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Sviluppo senza ricerca

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Con il “decreto per lo sviluppo” voluto dal ministro Corrado Passera, lo stato italiano arriverà a spendere quest’anno circa 150 milioni di euro come credito d’imposta per stimolare l’innovazione del nostro sistema produttivo. Una spesa che, nelle statistiche internazionali, viene rubricata come investimento in R&S (ricerca scientifica e sviluppo tecnologico). Una quota parte di questo credito d’imposta  – circa 25 milioni di euro – è riservata ad aziende che perseguono i loro progetti di ricerca e sviluppo assumendo giovani laureati di età non superiore ai 28 anni. In questo caso le aziende potranno contare su un credito d’imposta pari al 35% e, comunque, per una cifra non superiore ai 200.000 euro. Si calcola che, con queste risorse, le aziende potranno assumere fino a 4.000 giovani laureati.
I più brillanti, ci si è affrettati a precisare.

Le cronache giornalistiche narrano di come il ministro Corrado Passera abbia dovuto battersi con una certa forza in sede di governo, per ottenere almeno questi risultati. Nessun dubbio, dunque, sul suo impegno personale e, anche, sul fatto che egli consideri strategica l’innovazione attraverso la ricerca scientifica e lo sviluppo tecnologico perseguiti da laureati giovani e brillanti. Ma servirà questa azione ad avviare a soluzione due dei grandi problemi del sistema produttivo italiano: la sua specializzazione produttiva in settori di media e bassa tecnologia, che non richiedono ricerca e sono sottoposti a una più feroce competizione internazionale; la disoccupazione giovanile, arrivata al 30%?

Il “decreto per lo sviluppo”, si dice, mobilita circa 80 miliardi di euro. Poiché al credito d’imposta per la R&S ne vengono dedicati meno di 150 milioni, significa che lo stimolo all’innovazione attraverso l’assunzione di giovani laureati non va oltre lo 0,2% della manovra. Poco? Molto?

Difficile dirlo. Possiamo fare solo alcune analisi comparative.

Nella vicina Francia, per esempio, è previsto un credito d’imposta per le imprese che investono in R&S senza vincoli ulteriori pari al 40% nel primo anno e al 35% per il secondo anno fino a 100 milioni di investimenti (in un anno, un’impresa può dunque ricevere, fino a 40 milioni), cui è possibile aggiungere un credito d’imposta del 5% per investimenti superiori a 100 milioni. Non compariamo solo i 40 milioni (e più) che può ricevere un’azienda innovativa in Francia coi 200.000 euro che potrà ricevere un’azienda in Italia, se assume un giovane laureato. Quello che conta è (anche) l’investimento complessivo. Ogni anno la Francia mette a disposizione per il credito d’imposta 5 miliardi di euro: oltre 33 volte le risorse messe a disposizione dall’Italia. In molti altri paesi europei il credito d’imposta è, percentualmente più alto: tocca il 42% in Spagna e può toccare persino al 130% in Gran Bretagna (il che contribuisce a spiegare perché gli investitori stranieri corrano a investire nel Regno Unito, invece che verso l’Italia). 

Ma la concorrenza più aggressiva viene, ancora una volta, dai paesi a economia emergente. In Russia e in Cina le deduzioni super sono superiori anche rispetto alla generosa Gran Bretagna e toccano il 150%. In Brasile si arriva al 160% e l’India offre fino al 200% di crediti d’imposta a che investe in ricerca scientifica e sviluppo tecnologico.

Queste cifre ci dicono che difficilmente il “decreto per lo sviluppo” riuscirà anche solo ad avviare un cambiamento di specializzazione produttiva e a traghettare il paese verso la knowledge-based economy. Una transizione che molti considerano assolutamente necessaria per invertire il lungo percorso di declino – lungo ormai 20 anni – imboccato dall’Italia. Ma serve, il decreto, per avviare a soluzione la “questione giovanile”? Anche qui lasciamo parlare i numeri. Le statistiche ci dicono che ogni anno in Italia si laureano poco meno di 300.000 persone, per lo più giovani di età inferiore ai 35 anni. Il più recente rapporto di Alma Laurea ci dice che, ormai, il 20% di questi giovani a un anno dalla laurea è ancora disoccupato. Il che significa che ogni anno entrano nel mondo del lavoro e non trovano occupazione circa 60.000 giovani laureati. Il decreto per lo sviluppo offrirà un’opportunità di lavoro a 4.000 di questi giovani (meno del 7% del totale dei laureati in un anno). Il che significa che, senza un drastico cambiamento di tendenza, ogni dodici mesi si aggiungeranno al monte dei disoccupati qualificati 56.000 giovani. Decisamente non è con questo decreto che si risolverà la questione giovanile, neppure in quella sua subordinata che è la questione dei giovani laureati.

Ma c’è di più. Le nuove immatricolazioni nelle nostre università pubbliche stanno diminuendo. Nell’ultimo anno pare siano del 10% inferiori a quello dell’anno precedente. Che si aggiunge a una diminuzione di iscrizioni del 15% fatta registrare nell’arco di anni compresa tra il 2005 e il 2010.

A diminuire è anche il numero dei laureati.

Tutto questo è in assoluta controtendenza rispetto a quanto avviene nel resto del mondo. Come Scienzainrete ha più volte ricordato, in Europa il numero di laureati in età giovanile sfiora il 40%, in Giappone, Canada e Russia si attesta intorno al 55%, in Corea del Sud si attesta intorno al 63%. E la tendenza è, pressoché ovunque, alla crescita. In Italia non solo siamo al 20%, ma il trend è, appunto, in discesa. Ha ragione l’onorevole Walter Tocci, un cui intervento abbiamo ripreso su Scienzainrete: è di questo e non di altro che dovremmo discutere nel nostro paese.

Se solo sapessimo guardare oltre il contingente e avessimo una minima consapevolezza della condizione nella quale ci troviamo.


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