Sebbene proprio quest'anno cada il cinquantesimo
anniversario dalla stesura della Dichiarazione di
Helsinki, i principi che dovrebbe bilanciare i rischi e i
benefici generati dalla ricerca clinica, quella cioè che coinvolge esseri
umani, sembrano ancora muovere passi stentati. Questo almeno è quanto denuncia Rafael Dal-ré insieme ai suoi collaboratori in un recente
articolo pubblicato sul British Medical Journal.
Dal-ré suona il campanello di allarme soprattutto in difesa di quegli stati che
hanno redditi bassi o medi, i paesi (denominati LMICs)
che secondo la classificazione della World
Bank hanno un prodotto interno lordo pro-capite compreso tra
1.046 (o meno) e 4.125 dollari, cioè un PIL che arriva al massimo a 1000 euro
per persona.
Proprio la minor accessibilità alle cure che caratterizza questi
paesi potrebbe spingere le popolazione a cedere di fronte alle richieste di
multinazionali e case farmaceutiche, che riescono a portare avanti una ricerca
con la sola promessa di improbabili medicine a chi già si trova in una
condizione di bisogno, senza poi riuscire il più delle volte ad assicurare i
farmaci tanto decantati.
In base alle modifiche del 2013, la dichiarazione di Helsinki sembra perdere un
po' dei traguardi raggiunti nell'assicurare qualche beneficio accessorio anche
alle popolazioni che non hanno il potere di pretenderlo.
Chi potrà vegliare sul
fatto che benefici e rischi restino in equilibrio anche presso questi popoli?
La dichiarazione di Helsinki venne formulata la prima volta nel 1964 dalla
World Medical Association, con la finalità di stabilire linee guida per
condurre le ricerche in ambito medico, soprattutto quando l'uomo è coinvolto in
prima persona o in maniera indiretta, attraverso dati e materiali raccolti.
Nel corso del tempo però, quanto stabilito inizialmente ha subito numerosi
rimaneggiamenti, a causa di alcuni principi che, per la loro vaghezza, finivano
per non assicurare i giusti benefici soprattutto ai pazienti delle zone più
povere del globo. Se la versione originaria stabiliva semplicemente che i
trials clinici dovessero essere giustificati da un valore terapeutico per i
pazienti, la rielaborazione del 1975 teneva conto anche dei rischi cui i
partecipanti potevano andare incontro, chiarendo che questi dovevano essere
minimi.
Il riconoscimento di vantaggi per i paesi più poveri è stata una vera e propria
sfida e, per vedere scritto nero su bianco che coloro che si sottopongono ai
trials devono beneficiare dei risultati della ricerca, abbiamo dovuto attendere
le soglie del nuovo millennio.
Un passo avanti che però di fatto non ha assicurato benefici reali ai pazienti
in balia della ricerca, soprattutto quando si trovavano in una condizione
svantaggiata perché privi del potere di reclamare quanto gli dovrebbe spettare
di diritto.
Da una ricerca
condotta da Emma Cohen e collaboratori nel 2008, sulla base
dei trial clinici registrati nella banca dati statunitense Clinical Trials e nel
portale BioMed Central,
si nota che mentre i report finali degli studi clinici condotti nei paesi
ricchi riportano in misura maggiore gli standard di assistenza e l'adempimento
degli obblighi nei confronti dei pazienti, poco viene dichiarato per i paesi in
via di sviluppo. A questo si aggiunga il fatto che le possibilità di successo
dello studio sono in genere piuttosto scarse e quindi i benefici diretti della
ricerca sono dubbi e rari, mentre la probabilità che il paziente vada incontro
a morte è cinque volte superiore nei
paesi poveri rispetto a quelli ricchi.
Queste motivazioni poi non hanno fatto altro che accrescere l'importanza di
alcune considerazioni fatte 7 anni prima: nella riunione tra un gruppo di
esperti Occidentali e Africani venne stabilito che non fossero tanto importanti
i benefici diretti della ricerca, quanto il livello di benefici raggiunti
dall'intera comunità. Nei paesi LMICs tali vantaggi potrebbero includere
l'espansione dei servizi sanitari, la preparazione di equipe di medici e
infermieri, o lo sviluppo della ricerca o dell'assistenza medica.
Grazie a queste osservazioni, nel 2008 la dichiarazione
di Helsinki ha aggiunto un altro mattoncino per una difesa dei diritti dei
pazienti sempre più piena. Secondo questa modifica chi partecipava a studi
clinici doveva beneficiare non solo dei risultati diretti della ricerca, ma
anche di tutti quegli interventi e dell'assistenza identificati come adeguati
per il trattamento della patologia.
Cosa si attendeva dunque dalla dichiarazione del 2013? Mentre è usuale
aspettarsi che la maturità dischiuda sviluppi, avanzamenti, nuove possibilità,
in questo caso la dichiarazione ha fatto un passo indietro. Non solo non ha
definito quali e quanti benefici supplementari debbano essere offerti ai
pazienti dei trials, ma addirittura ha tolto quello che già era stato approvato
di diritto nel 2008. Infatti, dall'anno scorso spettano ai partecipanti degli
studi clinici solo gli eventuali risultati della ricerca, cioè il farmaco che
finisce (raramente) sul mercato. Gli altri vantaggi, di cui forse avrebbe
potuto beneficiare l'intera comunità, non sono più dovuti a chi corre dei
rischi in favore della ricerca.
Solo l'11% delle molecole che cominciano la fase II dei trials, quella in cui
il farmaco viene testato sui malati e in cui viene stabilita la dose, finiscono
poi sul mercato. A questo si aggiunga il fattore tempo: chi inizia un trial
clinico in fase II, prima di vedere il farmaco commercializzato deve attendere
in media 3 anni e mezzo. Ecco dunque cosa offre la dichiarazione di Helsinki
2013: un vantaggio improbabile e
procrastinato nel tempo.
Secondo il punto di vista di Del-ré, eliminare i benefici
o comunque non stabilire in cosa essi debbano consistere, serve solo a
aumentare lo sfruttamento delle comunità dei paesi in via di sviluppo. Ma
questa corrente di pensiero non è servita ad apportare modifiche alla
dichiarazione di Helsinki 2013 a causa dell'opposizione dell'Indian e della
South African Medical Associations, che giudicano i benefici elargiti dalle
case farmaceutiche come uno strumento di coercizione per reclutare più
partecipanti agli studi.
La questione dunque è tutt'altro che risolta e la giustizia nei confronti della
popolazione più povera viene lasciata al buon senso di investitori, ricercatori
e comitati etici.