fbpx Terre rare: l’oro cinese che spaventa il mondo

Terre rare: l’oro di Pechino che tutti vogliono

miniera californiana di Mountain Pass

Il trattato USA-Ucraina appena sancito rivela quanto urgente sia la necessità di dotarsi di minerali critici, fra cui le 17 terre rare, per la transizione digitale ed elettrica. In realtà tutti sono all'inseguimento della Cina, che produce il 70% di questi metalli e l'85% degli impianti di raffinazione e purificazione. Questo spiega una serie di ordini esecutivi di Trump e le nuove politiche di Giappone, Australia ed Europa, e forse anche la guerra in Ucraina. Non più tanto le fonti fossili quanto le terre rare sono diventate materia di sicurezza nazionale. Ovunque si riaprono miniere, anche in Italia. Ma essendo difficili da estrarre e purificare si punta anche al riciclo e alla ricerca per mettere a punto le tecnologie di recupero più economiche e sostenibili. Ma come ha fatto la Cina ad acquisire una tale supremazia? E che cosa stanno facendo gli altri?

Nell'immagine la storica miniera californiana di Mountain Pass, TMY350/WIKIMEDIA COMMONS (CC BY-SA 4.0)

Tempo di lettura: 22 mins

C’era una volta, negli anni Novanta del secolo scorso, un mondo con due potenze in sostanziale equilibrio nella produzione di terre rare: Stati Uniti (33%) e Cina (38%), seguiti da Australia (12%), India a e Malesia per il 5% ciascuna e le briciole ad altri paesi. Ora non è più così. La Cina domina il settore da quasi monopolista, anche se negli ultimi anni potenze che hanno troppo a lungo snobbato questi metalli essenziali per lo sviluppo di rotori eolici, macchine ibride ed elettriche, cellulari, batterie, computer e una infinità di altri dispositivi civili e militari, sono alla disperata ricerca di nuove miniere, in casa propria o altrui. Lo dimostra, fra gli altri, il trattato firmato ieri da Stati Uniti e Ucraina per lo sfruttamento dei numerosi minerali critici, fra cui le terre rare. Nulla è gratis a questo mondo, men che meno le armi americane spedite a Kiev.

La ricerca e lo sfruttamento delle terre rare iniziano verso la metà del secolo scorso, ma è negli anni Novanta che la Cina compie il balzo decisivo che la porterà a detenere un sostanziale monopolio su questo gruppo di 17 elementi, noti come terre rare. Sulla tavola periodica, 15 di essi appartengono alla serie dei lantanidi, compresi tra il lantanio e il lutezio, a cui si aggiungono l’ittrio e lo scandio. Si tratta di metalli molto reattivi, che tendono a ossidarsi facilmente e presentano buone proprietà magnetiche, ottiche ed elettroniche, caratteristiche che li rendono fondamentali per applicazioni avanzate nelle tecnologie di punta. Sono utilizzati, per esempio, per trasformare l’energia meccanica in elettrica (come nei generatori) e viceversa (come nei motori delle auto elettriche). Vengono distinti in elementi leggeri (LREE), più abbondanti in natura e più facili da estrarre, ed elementi pesanti (HREE), più rari e difficili da separare.

Tutti si affannano a dire che pur chiamandosi rare, in realtà non lo sono; piuttosto sono disperse e di difficile acquisizione, mischiate come sono in piccole quantità in rocce e terreni. Che a ben vedere è proprio la prima accezione della parola “raro” secondo la Treccani. Si trovano infatti in quasi tutti i continenti in percentuali variabili. Il lantanio, il cerio, il neodimio e l’ittrio sono, per esempio, più abbondanti del piombo o dell’argento; mentre il tulio e il lutezio sono circa 200 volte più comuni dell’oro, tuttavia sono “diluiti” sulla superficie del nostro pianeta, pertanto è difficile trovare giacimenti utili all’estrazione.

Tavola periodica, European Chemical Society.

