fbpx Urbanistica, nuove dimensioni per le città del futuro | Scienza in rete

Urbanistica, nuove dimensioni per le città del futuro

Primary tabs

Tempo di lettura: 6 mins

L'urbanizzazione è una tendenza in atto ormai quasi inarrestabile, non più una 'scelta'.
Per convincersene basta dare un’occhiata al grafico elaborato dalle Nazioni Unite che indica l’andamento nel tempo della popolazione mondiale divisa fra abitanti di città e periferie o zone agricole [1].

Fig.1 - Crescita della popolazione urbana e rurale 

Intorno al 2010, per prima volta, la popolazione rurale è diventata meno numerosa di quella urbana; le previsioni, inoltre, indicano che quest’ultima crescerà ancora, soprattutto a causa del contributo dei paesi di più recente industrializzazione. Città sempre più grandi, dunque, col rischio di una proliferazione incontrollata di immense periferie-ghetto, prive di verde e non adeguatamente fornite di supporti alla vita sociale [2]. Con la possibilità, inoltre, di erodere ulteriormente il poco suolo libero rimasto a forza di urbanizzazioni diffuse.

new urbanism e network science

Fra le teorie che hanno ipotizzato modelli di sviluppo in grado di conciliare la crescita della popolazione urbana con la riduzione del consumo di suolo e i disagi della civiltà, una si sta dimostrando originale e intrigante: il cosiddetto New Urbanism, nell’interpretazione, in particolare, dell’australiano Nikos Salingaros, docente di matematica all’Università del Texas e di architettura in varie università italiane, olandesi e messicane, classificato dalla prestigiosa rivista Planetizen all’undicesimo posto fra i 100 più grandi teorici dell’urbanistica di tutti i tempi [3].

Salingaros ha pensato a città grandi e densamente popolate, per consentire forti economie di scala, progettate, però, a partire da valutazioni di tipo scientifico piuttosto che da presunti equilibri formali, come ha fatto gran parte dell’architettura modernista [4]. Il ricercatore australiano ha definito quest’ultima, senza mezzi termini, “la negazione della geometria complessa e coerente delle forme naturali, e soprattutto proprio di quella geometria necessaria agli esseri viventi”. E ha dichiarato che, per valutare la bontà o meno di un’architettura, “c’è un solo criterio: il benessere fisiologico o psicologico che un utente può percepire dentro e di fronte all’edificio, sia abitandolo che frequentandolo per lavoro. L'ideologia o la mera contemplazione della bellezza e originalità dell'edificio - magari anche solo da una fotografia pubblicata su una rivista - non è garanzia sufficiente di qualità”.

Nella visione del New Urbanism i nuovi quartieri non dovrebbero più scaturire, dunque, da considerazioni astratte e puramente formali, com’è spesso accaduto con i piani regolatori generali, o ancora peggio dalle alzate d'ingegno dell’archistar di turno. Dovrebbero basarsi piuttosto su dati concreti e misurazioni, derivanti in particolare dall’analisi delle tante reti (della viabilità, delle relazioni, dei flussi di merci e così via) che interessano le città.

Ma perché è importante cominciare a guardare alle città in termini grafi o percorsi critici?
Le potenzialità dell’applicazione delle network science ai vari campi del sapere – fra cui l'urbanistica - sono state trattate da László Barabási (docente presso l'Università di Notre Dame e direttore al Centro di Ricerca Reti Complesse alla Northeastern University) nel testo Statistical mechanics of complex networks [5].

Qualche esempio

Fig.2 - Un diagramma di rete (fonte [6])

In un paper dal titolo Elementary processes governing the evolution of road networks [6], si può scoprire che l’ampliamento di una rete stradale è governato da regole relativamente semplici. Due sono i processi chiave evidenziati dal caso di studio (un’area di 125 km2 a nord di Milano): la densificazione, ossia l’aumento della densità locale di strade attorno a un centro urbano preesistente e l’esplorazione, la fase in cui le nuove strade hanno guidato l’evoluzione spaziale del fronte di urbanizzazione. La rete delle antiche strade, di origine romana o medievale, è andata infatti a costituire l’ossatura principale anche per i flussi di traffico o pedonali odierni. Piuttosto che seguire quanto pianificato in astratto dai piani regolatori generali, da questi studi emerge che le abitazioni e le attività produttive si sono addensate intorno alle vie di comunicazione maggiormente utilizzate ed efficienti. Lo sviluppo delle città sembra rispondere più a un modello di crescita paragonabile a quello per successive concrezioni di una barriera corallina,  che a un insieme statico di leggi e atti regolamentari.

Anche la mobilità necessita di un approccio diverso: lo ha mostrato lo studio Street Centrality and the Location of Economic Activities in Barcelona [7], anch’esso riconducibile alle teorie di Saligaros e Barabási e a un team di ricercatori guidato dagli italiani Sergio Porta e Emanuele Strano.

