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Vaccini e rischio Covid-19: uno studio dal progetto EPICOVID19

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Uno studio basato sulle risposte al questionario EPICOVID19 e pubblicato su Vaccines suggerisce una possibile associazione tra i vaccini anti-influenzale e anti-pneumococcico e una minor probabilità di risultare positivi al tampone per Covid-19. Saranno necessari ulteriori studi per confermare o meno questi risultati, ma intanto gli autori richiamano alla necessità d’impegnarsi sulle campagne vaccinali per il prossimo autunno e inverno. Crediti immagine: Persone foto creata da prostooleh - it.freepik.com

Tempo di lettura: 5 mins

I vaccini contro influenza e pneumococco nelle persone anziane si sono dimostrati non solo validi verso i loro target diretti ma anche in grado di fornire una protezione crociata e un effetto immunostimolante. Questa considerazione ha portato all’ipotesi che tali vaccini possano avere un effetto protettivo anche contro Covid-19; tuttavia, le prove a sostegno sono scarse, tanto che il sito dell’Oms scrive chiaramente che vaccini come quelli impiegati per prevenire le polmoniti non forniscono una protezione nei confronti di SARS-CoV-2. Allo stesso tempo, la possibile azione preventiva dei vaccini nei confronti di Covid-19 è un tema che merita di essere approfondito, anche in considerazione delle politiche vaccinali da portare avanti nella prossima stagione. È quanto fa uno studio recentemente pubblicato su Vaccines, che analizza i dati ottenuti dal questionario, online e volontario, EPICOVID19.

In particolare, i ricercatori, afferenti a diversi enti italiani, hanno valutato una possibile associazione tra il vaccino anti-pneumococcico e anti-influenzale e il rischio di un risultato positivo al tampone nasofaringeo per SARS-CoV-2. Dai dati raccolti emerge come le vaccinazioni, e soprattutto l’anti-pneumococcica, siano associate a un minor rischio di positività al tampone. Sebbene si tratti di uno studio osservazionale i cui limiti sono ben specificati dagli stessi autori, il risultato di questo studio può essere un importante punto di partenza per altre analisi, tanto più se si considera il rischio che le co-infezioni respiratorie pongono alle persone più anziane.

Tamponi e vaccini

EPICOVID19 è un questionario online e volontario messo a disposizione da aprile per investigare, sul territorio italiano, il numero di casi sospetti di Covid-19 e determinarne i fattori potenzialmente associati. Le risposte impiegate per lo studio appena pubblicato, oltre 198 mila, sono state raccolte tra aprile e giugno 2020 – ed è bene sottolineare da subito uno dei principali limiti del lavoro, correlato proprio ai partecipanti stessi. «Il campione è scarsamente rappresentativo della popolazione italiana in generale, soprattutto perché oltre la metà dei partecipanti avevano un titolo di studio pari alla laurea o un titolo superiore che, secondo i dati ISTAT, ha appena il 10 per cento degli italiani», precisa Stefania Maggi, direttrice di ricerca dell’Istituto di Neuroscienze del CNR, sezione di Padova, e co-autrice dello studio. «La modalità stessa di reclutamento, avvenuto attraverso diversi canali social (Whatsapp, Twitter, Facebook, Instragram) pone un bias di base, perché presuppone un minimo di abilità con le tecnologie. Allo stesso tempo, comunque, questo ci ha consentito di avere un vasto numero di risposte su cui lavorare».

Tra coloro che hanno partecipato al questionario, i ricercatori hanno selezionato chi si era sottoposto a un tampone nasofaringeo per SARS-CoV-2; quindi, hanno indagato se vi fosse un’associazione tra la positività (o negatività) di quest’ultimo con l’aver effettuato o meno un vaccino anti-influenzale e anti-pneumococcico nell’anno precedente. «Ciò che mostrano questi dati è che, tra le persone al di sotto dei 65 anni di età, il vaccino contro lo pneumococco è associato a una probabilità di avere un tampone positivo del 39 per cento minore rispetto a chi non ha fatto il vaccino; per chi ha superato i 65 anni di età, quindi la fascia più anziana del campione, la probabilità è ridotta del 44 per cento rispetto ai non vaccinati», spiega Maggi. «L’associazione fra tampone positivo e vaccino anti-influenzale è invece presente solo nella fascia più giovane del campione, per la quale la probabilità risulta ridotta del 15 per cento circa».