Ma da dove deriva l’innamoramento cinese per queste strane terre? La scintilla scocca con il leader Deng Xiaoping, che nel 1992 disse: «Il Medio Oriente ha il petrolio, la Cina ha le terre rare». Oggi si può dire che il presidente degli Stati Uniti Donald Trump cerchi di rallentare la transizione energetica all’elettrico al grido di Drill, baby drill proprio perché consapevole della superiorità della Cina, che oggi produce il 70% di questi metalli, pur possedendo solo il 40% delle riserve da cui estrarle, ma soprattutto ha in mano l’85% del know how e della filiera produttiva, che dalla raffinazione delle terre rare arriva alla produzione di magneti permanenti e altri componenti avanzati. È anche vero però che la postura pro fossile di Trump non esclude - come rivela il trattato sancito con l’Ucraina - il tentativo di recuperare terreno anche su questi minerali critici, se è vero che lo scorso 21 aprile il presidente degli Stati Uniti ha invocato i poteri di guerra per aumentare la produzione di minerali essenziali, e il 24 aprile ha disposto permessi più rapidi per i progetti minerari in acque profonde. Nonostante questo - e le politiche di rilancio degli scavi minerari anche delle amministrazioni Biden e Obama - la Cina sembra avere un vantaggio difficilmente colmabile. Con grande preoccupazione dell’Occidente, che si scopre vulnerabile.

Anni Settanta, comincia la scalata

Sebbene già dalla fine degli anni ’50 scienziati cinesi abbiano compiuto ricerche su metodi di estrazione e separazione dei minerali di terre rare, è solo a metà degli anni ’70 che la Cina riesce a produrre ossidi di terre rare di qualità in quantità significative, come racconta uno studio di Mineral Economics che ricapitola la storia dello sfruttamento delle terre rare in Cina dal 1975 al 2018. Poiché la domanda interna è limitata, Pechino esporta i primi quantitativi di terre rare per ricavare preziosa valuta estera, soprattutto verso il Giappone e gli Stati Uniti. Alla metà degli anni ’80 la Cina è già in grado di produrre circa 10.000 tonnellate annue di miscele di terre rare e inizia a imporsi come fornitore globale.

Un ulteriore regalo arriva dall’Occidente quando, per evitare le stringenti normative ambientali in patria, molte aziende occidentali e giapponesi verso la fine degli anni ’80 iniziano a delocalizzare in Cina diverse attività di trattamento di terre rare. Analogamente, molte raffinerie giapponesi di terre rare vengono chiuse in patria e ricostruite in Cina, in cambio di contratti di fornitura garantita. Queste partnership favoriscono il salto tecnologico dell’industria cinese, migliorando le capacità di raffinazione e metallurgia delle imprese locali.

Dalla miniera alla fabbrica

A un’espansione tumultuosa, a prezzi stracciati (il cosiddetto China price), segue un periodo intorno ai primi anni 2000 in cui le terre rare assumono sempre più il profilo di risorsa strategica nazionale da tutelare, in termini sia economici sia ambientali. Il terzo “stadio” delle politiche cinesi (1999-2009) è caratterizzato da restrizioni sostanziali su produzione ed export e da un maggiore impulso allo sviluppo di usi a valle in ambito domestico. In pratica, invece di puntare solo a vendere materie prime grezze all’estero, la Cina in quegli anni vuole conservare più materiale sul mercato interno per alimentare le proprie industrie high-tech. Da quel momento, quote di esportazione, oneri sull’export e veri e propri dazi costruiscono un castello inespugnabile alla concorrenza internazionale su una risorsa di primaria importanza e non rinnovabile come le terre rare. La conseguenza di questa politica, oggi invidiata da molti, è che dopo il 2005 il volume totale di terre rare esportate dalla Cina cala sensibilmente, ma la quota di prodotti semilavorati o finiti sul totale dell’export aumenta di molto. In parallelo, la disponibilità interna a basso costo di terre rare favorisce la crescita di campioni nazionali nelle industrie utilizzatrici: la Cina diventa così il principale produttore di magneti permanenti al neodimio, di leghe speciali per batterie al nickel-metallo idruro, di fosfori per schermi e lampade, e altri beni oggi essenziali alla transizione. In altre parole, il paese conquista non solo la miniera ma anche la fabbrica delle terre rare.

2010, annus horribilis delle terre rare

Gli anni successivi vedono la reazione dei Paesi colpiti dalle restrizioni delle esportazioni e dei dazi, proprio come ora accade nei confronti degli Stati Uniti. Nel settembre 2010, in seguito a uno scontro nelle acque contese delle isole Senkaku, le autorità cinesi decidono di sospendere le esportazioni di terre rare verso il Giappone. L’embargo di fatto strangola le filiere hi-tech globali. Sul mercato spot internazionale, i prezzi delle terre rare schizzano a livelli record nel giro di pochi mesi. Per esempio, l’ossido di neodimio e altri ossidi critici decuplicano il loro prezzo tra inizio 2010 e metà 2011. Molte imprese occidentali e giapponesi, dai produttori di auto ibride ai fornitori militari, si trovano ad affrontare costi proibitivi e scarsità di materiali, dovendo rallentare la produzione o cercare soluzioni alternative. La corsa ad assicurarsi forniture fa bruciare le scorte esistenti e mette in evidenza la vulnerabilità creata da una fonte unica dominata da un solo paese.

