fbpx I terremoti giganti | Scienza in rete

I terremoti giganti

Primary tabs

Tempo di lettura: 6 mins

Il mega-terremoto dell’11 Marzo scorso al largo della costa orientale del Giappone ha prodotto danni enormi, circa 20.000 tra vittime accertate e persone scomparse. Soprattutto a causa del maremoto, che ha investito la costa ed ha sepolto sotto un’onda solida di fango e detriti una larga fascia costiera della provincia di Sendai a circa 120 km ad ovest dell’epicentro del terremoto. In queste ore i sismologi di tutti i laboratori del mondo lavorano all’analisi ed interpretazione dei primi dati sismici rilevati dalle reti sismografiche che hanno registrato in tutto il mondo le onde emesse dall’evento principale e dalle decine di repliche che si sono verificate immediatamente dopo e sono ancora in corso.

I principali parametri del terremoto “gigante”, sono noti fin dalle prime ore successive l’evento, grazie alla pubblicazione dei primi risultati scientifici sul web. Esso è stato prodotto da una frattura lungo una superficie di dimensioni lineari dell’ordine di 300-400 km per un’estensione in profondità fino a circa 100 km, nell’area di contatto tra la zolla del Pacifico in subduzione al di sotto della zolla Euroasiatica. L’ipocentro , che rappresenta la zona di nucleazione della frattura, è stato localizzato in mare a 130 km dalla città di Sendai lungo la costa ed a circa 370 km a Nord-Est della città di Tokyo. La magnitudo rilevata, 8,9, è tra le più alte registrate per eventi sismici nel corso dell’ultimo secolo, ma è tuttavia inferiore di pochi decimi della magnitudo del terremoto di Sumatra (M 9,2) del dicembre 2004. Ricordiamo che ad ogni punto di magnitudo corrisponde un incremento dell’energia liberata di circa un fattore 30, per cui in termini energetici questo terremoto è stato circa tre volte più piccolo del terremoto di Sumatra e ben 30.000 volte più grande del terremoto dell’Aquila dell’Aprile del 2009. Secondo le stime preliminari di queste ore, il terremoto è stato causato da una rapido movimento relativo delle placche in corrispondenza della superficie di faglia lungo la zolla in subduzione (dislocazione media di circa 17 m), con una frattura che si è propagata verso Sud-Est, per una durata di circa 150 secondi, spiegando così il livello elevato di scuotimento del suolo registrato nell’area metropolitana di Tokyo.

Il terremoto del Giappone accade a poco più di un anno di distanza da un altro mega-terremoto, il terremoto del Cile, verificatosi lungo la costa del Maule il 27 Febbraio 2010, con una magnitudo, 8,8, di poco inferiore a quella dell’evento giapponese, anch’esso associato ad una zona di subduzione. Entrambi gli eventi hanno seguito di pochi anni il terremoto gigante di Sumatra, successivamente al quale dieci forti terremoti con magnitudo superiore ad 8 sono accaduti per lo più nella fascia circum-Pacifica ed al confine tra le placche dell’Australia e Sunda, nella regione geografica dell’isola di Sumatra.

Altri terremoti, accaduti nel recente passato, hanno avuto una grande risonanza mediatica, per gli ingenti danni e le numerose vittime da essi provocati, sebbene la loro magnitudo non fosse poi così elevata. Tra questi annoveriamo i terremoti di Sichuan, in Cina, nel 2008 (M 7,9), dell’Aquila (M 6,2) e di Haiti nel 2010 (M 7).

L’occorrenza di tanti terremoti forti nell’ intervallo temporale di una sola decade sollecita il quesito se questa sia l’evidenza di variazioni significative nel tasso e nella distribuzione in magnitudo dei terremoti a scala planetaria e se essa sia dovute a modifiche nei meccanismi di accumulo e rilascio della deformazione nella parte fragile del pianeta causato dai movimenti relativi delle placche tettoniche. Sulla base dell’analisi statistica dei cataloghi sismici che risalgono fino al 1900 (quindi più di un secolo di osservazioni) risulta che, ogni anno, a scala planetaria, mediamente accadono un terremoto di magnitudo uguale o superiore a 8, e circa 15 di magnitudo tra 7 e 7.9 (fonte: USGS, United States Geological Survey). Su una scala temporale di dieci anni, dovremmo quindi rilevare mediamente 160 terremoti a forte potenziale distruttivo, cioè capaci di produrre danni ai centri abitati e vittime nelle popolazioni che abitano in zone sismiche. Nel corso degli ultimi 10 anni sono stati effettivamente rilevati dalle reti sismiche mondiali 15 terremoti con M>=8 e 158 terremoti nella fascia 7-7,9, un numero complessivo di 173 eventi, leggermente superiore alla media attesa, ma comunque nella fluttuazione statistica delle osservazioni.

rilascio energia terremoti
#LLL#
Figura 1 Rappresentazione
del momento sismico cumulato
in funzione del tempo nel periodo
che va dal 1906 al 2011 (figura
rielaborata dall’originale
di R. Aster, Seismological Society
of America, 2011).
Il momento sismico è una misura
dell’energia rilasciata durante
un terremoto. I gradini nella curva
rappresentano variazioni rapide
del momento sismico associato
ai forti terremoti.

