fbpx Superdiffusore: il Lancet ricostruisce la storia di una parola che ha cambiato spesso significato | Scienza in rete

Superdiffusore: il Lancet ricostruisce la storia di una parola che ha avuto molti significati

Un cerchio tutto formato di capocchie di spillo bianche con al centro un disco tutto formato da capocchie di spillo rosse

“Superdiffusore”. Un termine che in seguito all’epidemia di Covid abbiamo imparato a conoscere tutti. Ma da dove nasce e che cosa significa esattamente? La risposta è meno facile di quello che potrebbe sembrare. Una Historical review pubblicata sul Lancet nell’ottobre scorso ha ripercorso l’articolata storia del termine super diffusore (super spreader), esaminando i diversi contesti in cui si è affermato nella comunicazione su argomenti medici e riflettendo sulla sua natura e sul suo significato. Crediti immagine: DALL-E by ChatGPT 

Tempo di lettura: 5 mins

L’autorevole vocabolario Treccani definisca il termine superdiffusore in maniera univoca: “in caso di epidemia, persona che trasmette il virus a un numero più alto di individui rispetto alle altre”. Un recente articolo del Lancet elenca almeno quattro significati del termine, ormai familiare anche tra il grande pubblico:

- persone che, per qualche motivo fisiologico o biologico, hanno una capacità di infettare gli altri superiore alla media (in caso di malattie come influenza, morbillo, tubercolosi);

- persone che, a causa della loro posizione sociale o del loro comportamento, hanno infettato molte altre persone durante un breve periodo di tempo (in caso di malattie come gonorrea, HIV/AIDS);

- il 20% della popolazione che, secondo modelli matematici, è responsabile dell'80% delle infezioni nella comunità (una manifestazione della cosiddetta legge di Pareto, secondo la quale il 20% delle cause provoca l’80% degli effetti);

- persone che provocano il cosiddetto focolaio esplosivo di un'epidemia.

I precursori del concetto di superdiffusore appaiono nelle analisi di focolai epidemici esplosivi durante i primi anni del ventesimo secolo, che riguardavano generalmente non le malattie respiratorie, ma quelle gastrointestinali, e avvenivano spesso in occasione di eventi che raccoglievano molte persone insieme, esponendo allo stesso rischio (cibi o acqua inquinati) molti individui contemporaneamente.
Benché queste osservazioni riguardassero perlopiù eventi sporadici, dovute a coincidenze di eventi, in qualche caso portarono a osservare che c’era stato un portatore della malattia, talvolta apparentemente sano, che aveva senza volerlo scatenato un’epidemia locale. Tra le persone più a rischio di svolgere questo ruolo furono indicati i grandi viaggiatori; le persone che sputavano, tossivano o avevano il naso che cola o che mostravano i sintomi acuti della malattia.

Il contagio avviene per via aerea: e c'è chi contagia di più

La nascita del concetto e del termine di superdiffusore è però legata all’idea che il contagio possa avvenire anche per via aerea e non solo per contatto interpersonale.
Per la prima metà del ventesimo secolo l’ipotesi che le malattie potessero diffondersi per via aerea veniva bollata come tesi arcaica e infondata. Fu nel 1957-58 che la pandemia influenzale H2N2 (la prima pandemia dopo la Spagnola) e gli studi di Wells e Riley sulla tubercolosi attirarono l'attenzione sia sulla possibilità della trasmissione aerea di questa malattia sia sull'esistenza di un'importante eterogeneità nell'infettività: si osservò cioè che alcuni individui contagiavano in maniera estremamente efficiente ed erano quindi dei pericolosi trasmettitori del batterio patogeno.

Il termine superdiffusore fu coniato per la prima volta nel 1972, in relazione a simulazioni stocastiche di epidemie influenzali effettuate al computer, durante l’epidemia di influenza H3N2. Fu Lila Elveback, direttrice della unità statistica della Divisione di Epidemiologia del Public Health Research Institute di New York, che per prima utilizzò il termine superdiffusore, all’interno dei modelli stocastici e delle analisi al computer dei modelli e dei trend di diffusione delle malattie contagiose che utilizzava da diversi anni. Elveback sottolineò l’importanza di tenere conto della variabilità dell’infettività e della occasionale presenza di superdiffusori, cercando di caratterizzarli.

