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Stereotipi di genere: ne parliamo, li leggiamo, li subiamo, ma ancora non li riconosciamo

Degli stereotipi di genere si parla ormai moltissimo, ma nella maggior parte dei casi non li si riconosce. Proprio per questa ragione è così importante capire come e quando li interiorizziamo e di cosa si alimenta l’apparente realtà che ci comandano.

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Ormai se ne parla in continuazione. Sono gli stereotipi di genere: un virus sociale, che quando assunto produce una distorsione cognitiva delle nostre relazioni, in particolare di coppia, tale da renderle asimmetriche. Se ne parla in continuazione ma nella maggior parte dei casi non li si riconosce. La forza di questi stereotipi è nel fatto che una volta assunti non sono facili da espellere. Il nostro sistema cognitivo, spesso pigro, tende infatti naturalmente a costringere le relazioni umane in schemi comportamentali semplici, poco realistici e tanto banali quanto efficaci. Nasce così la fantasiosa idea che in particolare il rapporto tra uomini e donne debba rispondere a una gerarchizzazione che il passato ancora oggi ci tramanda e ci impone.  

Il video ‘Differenze di genere alle radici dei ruoli sociali’, realizzato dalla CnrWebTv in occasione dell’8 marzo, festa della donna, fa emergere le opinioni di bambini e bambine e adolescenti intervistati sugli stereotipi che plasmano le prospettive di uomini e donne fin dall’infanzia, imponendo predefiniti schemi comportamentali. I preconcetti sul gender gap sono ancora persistenti nelle nuove generazioni, come dimostrano le indagini del gruppo di ricerca Mutamenti Sociali, Valutazione e Metodi (MUSA) dell’Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Irpps), coordinato da Antonio Tintori, ideatore del video e voce narrante. Da cnrweb.tv

Per imparare a riconoscere veramente questi stereotipi è bene capire come e quando li interiorizziamo e di cosa si alimenta l’apparente realtà che ci comandano. Innanzitutto, la loro efficacia non sarebbe tale se la loro trasmissione non avvenisse a partire dai primissimi anni di vita. Nell’ambiente familiare, che costituisce il principale luogo di riproduzione delle disuguaglianze sociali, gli stereotipi vengono appresi in particolare per imitazione. Si assiste da bambini alla rappresentazione di “forme sociali primarie”, a schemi comportamentali cronicizzati e largamente invisibili agli agenti di trasmissione, i genitori; schemi, che divengono routine di pensiero, che si oggettivizzano, e che poi nel corso della crescita trovano conferme, e disconferme, nel mondo esteriore. 

L’importanza della scuola e dei suoi educatori si fa qui fondamentale se si vuole veramente risolvere il problema. Ciò perché nel passaggio dalla socializzazione primaria (familiare) a quella secondaria (scolastica e ambientale) i bambini sono comunque immersi in un mondo di stereotipi. Ai modelli comportamentali genitoriali vanno infatti ad associarsi visioni nel mondo esterno che confermano proprio le indicazioni di questi condizionamenti: il primato maschile e la subalternità femminile, l’esistenza di ruoli di genere. Sono questi ultimi che producono aspettative sociali per sesso che assegnano all’uomo i compiti di comando, potere e produzione di reddito e alla donna gli oneri di cura e assistenza. In questo modo, un apparentemente innocuo canone sociale (l’interiorizzato sbilanciamento di potere tra uomo e donna) stabilisce l’esistenza di un “naturale” ruolo femminile, che si esaurisce nella dogmatica tripartizione “famiglia, casa, figli”.

I vincoli normativi dati da questo ordinamento del mondo intersoggettivo producono fenomeni che ben conosciamo, e che spesso riteniamo, appunto, “naturali”: la segregazione orizzontale e quella verticale. La prima è una forma di auto-esclusione femminile. Le donne, in quanto tali, si orientano per lo più verso una formazione umanistica - ecco perché la loro scarsa presenza nelle discipline STEM -, per attività di assistenza e mestieri anche “di base” (segretarie, maestre, infermiere, casalinghe ecc.). La segregazione verticale è invece subita dalle donne, perché rappresenta tutta quella serie di modi con cui gli uomini ostacolano lo sviluppo delle carriere femminili e quindi l’acquisizione da parte loro di posizioni apicali.  