Che cosa vuol dire, infatti, oggi, essere centrali? Non solo essere fisicamente prossimi (closeness) a un nodo – monumento, parco, edificio, punto d’interesse in generale – ma anche costituire un punto di passaggio per altri (betweeness) oppure essere sempre raggiungibili tramite percorsi diretti (streigthness). Essere un oggetto rilevante da un punto di vista socio-economico, è, dunque, l’effetto combinato delle tre precedenti grandezze. Nel paper si è arrivati a questa conclusione studiando la correlazione fra centralità (in questo nuovo senso) e densità delle attività economiche nel capoluogo catalano.

Fig.3 - Correlazione fra tipologia di attività secondaria (nero) o primaria (bianco) e centralità nel caso di Barcellona.

Si vede così che, fra le attività del settore secondario (medie e piccole strutture di vendita, servizi) e centralità c’è una forte correlazione, mentre questa è molto minore se vengono considerate le attività del settore primario (industria, agricoltura, sanità, pubblica amministrazione).
Le attività primarie, infatti, sono sufficientemnte attrattive da far spostare le persone per raggiungerle, perché uniche nella zona o perché luoghi deputati per legge a certe attività. Le attività secondarie, al contrario, offrendo prodotti o servizi in modo non esclusivo o fortemente privilegiato, vengono fruite solo se raggiunte durante gli spostamenti fatti per altre ragioni, tipo il pendolarismo quotidiano casa-lavoro.
Nel caso di Barcellona, secondo i ricercatori, sarebbe meglio prevedere nuovi insediamenti commerciali fuori dal nucleo storico – a bassa centralità complessiva, pur in presenza di una closeness alta – perché dentro sarebbero sfavoriti dalla loro posizione, anziché favoriti come si sarebbe aspettato un urbanista tradizionale.

Città con milioni di abitanti, ma vivibili. Periferie connesse da sistemi di mobilità efficienti, ricche di spazi di aggregazione e di verde: questa è in buona sostanza la promessa del New Urbanism. Sicuramente è ancora troppo presto per dire che orientamento alla funzionalità e network science saranno le colonne portanti dell’urbanistica del futuro. E’ indubbio, però, che le esperienze di questo tipo hanno iniziato a moltiplicarsi (specie in Canada e negli Stati Uniti) e che questa è una delle poche idee veramente nuove emerse in architettura da molti anni a questa parte [8].

Bibliografie e referenze:

[1] Department of Economic and Social Affairs of the United Nations, “World Urbanization Prospects, the 2011 Revision
[2] Paolo Virtuani, “Tutte nel terzo mondo le megalopoli di domani”, Corriere Della Sera.it
[3] Serena Baldini, “Nikos Salingaros: imperialismo globale e antiarchitettura” 
[4] Nikos Salingaros (2007), ANTIARCHITETTURA E DEMOLIZIONE La fine dell’architettura modernista, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze
[5] Albert R, Barabási A L, 2002, “Statistical mechanics of complex networks”, Review of Modern Physics 74 47–97
[6] Strano, E. Nicosia, V. Latora, V. Porta, S. Barthelemy, M. (2012), “Elementary processes governing the evolution of road networks”, Nature Scientific Report
[7] Porta, S. Latora, V. Wang, F. Rueda, S. Strano, E. Scellato, S. Cardillo, A. Belli, E. Cardenas, F. Cormenzana, B. Latora, L. (2011), “Street Centrality and the Location of Economic Activities in Barcelona”, Urban Studies 0042-0980 Print/1360-063X Online
[8] Haya El Nasser, “How will the USA cope with unprecedented growth?”, USA Today, 27/10/2016


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

La COP29 delude. Ma quanti soldi servono per fermare il cambiamento climatico?

Il presidente della COP 29 di Baku, Mukhtar Babayev, chiude i lavori con applausi più di sollievo che di entusiasmo. Per fortuna è finita. Il tradizionale tour de force che come d'abitudine è terminato in ritardo, disegna un compromesso che scontenta molti. Promette 300 miliardi di dollari all'anno per aiutare i paesi in via di sviluppo ad affrontare la transizione, rimandando al 2035 la "promessa" di 1.300 miliardi annui richiesti. Passi avanti si sono fatti sull'articolo 6 dell'Accordo di Parigi, che regola il mercato del carbonio, e sul tema della trasparenza. Quella di Baku si conferma come la COP della finanza. Che ha comunque un ruolo importante da giocare, come spiega un report di cui parla questo articolo.

La COP 29 di Baku si è chiusa un giorno in ritardo con un testo variamente criticato, soprattutto dai paesi in via di sviluppo che hanno poca responsabilità ma molti danni derivanti dai cambiamenti climatici in corso. I 300 miliardi di dollari all'anno invece dei 1.300 miliardi considerati necessari per affrontare la transizione sono stati commentati così da Tina Stege, inviata delle Isole Marshall per il clima: «Ce ne andiamo con una piccola parte dei finanziamenti di cui i paesi vulnerabili al clima hanno urgentemente bisogno. Non è neanche lontanamente sufficiente.