Presentiamo il testo della relazione di Tomaso Montanari, Rettore dell’Università per Stranieri di Siena, all’incontro del 16 dicembre su "I rischi di ridimensionamento dell'università e della ricerca” organizzato insieme alla Rete delle Società scientifiche, a cui sono intervenuti i Rettori delle Università toscane e di Roma Tre, docenti, rappresentanti del sindacato, dei precari, dei dottorandi. La registrazione dell’evento è disponibile qui https://www.youtube.com/watch?v=ghqI8yEaFl0
Nel 2021, l’attuale vicepresidente eletto degli Stati Uniti d’America James David Vance ha pronunciato un celebre discorso intitolato Le università sono il nemico. Vi si esplicitava un punto essenziale del programma che ora attende di essere attuato: «Dobbiamo attaccare in modo aperto e aggressivo le università di questo Paese». In altre occasioni ha chiarito quale sia il modello: «Penso che il modo di fare di [Orbán] debba essere un modello per noi: non eliminare le università, ma dare loro la possibilità di scegliere tra la sopravvivenza e l'adozione di un approccio all'insegnamento molto meno parziale». Di fronte a questi e altri interventi analoghi, l’8 agosto 2024 l’Associazione americana dei professori universitari, fondata nel 1915 da John Dewey, ha emesso un duro comunicato, in cui si legge tra l’altro: «Sebbene gli attacchi all'istruzione superiore americana non siano una novità, ciò che sta nel progetto di una presidenza Trump-Vance offre uno scorcio spaventoso su un futuro autoritario che trasformerebbe i college e le università americane in fabbriche di controllo del pensiero, soffocando le idee, mettendo a tacere il dibattito e distruggendo l'autonomia. … Siamo in un momento cruciale che deciderà il futuro dell'istruzione superiore per i decenni a venire. I college e le università sono il fondamento della democrazia americana e il motore della mobilità sociale, dell'innovazione e del progresso. Non possiamo permettere ai fascisti di privarle di tutto questo. È il momento di combattere».
Ebbene, credo che queste parole così lucide e chiare – che interamente sottoscrivo – siano aderenti anche alla situazione italiana. Non tutti gli osservatori concordano sulla possibilità di un'involuzione autoritaria in senso fascista dell’Italia di oggi: ma è invece assai difficile negare che sia possibile anche per noi un esito ‘ungherese’. L’Ungheria di Victor Orbán è chiamata pudicamente democrazia illiberale, o postdemocrazia: qualsiasi cosa sia, non è più una democrazia, ma questo non le impedisce di rimanere tranquillamente nell’Unione europea. Ebbene, cosa è successo alle università ungheresi? Seguendo uno schema lucido e implacabile, nel 2014 è stata imposta a ogni ateneo la figura del ‘cancelliere’ di nomina governativa, che ridimensionava l’autorità del rettore eletto dalla comunità, assumendo pieni poteri su bilancio e personale; l’anno dopo, i consigli d’amministrazione universitari sono stati sostituiti da ‘concistori’ composti dal rettore, dal cancelliere e da tre personalità nominate dal governo su indicazione di organizzazioni professionali: già così l’autonomia universitaria era di fatto cessata, a favore di un controllo diretto del potere esecutivo. Nel 2017 è stata emanata una legge (poi dichiarata illegittima dall’Unione europea) che, limitando l’agibilità delle università straniere in Ungheria, mirava a colpire la Central European University, finanziata da George Soros, la quale si è dovuta trasferire a Vienna. Nel 2018 si è intervenuti sui contenuti: con un provvedimento inconcepibile, se non in uno Stato etico, sono stati esplicitamente proibiti gli studi di genere nelle università. Noto, per inciso, che anche da noi qualcosa si muove in questo senso. In seguito a una interrogazione parlamentare del leghista Rossano Sasso, il Ministero dell’Università ha aperto una «istruttoria» su un corso di Teoria queer che si era svolto all’Università di Roma 3 e all’Università di Sassari, e la ministra Bernini ha affermato che «La libertà di insegnamento deve comporsi con la tutela della dignità della persona, è necessario un equilibrio nel quale non possono trovare spazio percorsi ideologici che adombrino incitamenti a forme di pressione sui minori». È fin troppo evidente che la libertà del primo comma dell’articolo 33 della Costituzione non prevede bilanciamenti possibili, e che, aprendo questa istruttoria, il potere esecutivo ha compiuto un passo senza precedenti contro l’autonomia e la libertà delle università: il governo inizia a esercitare un controllo sulla libertà delle università, compiendo un altro inaudito passo verso il modello ungherese.
Nel 2019, l’Ungheria raggiunge il fondo dell’abisso, con l’introduzione di un modello unico al mondo, e dirompente: ventuno università sono state affidate a fondazioni istituite per legge, sottoposte a un ferreo controllo governativo (i loro organi direttivi sono stati riempiti di politici del partito al governo, in un primo momento nominati a vita…) e finanziate da fondi fiduciari aperti a capitali privati, mentre solo sei sono rimaste pubbliche: oggi il 64% degli studenti ungheresi si trova nelle università-fondazioni dirette sostanzialmente da Orbán. A questo punto l’Unione europea si è ricordata della sua Carta dei diritti fondamentali, che all’art. 13 stabilisce che «Le arti e la ricerca scientifica sono libere. La libertà accademica è rispettata»: così, il 15 dicembre 2022, il Consiglio dell'Unione europea ha deciso di sospendere il 55% degli impegni di bilancio a favore dell'Ungheria nell'ambito dei programmi della politica di coesione, e ha vietato alla Commissione europea di assumere impegni giuridici con enti ungheresi, a causa dalle preoccupazioni sulla sopravvivenza dello Stato di diritto in Ungheria. Quando il Parlamento europeo ha approvato una importante risoluzione che «esprime sgomento per la violazione persistente, sistematica e deliberata della democrazia, dello stato di diritto e dei diritti fondamentali in Ungheria, di cui il governo ungherese è responsabile», Fratelli d’Italia e Lega - cioè le due principali forze oggi al governo del nostro Paese – hanno votato contro, riconoscendosi – come Vance – in quel modello.