E qui torniamo alla scuola, che non può che essere il principale antidoto agli stereotipi di genere. Ciò perché è in particolare a scuola che è necessario imparare (se non altro) a non auto-escludersi, erodendo così le disuguaglianze sociali e promuovendo le pari opportunità e la mobilità sociale. A scuola si entra infatti già portatori di un pregiudizio. Una recente indagine campionaria condotta dal gruppo di ricerca Mutamenti Sociali, Valutazione e Metodi (MUSA) del CNR-IRPPS su bambine e bambini di scuole primarie ha infatti rintracciato in questa età la presenza di un’elevatissima adesione all’idea che esistano ruoli sociali dedicati a uomini e a donne (medio-alta verso il ruolo stereotipato maschile, 58,6%; medio-alta verso il ruolo stereotipato femminile 52,9%). Tradotto, ciò significa che chi ha tra 8 e 11 anni ritiene che gli uomini siano più portati per comandare a lavoro, fare il presidente, lo scienziato o il poliziotto, mentre le donne più portate per pulire casa, cucinare, fare la spesa e occuparsi dei figli.

Gli stimoli ambientali, che dovrebbero essere contrastati dall’istruzione scolastica, rinforzano in molti casi queste idee, e questo oggi anche per via anche di internet, dei social media e per ultima dell’intelligenza artificiale. La sottovalutata dicotomia rosa/celeste, l’incapacità di acquisire nel linguaggio comune anche la sola declinazione al femminile delle professioni, i giochi da maschi e i giochi da femmine e così gli sport bipartiti, non fanno altro che confermare certe immagini acquisite in infanzia.

Ma la scuola assolve oggi al suo più importante ruolo, che è quello di socializzare all’autonomia cognitiva e al libero arbitrio? A giudicare dai libri scolastici, ancora no. Non sono infatti questi esenti dalle più classiche narrazioni che si risolvono nell’ideale del maschio “forte” e della femmina “principessa da salvare”. Ed è così che sopravvivono le narrazioni sui principi azzurri e le categorie estetiche del bello e del brutto che vedono ragazze con voce da cornacchia trasformarsi in adorabili donzelle alla promessa di matrimonio (combinato) con il salvifico maschio, il tutto all’insegna di famiglie “tradizionali” che esulano da una realtà sociale decisamente, e ovviamente, da sempre più complessa. Nella letteratura didattica, peraltro, le donne sono ancor oggi narrate più che narratrici, e non mancano esplicitazioni di ruoli stereotipati di genere in immagini che raffigurano “mamme stirare” e “papà guardare la tv”. Se queste visioni sono spesso la norma in ambito commerciale - e se lo sono è perché sono immagini ancora largamente condivise e che quindi vendono -, e per constatarlo basti sfogliare un qualsiasi catalogo di giochi anche dello scorso Natale, all’interno del quale non sarà di certo difficile trovare scatole rosa che racchiudono kit per la pulizia di casa, bambine che stirano, cha passano l’aspirapolvere, che riempiono la lavatrice, che accudiscono bambini e giocattoli “maschili” per diventare costruttori, scienziati o soldati, ci si aspetterebbe che nel 2024 tali idee vengano quantomeno rigettate a scuola.

Ciò non vuol dire che, negli ultimi anni, nel settore dell’istruzione scolastica non siano stati fatti passi avanti, e anche grandi, nel contrasto degli stereotipi di genere. Tra i vari tentavi di emancipazione dei libri scolastici da questi distorti schematismi comportamentali, si ricordano infatti le recenti linee guida per promuovere la parità di genere nei libri di Zanichelli, e ancor prima il codice Polite, con cui l’Associazione Italiana Editori fissò norme di autoregolazione per le pari opportunità nei libri di testo. Tuttavia, il problema c’è, è grande, e come gli stereotipi che rappresenta è fortemente impermeabile al cambiamento anche nel contesto scolastico. Come si spiega tutto questo? Facilmente: come tutti e tutte, non solo gli educatori genitori sono spesso pervasi da ideali relazionali stereotipati ma anche gli stessi docenti scolastici sono talvolta portatori sani di pregiudizi e più spesso disattenti osservatori degli strumenti didattici. Se la scuola può, e deve, essere il primo antidoto alle asimmetrie di genere, un serio processo di decostruzione di questi condizionamenti sociali non potrà dunque attuarsi in assenza di una nuova sensibilità, e quindi di una formazione specifica, da parte del corpo docente.

 


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