L’Occidente prova a reagire al monopolio cinese

La cosiddetta "crisi delle terre rare" del 2010-2011 ha anche l’effetto di galvanizzare la reazione politica a livello internazionale. Stati Uniti, Unione Europea e Giappone – i principali importatori – si coordinano per contestare le restrizioni e i dazi cinesi, sollevando gli accordi presi davanti alla Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO). Sconfitta in questa disputa internazionale, la Cina sceglie di adeguarsi: dal 2015 elimina sia le quote che le tasse all’export sulle terre rare. Parte così la riscossa di paesi come gli Stati Uniti e l’Australia, che riaprono rispettivamente la miniera di Mountain Passe e il giacimento australiano di Mount Weld, mentre altri paesi (come Russia, India, Brasile) riaprono i loro depositi domestici. Giappone, UE e USA aumentano gli investimenti in ricerca per il riciclo delle terre rare e per sostituirle in alcune applicazioni.

 

Terre rare, risorse e criticità

Elementi

  • Cerio
  • Disprosio
  • Erbio
  • Europio
  • Gadolinio
  • Itterbio
  • Ittrio
  • Lantanio
  • Lutezio
  • Neodimio
  • Olmio
  • Praseodimio
  • Promezio
  • Samario
  • Scandio
  • Terbio
  • Tulio

Usi

  • agente lucidante per vetri
  • barre di controllo nucleare
  • batterie nucleari
  • catalizzatori
  • celle a combustibile
  • fosfori (schermi, TV, LED, Lampade)
  • illuminazione
  • Laser (medicina, comunicazioni, lavorazioni metalli, ecc)
  • leghe leggere e speciali
  • magneti
  • pietre focaie (Mischmetal)
  • rilevatori PET
  • risonanza magnetica
  • sonar
  • sorgenti luminose beta
  • sorgenti raggi gamma
  • sorgenti raggi X portatili
  • strumenti di misura
  • superconduttori
  • terapie mediche
  • vetri colorati

Paesi estrattori

  • Australia
  • Brasile
  • Cina
  • Filippine
  • India
  • Madagascar
  • Malesia
  • Myanmar
  • prodotto in laboratorio
  • Russia
  • USA
  • Vietnam

Problemi di estrazione

  • Dipendenza geopolitica
  • Dipendenza geopolitica/prezzi volatili
  • Estrazione difficile/costosa (bassa concentrazione)
  • Gestione scorie radioattive
  • Impatto ambientale estrazione
  • Impatto ambientale miniere (acqua, chimica)
  • Impatto ambientale/sociale (estrazione illegale, foreste)
  • Mercato volatile
  • Produzione artificiale (non estratto)
  • Produzione come sottoprodotto
  • Radioattività intrinseca
  • Rifiuti tossici (non radioattivi)
  • Scarti radioattivi (U/Th)
  • Separazione/Purificazione complessa e costosa

di Sergio Cima e Grazia Giampaolo, dati: Wikipedia

La battaglia finale

Una riscossa relativa, tuttavia, quella del fronte anti-cinese, poiché la superiorità in fatto di infrastrutture di raffinazione e competenze che la Cina ha coltivato in decenni resiste agli attacchi. Anche perché la crisi viene metabolizzata come opportunità di modernizzazione del sistema: la Cina pone sotto il controllo statale l’attività estrattiva e industriale, creando sei grandi gruppi dedicati alle terre rare. Per esempio, la China Northern Rare Earth Group, legato all’impianto di Baotou in Mongolia Interna, presidia la maggior parte dei depositi del nord ricchi di terre rare leggere, mentre altri gruppi guidati da colossi come China Minmetals o Chinalco assorbono le attività nel sud verso le terre rare pesanti.

