente sicuro”. È probabile, lo speriamo, ma occorre tempo per dirlo.
L’unico studio disponibile, pubblicato in preprint da un gruppo di ricercatori del Jenner Institute di Oxford e dei National Institutes of Health statunitensi, e quindi non ancora sottoposto a peer-review, si riferisce alla somministrazione del nuovo vaccino su sei macachi. Negli animali non ha provocato effetti indesiderati gravi, e, soprattutto, non ha indotto l’effetto più temuto, quell’”antibody-dependent enhancement”, in sigla ADE, che può peggiorare l’impatto dell’infezione in caso di vaccinazione poco efficace. Ma i dati sugli esseri umani, per ora, non sono pubblicati.
Anche l'efficacia è ancora tutta da dimostrare. Nel primo studio sui macachi la metà degli animali vaccinati non ha manifestato sintomi respiratori dopo l’inoculo del virus, ma, sebbene tutti avessero sviluppato anticorpi neutralizzanti, tutti avevano anche tamponi nasali positivi, con una carica virale uguale tra animali vaccinati e controlli.
Il campione è talmente limitato da non poter essere in alcun modo traslato a quel che si verificherà negli esseri umani, ma, se così fosse, avremmo un vaccino che riduce il rischio di polmonite nel 50% degli individui vaccinati senza però produrre alcuna immunità di gruppo. Per verificare che cosa accadrà davvero negli esseri umani occorrerà aspettare gli esiti degli studi in corso in Inghilterra e in Brasile, dove la circolazione del virus è ancora abbastanza intensa da poter mettere in evidenza differenze significative tra i soggetti vaccinati e non.
Prenotare qualcosa che non c’è
Alla luce di questi dati, ha fatto bene il governo a sottoscrivere questo accordo? È davvero difficile dirlo. È il classico dilemma dell’uovo e della gallina, accentuato da un’ulteriore grado di incertezza: meglio garantirsi un possibile uovo domani, che potrebbe anche non arrivare, o attendere una gallina che ugualmente potrebbe non arrivare, ma dopodomani? In ogni caso si rischia di commettere un grosso errore. Poniamo che la sperimentazione, come tutti speriamo, vada bene, e il vaccino di Oxford si dimostri davvero sicuro e con una buona efficacia. A quel punto, se l'Italia non avesse colto questa opportunità, e fosse rimasta indietro rispetto al resto di Europa, per di più con un vaccino che si avvale anche di una componente realizzata nel nostro Paese, le critiche per l'eccesso di prudenza del ministro si sprecherebbero. Viceversa, se il prodotto dovesse arenarsi nelle prossime fasi della sperimentazione, bisognerebbe conoscere i dettagli dell'accordo per sapere a che punto ciascun Paese potrebbe sganciarsi, e cercare altre alternative.
Non so se certe cose "si possono dire", ma conoscere i dettagli del contratto sarebbe utile a giudicare meglio la scelta.
Un aspetto rassicurante è che nella scommessa (perché di scommessa, ripeto, si tratta), l'Italia ha agito in maniera concorde con i maggiori Paesi europei, e già questa azione congiunta, dopo la mancanza di una risposta coordinata allo tsunami della pandemia, potrebbe essere considerata una conquista.
Il ruolo della comunicazione
Un punto su cui la comunicazione del Ministero dovrebbe però essere più chiara riguarda a chi, quando e con che modalità dovrebbero essere riservate le prime dosi. Si parla di operatori sanitari e forze dell’ordine, e in un secondo tempo di gruppi di persone a rischio. Ma non è ancora stato ben specificato se il vaccino sarà somministrato, come dovrebbe essere, solo una volta ottenuta l’autorizzazione da parte delle autorità regolatorie. In un post di aprile, sul sito del Ministero, si ipotizza che lo si farà con le modalità di un "uso compassionevole", definizione che riguarda prodotti non ancora approvati per un'indicazione, per cui non esiste un'alternativa, in condizioni gravi, offerti gratuitamente dall’azienda. Spero che sia un errore. Quando il vaccino sarà offerto ai gruppi per i quali sarà stata stabilita la priorità, ciò dovrebbe accadere solo dopo l'autorizzazione da parte di EMA e AIFA, oppure nell'ambito di studi di fase 3, con tutte le cautele che questi richiedono, primo fra tutti un adeguato consenso informato.
Il rischio è che proprio gli operatori sanitari, già tendenzialmente scettici nei confronti del vaccino influenzale, non aderiscano con l’entusiasmo atteso alla campagna di vaccinazione, qualora questa venisse proposta con un prodotto di cui non siano state adeguatamente accertate sicurezza ed efficacia o che comunque sia avvertito come approvato in maniera frettolosa, con l’inevitabile sfondo di interessi economici che girano intorno alla vicenda, per quanto l’azienda abbia dichiarato che fornirà i vaccini a prezzi di costo.
È prevedibile l’impatto che questa esitazione potrebbe avere sul resto della popolazione.
Tanto meno, per quanto sappiamo ora di sicurezza ed efficacia, e del futuro comportamento del virus, è pensabile anche solo invocare un obbligo. Per molti mesi, inoltre, se non per anni, non ci saranno dosi per tutti, per cui non si capisce il senso di ricorrere a questo argomento, di cui ben si conosce la capacità polarizzante, per inasprire gli animi.
Le modalità di comunicazione trionfalistiche con cui l'annuncio della scelta del vaccino è stato dato rischiano quindi di trasformare una scelta in qualche modo obbligata in un boomerang. Qualcuno ha già messo in luce l’impatto economico delle dichiarazioni del ministro sulla quotazione delle aziende in gioco. Altri sono pronti a sottolineare i limiti del prodotto su cui si è puntato.
La pandemia è un’ardua prova di comunicazione del rischio in condizioni di grandissima incertezza. Mostrare una sicurezza che non c’è per cercare di alimentare la fiducia dei cittadini è un azzardo ancora più sfacciato che scommettere, per necessità, su un vaccino che ancora non c’è. Vale sempre il vecchio motto della comunicazione del rischio: perdere la fiducia è un attimo, per ricostruirla ci vogliono anni.