E io credo che sia esattamente ciò che sta in fondo al processo che è iniziato; che ha motivato il documento delle 122 società scientifiche; e che oggi ci richiama qua.
La strumentalizzazione delle proteste per il popolo palestinese (di fatto quasi totalmente pacifiche e democratiche, oltre che sacrosante) ha permesso a molti governi occidentali di avviare un giro di vito sulla indipendenza degli atenei. Da noi, il governo si è affrettato a costituire un gruppo di lavoro (cito il decreto) «per l’analisi di adeguati interventi di revisione dell’ordinamento della formazione superiore, al fine di incrementare il livello di efficienza della governance istituzionale, delle logiche di reclutamento e di gestione del personale docente nonché di razionalizzare l’offerta formativa», affidandone la presidenza a Ernesto Galli della Loggia, che aveva invocato una stretta contro queste università incapaci di mantenere l’ordine, suggerendo di tornare alla nomina (gentiliana) dei rettori da parte del ministro. Tutto questo ha assunto un’aria anche più minacciosa quando, il 4 giugno 2024, il Consiglio dei ministri ha approvato l’annuale disegno di legge che delega il governo a semplificare e riordinare determinate materie, includendovi, all’articolo 11, il mandato a una riforma pressoché totale del sistema universitario italiano, e creando quindi una commissione per la riforma della legge 240 esplicitamente lottizzata dalle forze di maggioranza, e popolata da una specie di museo delle cere delle più retrive concezioni dell’università. È a questo punto che si colloca il taglio più cospicuo degli ultimi decenni al finanziamento pubblico alle università, che combinato con l’addossamento ai bilanci degli atenei dello scatto stipendiale Istat, porta molti atenei (anche grandi atenei, anche al nord) tecnicamente ad un passo dal dissesto.
La ministra Bernini continua a smentire: la verità è che la quasi totalità delle università italiane nel 2025 (e forse nel 2026) non faranno assunzioni. La ministra è venuta in Crui a dirci che l'internazionalizzazione è la prima missione dell'università italiana: ma in queste condizioni, l'internazionalizzazione consisterà nel regalare una intera generazione di ricercatrici e ricercatori ad altri paesi. Ricordo che la ragione per cui la promozione della ricerca scientifica e tecnica fu collocata nella carta costituzionale (primo comma dell’articolo 9), fu un vibrante intervento del costituente Antonio Pignedoli, un fisico allievo di Gilberto Bernardini, che disse testualmente in assemblea costituente che doveva finire il vergognoso esodo dei ricercatori italiani, che avveniva per ragioni materiali, cioè di stipendi:, nel 2024 compiamo un passo indietro decisivo, dopo tanti altri passi indietro degli ultimi decenni, verso una situazione precostituzionale: cioè anticostituzionale.
Infine, la cosiddetta riforma del preruolo: ammesso che di riforma si possa parlare visto che naturalmente è a costo zero. Rispetto alla soluzione cosiddetta Verducci, si compie qua un drammatico passo indietro: un'involuzione, in cui appare addirittura, e in ben due forme, come un orribile revenant, la mitica figura dell’‘assistente’, accanto all’arbitrio da monarchia assoluta del ‘professore aggiunto’, segnando un clamoroso ritorno all’università feudale. Bisogna confessare che, in questo caso, il governo non ha fatto che recepire, pari pari, le pessime proposte di una commissione presieduta dall’ex rettore del Politecnico di Milano, ed ex presidente della Conferenza dei rettori, Ferruccio Resta. Non stupisce che, ascoltata in audizione al Senato nel novembre 2024, la Conferenza dei rettori abbia chiesto ancor più flessibilità e ancor più figure intermedie: cioè, di fatto, ancor più precariato. E rivendico di aver espresso la mia netta contrarietà, nell’ultima assemblea Crui, alla presenza della ministra Bernini. Per completare il quadro, ma non voglio rubare altro tempo, c’è il favor che si continua a mostrare alle università telematiche, imprese for profit appartenenti a fondi di investimento stranieri che hanno il pregio di produrre diplomi, non pensiero critico. E di avere studenti virtuali: che non possono scendere in piazza.
In conclusione, credo che il disegno politico che abbiamo davanti sia perfettamente leggibile. Affamare le università, aumentare il precariato, contrarre l’autonomia, limitare la libertà: per indurre le università a fondersi tra loro (sarà il prossimo passo, già annunciato); a trasformarsi in fondazioni; ad essere controllata dal capitale privato, e dal potere esecutivo.
Oggi parliamo dei rischi di ridimensionamento dell’università e della ricerca. Teniamo ben presente che stiamo parlando dei rischi di ridimensionamento della nostra democrazia, della nostra libertà personale e collettiva. Non siamo qua per difendere questa università, anzi vogliamo cambiarla radicalmente: ma nel senso della Costituzione, non della regressione illiberale e antidemocratica che così evidentemente si sta compiendo. Come hanno scritto le colleghe e i colleghi americani, «è il momento di combattere».