In realtà, osservando la variazione del rilascio di energia dovuto ai grandi terremoti negli ultimi 100 anni (rappresentata da una quantità fisica che i sismologi definiscono momento sismico) (figura 1) ci si rende conto che mentre i mega-terremoti hanno tendenza ad accadere raggruppati nel tempo, prima negli anni ’50-’60 ed poi all’inizio degli anni 2000, il tasso di rilascio di energia sismica (che si riconosce dalla pendenza della curva in figura) si mantiene pressocchè costante nel tempo nei periodi che intercorrono tra questi grandi eventi. Sembrerebbe, pertanto, che sia l’occorrenza stessa dei mega-terremoti a provocare una impennata nel rilascio di energia sismica a scala planetaria, concentrata in un lasso di tempo relativamente breve, favorendo l’occorrenza di altri forti terremoti in altre zone sismiche più o meno vicine.

Questa ipotesi sembra avvalorata dall’osservazione proposta in un articolo pubblicato su Nature (Taira 2009), secondo cui i mega-terremoti inducono perturbazioni sul campo deformativo a scala globale, che vengono registrate come variazioni nello stato di resistenza in quei sistemi di faglia che sono prossimi al limite della rottura e quindi alla generazione di un forte terremoto. Così come accaduto negli anni ’60, ci troveremmo adesso all’interno di ciclo, all’inizio del quale il terremoto gigante di Sumatra del 2004 ha innescato i due mega-terremoti del Cile del 2010 e del Giappone 2011, contribuendo al raggiungimento dello stato limite della rottura sulle grandi faglie in queste aree di subduzione.

Non ci sono osservazioni strumentali di altri periodi di concentrazione di forti terremoti nei secoli scorsi, per cui non è possibile stabilire, anche statisticamente, quanto possa durare il ciclo in corso. La sola osservazione degli anni ’60-’70 in figura 1 ci suggerisce che il processo di riequilibrio post-sismico e ripristino delle condizioni “normali” può avvenire su di un tempo lungo di 1-2 decadi.

La nostra percezione dell’attività sismica del pianeta è tuttavia influenzata dal grado di distruzione che produce un sisma e quindi dalla risonanza mediatica dell’evento catastrofico, che oggi è amplificata dalla diffusione di molteplici mezzi di comunicazione di massa, dalla TV al web, ai networks sociali come Twitter e Facebook. Il potenziale distruttivo dei terremoti non sempre è direttamente riconducibile alla magnitudo del terremoto, come drammaticamente dimostrano gli esempi dei terremoti di Haiti e dell’Aquila. L’effetto disastroso di un sisma dipende da una serie di fattori oltre la grandezza della sorgente (che viene misurata dalla magnitudo), tra i quali la vulnerabilità e l’esposizione dei territori urbanizzati, o l’innesco di fenomeni naturali indotti dal sisma, quali i maremoti o le frane. A questo riguardo, è interessante notare che dei 26 terremoti che nell’ultimo decennio hanno causato le maggiori devastazioni con più di 100 vittime, la metà non sono terremoti forti ma hanno una magnitudo moderata (tra 6 e 7). Essi hanno colpito in prevalenza Paesi poveri o emergenti, laddove le regolamentazioni per le costruzioni anti-sismiche sono carenti, vengono utilizzati materiali e metodi costruttivi al di sotto degli standard o gli edifici sono localizzati in siti altamente urbanizzati, non idonei dal punto di vista geologico o sprovvisti di adeguate infrastrutture primarie di servizi (trasporti, ospedali, caserme di pompieri…).


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Siamo troppi o troppo pochi? Dalla sovrappopolazione all'Age of Depopulation

persone che attraversano la strada

Rivoluzione verde e miglioramenti nella gestione delle risorse hanno indebolito i timori legati alla sovrappopolazione che si erano diffusi a partire dagli anni '60. Oggi, il problema è opposto e siamo forse entrati nell’“Age of Depopulation,” un nuovo contesto solleva domande sull’impatto ambientale: un numero minore di persone potrebbe ridurre le risorse disponibili per la conservazione della natura e la gestione degli ecosistemi.

Nel 1962, John Calhoun, un giovane biologo statunitense, pubblicò su Scientific American un articolo concernente un suo esperimento. Calhoun aveva constatato che i topi immessi all’interno di un ampio granaio si riproducevano rapidamente ma, giunti a un certo punto, la popolazione si stabilizzava: i topi più anziani morivano perché era loro precluso dai più giovani l’accesso al cibo, mentre la maggior parte dei nuovi nati erano eliminati.