Negli anni 70 e 80 fu l’esplosione di focolai epidemici di morbillo e varicella all’interno di popolazioni vaccinate a essere spiegata con la presenza di superdiffusori. Il termine fu usato per ipotizzare la presenza di persone in grado di contagiare molto efficacemente per via aerea, contaminando grandi spazi chiusi affollati di persone, come un auditorium scolastico o una palestra. Le particelle diffuse via aerosol avevano capacità che il contagio attraverso il contatto interpersonale non aveva: colpire le poche persone suscettibili all’interno di grandi gruppi di persone immunizzate.
Qualche anno più tardi, nel 1985, il termine superdiffusore apparve per la prima volta sulla stampa rivolta al grande pubblico, per spiegare il contagio di morbillo tra bambini che avevano frequentato lo stesso ambulatorio medico, ma non si erano mai incontrati direttamente.

Superdiffusore di malattie a trasmissione sessuale

Dagli anni 80 in avanti il termine superdiffusore passò a essere utilizzato a proposito delle malattie a trasmissione sessuale, per identificare pazienti asintomatici e sessualmente attivi, in grado di diffondere la malattia tra un numero molto elevato di partner, che dovevano essere identificati per arginare il contagio.

L’epidemia di HIV/AIDS rese in seguito molto popolare questo termine, che combinò i due significati: sui giornali si parlò infatti di persone particolarmente attive nel diffondere la malattia sia perché molto promiscue sessualmente sia perché colpite da una versione particolarmente contagiosa della malattia stessa.

Il concetto di superdiffusore venne ulteriormente alla ribalta durante l’epidemia di SARS del 2002-2004, dove fu in un certo senso normalizzato, secondo la cosiddetta regola di Pareto, secondo cui il 20% delle cause provoca l’80% degli effetti, in qualsiasi contesto. In questo modo i superdiffusori uscirono dal ruolo di individui eccezionali, dotati di capacità di contagio straordinarie, per diventare una componente strutturale che caratterizza gli eventi epidemici e un soggetto di studio per i matematici.

Una delle caratteristiche più rilevanti messe in luce dallo studio del Lancet è la diversità, e a volte la contraddizione, nella comprensione del termine. Non solo il suo significato cambiava tra gli studi, ma anche la sua funzione era radicalmente diversa in ciascuna disciplina.

Per Elveback, i superdiffusori erano principalmente una nuova caratteristica innocua in un modello complesso; nello studio della gonorrea, i superdiffusori erano un gruppo centrale di persone infette verso le quali si doveva intervenire, sebbene la loro esistenza non portasse a un'epidemia, ma mantenesse il tasso di infezione in equilibrio.
In un contesto di campagne di vaccinazione, Langmuir vedeva i superdiffusori come una minaccia che poteva minare, se non ribaltare, gli sforzi per tutelare la salute pubblica. E nel caso dell'AIDS, un superdiffusore diventava una figura sensazionalizzata, che suscitava paure e ansie.
Ogni definizione, insomma, è stata fortemente legata dalle esperienze e dalle preoccupazione del suo tempo.

Articoli correlati

Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Ultrasuoni focalizzati a bassa intensità: un nuovo studio per la ricerca neurologica

Gli ultrasuoni focalizzati a bassa intensità (LIFU) sono una promettente tecnologia che potrebbe consentire di superare la barriera emato-encefalica e migliorare il trattamento di malattie neurologiche. Un nuovo lavoro indaga cosa avvenga nel cervello a seguito del trattamento, per analizzare la ripresa della barriera emato-encefalica dopo l’apertura indotta.

Le malattie neurologiche, come l'Alzheimer, il Parkinson e vari tumori cerebrali, sono tra le condizioni più invalidanti a livello globale. Nonostante i progressi della ricerca, i trattamenti efficaci restano ancora limitati: le ragioni sono varie e vanno dalla complessità del cervello alle difficoltà di una diagnosi precoce. Tra gli elementi che rendono difficile il trattamento delle malattie che interessano il cervello vi sono le difese naturali di quest’organo, in particolare la barriera emato-encefalica.