Stephen Hawking at Gonville & Caius College, Cambridge. Credit: Lwp Kommunikáció / Flickr. Licenza: CC BY 2.0.
È giunta ieri la notizia della morte di Stephen Hawking, il fisico teorico inglese che ha occupato a Cambridge la medesima cattedra che fu di Isaac Newton. Esperto di relatività generale, Hawking era considerato uno dei maggiori studiosi della fisica dei buchi neri. Da tempo era impegnato nella ricerca di una teoria – una teoria del tutto – in grado di riconciliare la relatività generale e la meccanica quantistica. Era noto ai colleghi per quella che sarà chiamata la “radiazione di Hawking”, l’aver scoperto che i buchi neri non sono poi così neri, ma evaporano, grazie alle leggi della meccanica quantistica. E anche perché una delle punte di diamante della ricerca in quantum cosmology.
Era noto al grande pubblico anche per il fatto che da mezzo secolo era inchiodato su una carrozzina a rotelle, perché affetto da una grave malattia degenerativa: la sclerosi laterale amiotrofica (SLA). Dopo i primi sintomi e le prime diagnosi, gli avevano dato due anni di vita. È sopravvissuto a quella previsione per quasi 55 anni: un record. Anche per questo è stato oggetto di attenzione costante da parte dei mass media e la sua vicenda ha ispirato alcuni film di grande successo. Hawking è stato anche un grande divulgatore. Un suo libro, Dal Big Bang ai buchi neri. Breve storia del tempo è stato un best seller mondiale.
Chi scrive ha avuto la fortuna di intervistarlo, a Trieste, nel lontano 1992. Anche se, per forza di cose breve, è stata l’intervista più emozionante che il vostro umile cronista abbia mai realizzato. Ve la riproponiamo.
TRIESTE, 26 gennaio 1992. Ha voluto esserci anche lui, Stephen Hawking. Con la voce metallica prestatagli da un computer. Con quel minimo di mobilità assicuratagli dalla più avveniristica delle sedie a rotelle. Con quel suo lucido coraggio che lo fa essere ad un tempo un genio della fisica e una sfida vivente alle leggi della medicina. Ha voluto esserci anche lui, Stephen Hawking, nella tre giorni di convegno sul Rinascimento della relatività generale e della cosmologia, iniziato ieri presso la Scuola Internazionale di Superiore di Studi Avanzati per festeggiare i 65 anni del maestro di un tempo e del leale avversario di alcune sue tesi scientifiche di oggi, Dennis Sciama.
Perché quest'uomo che da oltre 15 anni vive e pensa confinato su una seggiola semovente, il corpo quasi totalmente atrofizzato, privato persino della possibilità di parlare a causa di una devastante malattia neurodegenerativa e, quasi per una legge del contrappasso, una mente in costante, febbrile attività che lo ha portato a divenire un'autorità indiscussa della fisica contemporanea, perché dunque quest'uomo ha voluto sottoporsi a un'immane fatica e volare, a tutti i costi, da Cambridge, dove siede sulla cattedra che fu di Isaac Newton, per arrivare fin qui a Trieste?
Per gratitudine, è ovvio. Per grande, profonda gratitudine. «È stato lui a catapultarmi nel più eccitante dei settori della fisica». E mentre fa pronunciare queste parole al suo docile computer, in apertura della sua relazione nel primo pomeriggio davanti ad un'aula costipata e semplicemente catturata dalle vibrazioni di quei diaframmi artificiali, vi accorgete di quale potente iniezione di vita gli ha regalato Dennis Sciama, aprendolo circa 30 anni fa ai segreti della relatività generale e della cosmologia.
«Dennis Sciama mi ha incoraggiato a pensare alle questioni globali dell'universo inteso come intero», precisa poi nella conversazione avuta con un manipolo di giornalisti. Questioni cruciali, al confine tra scienza e filosofia. «Non appena arrivai nel suo istituto egli mi scelse per lavorare sulla freccia del tempo: perché il passato è così differente dal futuro? Perché noi ricordiamo il passato e non il futuro?». Riesce a tamburellare con incredibile perizia sulla tastiera con quella scarsa mobilità che ha ormai l'unica mano ancora reattiva. E dopo qualche minuto il computer trasmette il suo pensiero: «Devo dire che non trovai la risposta a quelle domande mentre ero ancora studente ricercatore. Per fortuna ho potuto prendere in considerazione altri problemi globali». E conclude, con un minimo di civetteria: «Ma sono ritornato su quel primo problema alcuni anni dopo». Trovando, forse, una risposta.
Quelle a cui Stephen Hawking tenta, appunto, di rispondere da allora sono le più fondamentali delle domande: come e perché è nato l'universo? Ed è la tensione della risposta che lo ha portato, forse, a diventare un caso prodigioso in medicina. All'inizio degli anni '60 si ammala di sclerosi amiotrofica laterale, detta anche malattia di Lou Gehrig o malattia del neurone motore. «Un serio disincentivo a prendere il lavoro seriamente», nota John Gribbin sul New Scientist. A malattia conclamata i medici gli danno ben poche speranze di lunga vita. Invece... Invece Hawking s'innamora. E, nel 1965, sposa Jane Wilde. Si guadagna il suo PhD. Poi si fa catturare da un'idea del fisico matematico Roger Penrose e decide di svilupparla. Perché può essere la chiave per rispondere alle sue domande fondamentali. Riguarda, l'idea di Penrose, il collasso gravitazionale dei buchi neri. E Stephen Hawking trova che, almeno da un punto di vista matematico, il collasso di quei famelici oggetti verso una singolarità, un punticino con temperatura e densità infinite, è identico al nostro universo in espansione purché si inverta la direzione del tempo.