Nuove ipotesi, nuove indagini

«Naturalmente, abbiamo formulato alcune ipotesi che potrebbero spiegare questi risultati: per esempio, la scelta di farsi vaccinare potrebbe essere correlata anche a una maggior scolarizzazione, che a sua volta potrebbe accompagnare una maggior attenzione verso le norme di prevenzione per Covid-19», continua la ricercatrice. «E in effetti, abbiamo osservato che chi si fa vaccinare ha una scolarizzazione più alta rispetti ai non vaccinati e ha anche un maggior rischio di avere malattie croniche co-presenti. Questo per noi è già un risultato interessante dal punto di vista della sanità pubblica, dal momento che indica come, nonostante la vaccinazione sia un diritto di tutti i cittadini, in Italia la percentuale di chi si fa vaccinare resti bassa (nel campione analizzato, solo il 12 per cento circa degli over 65 e appena il 2 per cento dei più giovani era vaccinato per lo pneumococco), e limitata a persone ad alto rischio e con maggior scolarizzazione. Comunque, vaccinati e non vaccinati hanno definito il proprio stato di salute in modo equivalente e, ancora più importante, in particolar modo tra gli anziani, non abbiamo riscontrato differenze significative per quanto riguarda la loro frequenza di contatti con casi confermati di Covid-19. In altre parole, almeno per quanto riguarda il mantenimento delle distanze interpersonali, non sembrano esserci differenze tra vaccinati e non».

Un’altra ipotesi che potrebbe falsare i risultati ottenuti dai ricercatori riguarda le diverse politiche vaccinali e di copertura dei tamponi tra le Regioni italiane; ma anche in questo caso, spiega Maggi, i dati ottenuti al riguardo possono spiegare solo in parte l’associazione osservata.

«Il nostro non è stato uno studio analitico e, com’è noto, association is not causation. Inoltre, dobbiamo metterne in evidenza i limiti, in particolare la mancanza di un campione rappresentativo della popolazione italiana, in termini di età e di grado d’istruzione, che possono falsare i risultati. Questo tipo di studi osservazionali è però fondamentale per far nascere nuove ipotesi e quindi nuove indagini. Per esempio, i vaccini contro influenza e pneumococco sono pensati soprattutto per gli anziani, nei quali il sistema immunitario è più debole a causa sia dei fenomeni di immunosenescenza sia del cosiddetto inflammaging: potrebbe quindi essere importante valutare se gli adiuvanti dei vaccini, impiegati per migliorare la risposta immunitaria, possono avere un ruolo in termini di protezione crociata. O ancora, è possibile che chi è stato vaccinato, se infettato da SARS-CoV-2, sviluppi una malattia in forma meno grave e dunque sia testato di meno… Tutte ipotesi da indagare con studi dettagliati», continua ancora la ricercatrice.

Come Scienza in rete aveva già scritto (qui e qui), l’estensione della vaccinazione anti-influenzale a una fascia più ampia rispetto all’attuale bacino di utenza pone diversi dubbi. Anche gli autori dell’articolo evidenziano la necessità di concentrare l’attenzione sulle fasce più vulnerabili. «La coesistenza di malattie respiratorie, prevenibili con un vaccino, con Covid-19 potrebbe portare a situazioni disastrose dal punto di vista clinico, soprattutto per gli anziani e per chi soffre di altre patologie», conclude Maggi. «E il nostro lavoro si unisce al coro delle agenzie, governative e non, che richiamano alla necessità di programmi per aumentare, nei prossimi mesi, una copertura vaccinale che nel nostro Paese resta ancora bassa».

 

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