Ma la modernizzazione è visibile oggi soprattutto sul fronte tecnologico e industriale, dove la Cina pone l’accento sullo sviluppo di tutta la filiera, dall'estrazione alla purificazione. Attualmente la Cina è non solo il primo produttore di ossidi di terre rare (circa il 70% della produzione mondiale nel 2022, in relativo calo dal picco del 97% del 2011), ma controlla soprattutto le fasi di raffinazione e lavorazione con oltre l’85% della capacità mondiale di separazione e purificazione. Detiene inoltre un sostanziale monopolio su alcuni elementi chiave (come disprosio, terbio, neodimio e praseodimio) nella fase di trasformazione in prodotti utilizzabili. Ciò significa che anche quando altri paesi estraggono materie prime (per esempio l’Australia), spesso devono inviarle in Cina per il processo di raffinazione finale, dato che altrove mancano impianti su scala comparabile.

Europa e la via sostenibile ai minerali critici

A fronte di tutto ciò la risposta dell’Europa, che a marzo 2024 ha adottato il Regolamento sulle materie prime critiche (Critical Raw Materials Act - CRMA), sembra purtroppo fuori tempo massimo. Concepito durante la pandemia da SARS-CoV-2 e formalizzato dopo l’invasione russa dell’Ucraina, è la risposta normativa dell’UE a una vulnerabilità emersa con forza negli ultimi anni: la dipendenza da fornitori extraeuropei, in particolare dalla Cina, per l’accesso a materiali fondamentali per la transizione energetica e la difesa. Il documento individua 34 materie critiche e 17 strategiche, e fissa gli obiettivi che mirano a garantire approvvigionamenti sicuri e sostenibili entro il 2030. Diversificare le fonti,  ridurre la dipendenza dai singoli paesi, potenziare la capacità estrattiva, di raffinazione e riciclo all’interno dell’UE sono le parole chiave. I target fissati per il 2030 sono decisamente ambiziosi:

  • Almeno il 10% del fabbisogno annuo dell'UE deve provenire da estrazione interna.
  • Almeno il 40% deve essere lavorato e raffinato nell’UE.
  • Almeno il 15% deve provenire da riciclo.
  • Nessuna singola fonte extra-UE deve fornire più del 65% di una qualsiasi materia critica.

C’è da dire che la Commissione europea ha cercato di recuperare il tempo perso pubblicando contestualmente al regolamento europeo anche un invito a presentare proposte di progetti da finanziare. In tempi record, lo scorso 25 marzo, è stato pubblicato l’elenco dei 47 progetti strategici selezionati in 13 Stati membri, focalizzati sull'estrazione, la lavorazione e il riciclo di 14 materie prime critiche, tra cui litio, rame, nichel e terre rare, prevedendo un investimento complessivo di circa 22,5 miliardi di euro (per approfondimenti leggi qui). L’Italia, nonostante la presenza di circa 900 siti minerari storici, al momento è sostanzialmente ferma per quanto riguarda l’estrazione. Ha invece ottenuto l'approvazione di quattro progetti strategici tutti orientati al riciclo dove, insieme ai minerali critici più ambiti quali litio, rame, cobalto, nichel, platino, vi sono anche alcune terre rare.

L’estrazione mineraria non è un pranzo di gala: aspetti ambientali ed etici

Sebbene la narrativa europea si incentri su una transizione green, il costo ambientale e sociale della crescente domanda di materie prime, in particolare le terre rare, solleva interrogativi etici e scientifici.  Il successo della Cina si deve anche al fatto che per molto tempo, e probabilmente ancora oggi, il paese asiatico gioca con regole tutte sue quando si parla di ambiente, diritti civili, e sicurezza sul lavoro. Ma anche alle nostre latitudini il costo ambientale da pagare alla transizione non è certo zero, nonostante le mille attenzioni alla sostenibilità.

Un caso emblematico è rappresentato dal giacimento di Bayan-Obo, in Mongolia Interna (Cina), attivo dagli anni ’60. L’area oggi presenta notevoli contaminazioni  che interessano il suolo, le falde acquifere e anche il Fiume Giallo, risorsa vitale per oltre 200 milioni di persone. Il tasso di mortalità, di insorgenza di tumori e malattie respiratorie tra le comunità che vivono nei pressi del sito - per quanto poco documentata - risulta da molte segnalazioni sopra la media.

Nel 2023, una ricerca congiunta fatta da organizzazioni che si occupano di giustizia ambientale e fanno parte del Global Rare-Earths Element Network ha documentato oltre 25 conflitti ambientali e sociali legati alla filiera globale delle terre rare in tutti i continenti: Cina, India, America meridionale, ma anche Malesia e Myanmar. Non mancano casi critici nemmeno in Europa, come in Spagna, Norvegia e Svezia.