I buchi neri diventano gli oggetti cosmici intorno a cui imbastire la ricerca sull'origine dell'universo. Hawking, spesso in collaborazione con Penrose, scopre molte cose sui buchi neri. Che hanno una temperatura. E che non sono poi così orridi come li si descrive. Non rastrellano per sempre materia ed energia. Ma possono anche cederne. Perché evaporano, regalando all'universo osservabile fotoni e particelle pesanti. Anzi, avanza l'ipotesi, Hawking, che nei suoi primi istanti di vita l'universo ne abbia dovuti far nascere alcuni di dimensioni piccolissime. Mini buchi neri evaporati in un amen.
«Noi pensiamo che l'universo primordiale era un oggetto molto irregolare e caotico e quindi ci aspettiamo che si sia formata una gran quantità di piccolissimi buchi neri», ci dice per il tramite del suo fedele computer. «Questi buchi neri evaporano e cedono radiazione e materia all'universo osservabile attraverso quello che noi chiamiamo un tunnel quantistico».
Dovremmo vederne, dunque, le tracce?
«Io ho scoperto che avrebbero dovuto formare un background di raggi gamma nell'universo. In realtà un fondo cosmico di raggi gamma lo osserviamo. Ma, sfortunatamente, è un fondo troppo piccolo. Con tutta probabilità è dovuto ad altre cause. Dobbiamo riconoscere che noi non abbiamo alcuna prova positiva dei mini buchi neri».
Questo cambia qualcosa per lei?
«Sì. Dobbiamo concludere che l'universo primordiale era molto omogeneo. Questo è un guaio. Non fosse altro perché, se si fossero trovati definitivamente i mini buchi neri, io avrei vinto il Premio Nobel», conclude con un'ironia che la voce del computer non riesce a tradurre. Ma neppure a reprimere. Il lavoro sui buchi neri sta tuttavia continuando. Non a caso la relazione che ha tenuto riguardava l'evaporazione di un teorico buco nero in due dimensioni.
Ma intanto Hawking e Penrose si stanno addentrando in un mondo fantastico, quello della quantum cosmology. Della teoria che tenta di unificare la relatività generale e la fisica dei quanti e che promette di spiegarci come e perché è nato il nostro universo. In questo mondo, per un piccolissimo istante, si sono realizzate le condizioni per la nascita dell'universo. E, per un brevissimo istante, ha regnato un'unica forza, la gravità quantistica. Con effetti davvero speciali.
Newton proponeva uno spazio e un tempo assoluti e indipendenti. Einstein ci ha proposto un unico spazio-tempo, in cui però la dimensione temporale è in qualche modo distinguibile da quelle spaziali. Lei propone, in quel brevissimo istante noto come era di Planck, una dimensione immaginaria del tempo assolutamente indistinguibile dalle tre dimensioni dello spazio. Siamo difronte ad una nuova teoria dello spazio e del tempo?
«La teoria quantistica necessariamente impone quelli che sono chiamati numeri immaginari. Così si può avere un intervallo di tempo immaginario fra due eventi, invece dei normali intervalli di tempo reali. La direzione immaginaria del tempo forma un angolo retto con l'ordinaria direzione reale. Proprio come le direzioni spaziali. Ciò significa che il tempo immaginario si comporta come la quarta dimensione dello spazio. Nello spazio e nel tempo immaginari l'universo può essere chiuso su se stesso senza limiti né confini. Proprio come la superficie della Terra. Solo con due dimensioni in più».
Professor Hawking se questa teoria verrà finalmente provata, avremo il ricongiungimento tanto cercato da Einstein tra relatività generale e fisica quantistica?
«Non sappiamo quanto dovremo aspettare per avere una completa teoria unificata. Né, peraltro, se mai l'avremo. Penso però che abbiamo una chance: che riusciremo a unificare le due teorie entro i prossimi 20 anni. Ma, in un certo senso, io spero di no. Sarebbe come buttar fuori dalla fisica la bellezza del suo mistero. Ogni altra ricerca dopo la grande impresa sarà come conquistare la vetta di una collina dopo aver scalato l'Everest».
Stephen Hawking teme la “fine della fisica”. Non vuol togliere ai fisici la tensione e l'emozione di cercare risposte ai grandi quesiti. Ciò che per lui è un motivo di vita. A proposito di vita, professore. Che ne è di quel film sulla sua vita annunciato da Spielberg e che la vede come attore protagonista?
«Il film è finito e penso che sia un buon film. Capace di catturare l'attenzione e l'interesse della gente senza nulla togliere al messaggio scientifico. Spielberg ha litigato con il regista, Errol Morris, e si è chiamato fuori. Ma ciò nonostante penso proprio che sia un buon film».
Un film da vedere.