Significativo in particolare il caso di Myanmar, dove la Cina ha spostato una parte ingente delle proprie estrazioni. Un’indagine della ONG Global Witness denuncia come il paese, già fragile per effetto della pesante situazione politica e anche di eventi come il recente terremoto, stia pagando il prezzo della transizione energetica delle economie industrializzate, fornendo quasi la totalità delle terre rare pesanti HREE (Heavy Rare Eart Elements) richieste dal mercato. Le comunità di Kachin, lo stato più a nord del Myanmar al confine con la Cina, denunciano per esempio le operazioni di estrazione illegali di terre rare per mano di gruppi armati; le immagini satellitari rilevano la presenza di migliaia di bacini di decantazione, spesso collocati in aree di foresta primaria.

La sfida dei brevetti e la nuova frontiera del riciclo

Oltre alla competizione per l’estrazione e la raffinazione delle terre rare, si sta intensificando la corsa per il controllo della proprietà intellettuale. I brevetti sulle tecnologie di estrazione, separazione e riciclo delle terre rare stanno diventando un campo di battaglia cruciale per definire chi guiderà l’industria del futuro.

Storicamente la Cina ha puntato molto sui brevetti. Secondo fonti accreditate, tra il 1950 e il 2018 ricercatori cinesi hanno depositato infatti oltre 25.000 brevetti relativi alle terre rare, superando il secondo paese (gli USA, circa 10.000 brevetti). Gli ingegneri cinesi hanno perfezionato i processi di estrazione mediante solventi e altre tecniche di raffinazione, spesso partendo da tecnologie sviluppate in Occidente ma migliorandole e adattandole su scala industriale.

Ora però si punta molto sul riciclo, anche per ridurre la pressione sulle risorse e i conseguenti impatti ambientali. Un’analisi recente condotta da Area Science Park di Trieste evidenzia il dominio cinese nel panorama dei brevetti per il riciclo delle terre rare, con un numero di domande anche nelle nuove tecniche di riciclo delle terre rare nettamente superiore agli altri paesi. Tuttavia i brevetti di Stati Uniti e Giappone, sebbene meno numerosi, sono più citati e qualitativamente migliori, indicando un'innovazione tecnologica più avanzata. È noto infatti che le università cinesi sono preda della “febbre dei brevetti”, e che non sempre questo corrisponde a una produzione competitiva e spendibile a livello internazionale. L’Europa per il momento è un volenteroso gregario con pochi risultati di rilevo. Per colmare questo divario, sarebbe necessario un forte impegno dei governi europei nel sostegno all’innovazione, più mirata alla strategia di azzeramento dei rifiuti elettrici ed elettronici e di economia circolare della Commissione europea.

Davanti alla crescente domanda di materie prime legate alla transizione energetica - carenti nel nostro continente - una via importante è una politica che sostenga massicciamente la ricerca per migliorare tecnologie innovative in grado di ridurre la dipendenza dalle importazioni e mitigare l’impatto ambientale, non solo legato all’estrazione ma a tutte le fasi della filiera, compresa la fase del riciclo.

Attualmente, il recupero delle terre rare dai RAEE in Europa è limitato. Si stima che solo il 40% dei dispositivi elettrici ed elettronici venga raccolto a fine vita, e che meno del 5% delle terre rare presenti venga effettivamente riciclato. Questa bassa percentuale è dovuta sicuramente a diversi fattori, tra cui la difficoltà nei processi di separazione e purificazione, e la mancanza di una filiera industriale consolidata per il loro recupero.

Ma la strada è obbligata. Nessuno si può permettere di restare a corto di terre rare. Nelle scorse settimane, di fronte ai nuovi dazi imposti da Trump, la Cina avrebbe cominciato a lesinare agli Stati Uniti alcune terre rare essenziali per l’elettronica dei jet F35, mettendo in allarme il Pentagono. In loro nome si firmano patti leonini con Paesi ricchi solo di minerali, probabilmente si faranno finire guerre, e iniziarne altre. Si ridisegnano le mappe del commercio e si riportano le produzioni essenziali a casa propria in nome di una sovranità tecnologica che rinnega il mantra della globalizzazione che ci ha accompagnato fino ad oggi. Potenti queste terre, ancorché rare!

 


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