In questi giorni sembra di stare in una macchina del tempo: mentre Roger Federer e Rafael Nadal si contendono una finale del Grande Slam di tennis, riaprendo agli Australian Open il duello di dieci anni fa, in Italia si balza indietro addirittura a prima degli anni Novanta, reintroducendo un sistema elettorale proporzionale e tornando all’idea che il miglior modo per contrastare l’ostilità e la paura nei confronti delle vaccinazioni sia imporle, come si faceva fino a più di 25 anni fa. C’è davvero da sperare che funzioni, perché la tendenza ad avere sempre meno bambini vaccinati sul territorio nazionale è come una bomba innescata, da cui possiamo aspettarci da un momento all’altro un caso di poliomielite o altre piccole vittime di pertosse, morbillo o difterite. Una situazione alla soglia dell’emergenza, che per molti validi esperti giustifica una soluzione estrema. Eppure, come ho già spiegato su Scienza in rete, l’idea di allargare e far valere l’obbligo non mi convince, sebbene possa sembrare una facile scorciatoia rispetto ad altri tipi di interventi, altrettanto concreti, che a mio parere potrebbero produrre risultati migliori e più duraturi.
Nel precedente articolo, già avanzavo alcune perplessità sulla scelta della Regione Emilia Romagna, la prima a voler subordinare l’iscrizione al nido all’esecuzione dei vaccini cosiddetti “obbligatori”. Alcune di quelle obiezioni sono state superate da iniziative successive, come quella della Toscana, che ha esteso il provvedimento anche alle scuole dell’infanzia e soprattutto a tutte le vaccinazioni raccomandate dal nuovo Piano Nazionale di Prevenzione Vaccinale. La decisione, ancora più radicale, potrebbe avere dei meriti. Da un lato infatti smonta l’equivoco secondo cui i quattro vaccini storicamente obbligatori per legge (difterite, tetano, polio ed epatite B) siano per questo più importanti di altri: quello contro il morbillo, per esempio, o quelli contro la pertosse o la meningite da emofilo, che, pur essendo salvavita per i neonati, obbligatori non sono.
Questi ultimi due sono poi normalmente somministrati insieme ai quattro vaccini obbligatori con un’unica iniezione, detta esavalente, a cominciare dal terzo mese di età. Il preparato è un solo, indipendentemente dagli attributi giuridici delle sue componenti, perché pensato in funzione del bambino, in modo da ridurre il numero di punture e il carico di adiuvanti ed eccipienti. Mettendoli tutti sullo stesso piano ai fini dell’iscrizione ai servizi per l’infanzia, non si rischia di alimentare la richiesta, già avanzata da molte famiglie, di scorporare quelli formalmente obbligatori dai due che non lo sono. Un’obiezione che, se non ha senso dal punto di vista medico, ce l’ha invece dal punto di vista legale e potrebbe quindi dare il via in Emilia Romagna a una lunga serie di cause dall’esito incerto.
Infine, allargando l’obbligo alla scuola dell’infanzia, si evita di spostare solo più in là nel tempo la questione, caricando sulle spalle di nonni e baby-sitter per i primi tre anni la gestione dei piccoli non vaccinati. Il provvedimento non permette di escludere però, fino a che la frequenza alla materna resta facoltativa, che le famiglie si organizzino tra di loro in modo informale anche con i bambini più grandicelli, tenendoli tutti insieme ed esponendoli così al rischio di piccole epidemie fino all’ingresso alla scuola primaria. Qui entrerebbero comunque, però, dal momento che la giurisprudenza ha già sancito la prevalenza del diritto all’istruzione sull’obbligo di vaccinarsi.
La scoperta dell’acqua calda?
Ma è possibile che fosse così facile? Un problema su cui si scervellano da anni esperti di tutto il mondo, su cui l’Organizzazione mondiale della sanità ha stabilito commissioni e prodotto corposi documenti, basati sulla revisione sistematica di una ricca letteratura scientifica, si risolve in Italia con un semplice articolo di legge. Come mai nessuno ci ha pensato prima? È solo questione di coraggio?
Si dissocia dall’entusiasmo generale Giulio Gallera, assessore all’welfare di Regione Lombardia, che frena sulla possibilità di un accordo per introdurre l’obbligo in tutte le Regioni: “Non siamo assolutamente d'accordo perché riteniamo che gli obblighi non producono l'effetto di radicare nei cittadini la consapevolezza dell'utilità dei vaccini”. Anzi, se da un lato dà un segnale forte di unità e autorevolezza delle istituzioni a fianco della scienza e della medicina, dimostrando che non è affatto “divisa”, dall’altro rischia di esacerbare gli animi e irrigidire le posizioni. Il Codacons, come ci si poteva aspettare, ha già preannunciato di dare battaglia in tribunale. Quale sarà la reazione delle famiglie?
Il documento del comitato di esperti dell’Organizzazione mondiale della sanità sottolinea che la complessità della questione richiede di mettere a punto strategie tagliate su misura rispetto alla popolazione bersaglio, alle ragioni per cui esitano o ritardano a vaccinare i figli e al contesto locale specifico.
Vale quindi la pena di dare un’occhiata ai dati raccolti dalla Regione Veneto, la prima ad aver sospeso l’obbligo a partire dal primo gennaio 2008. Il dato che sorprese anche gli autori, nel corso della loro “Indagine sui determinanti del rifiuto dell’offerta del vaccinale”, fu che il panorama delle attitudini delle famiglie è molto più sfaccettato di quel che si pensa quando si parla, con un po’ di disprezzo, di “antivaxx”. Esiste, è vero, uno zoccolo duro, fortemente ideologico, di persone che non vaccinano i figli e che difficilmente possono essere convinti a farlo. Ma rappresentano una minoranza, intorno all’1 per cento di tutti i genitori, che difficilmente potranno minacciare l’immunità di comunità (per varie ragioni, che ci porterebbero troppo lontano, non voglio chiamarla “immunità di gregge”).
Solo poco più di un terzo dei genitori (il 37%) che non avevano vaccinato i loro figli, già una ristretta minoranza, dichiaravano allora di voler proseguire nella scelta. Tutti gli altri erano disponibili a riprendere in considerazione se non tutti i vaccini, almeno parte di essi.
Forse perfino più inattesi furono i risultati tra coloro che invece i figli li avevano vaccinati, con tutti o parte dei vaccini proposti. Già al momento dell’indagine, conclusa nel 2011, anche tra chi aveva seguito fedelmente le indicazioni dell’ASL, la stragrande maggioranza, si registrava un 15% di genitori dubbiosi, con profili molto simili a quelli di chi già avevano scelto di optare solo per alcune vaccinazioni e non altre.
La percentuale degli indecisi, quindi, sommando i tre gruppi, non era indifferente. Il terreno su cui lavorare, il target da raggiungere, non era trascurabile.
Non dispongo di dati più aggiornati (anche se la Regione Veneto ha in corso una nuova indagine), ma è verosimile che in questi anni, insieme al fronte del rifiuto, testimoniato dal calo delle coperture vaccinali (che, ricordo, non riguarda solo il Veneto, ma tutte le regioni, più o meno severe nel far valere l’obbligo), sia cresciuto anche quello del dubbio. Basta parlare con i genitori, di qualunque livello culturale, posizione politica ed estrazione sociale, per rendersene conto. Limitarsi a liquidare le paure di queste famiglie come “bufale”, etichettando questi genitori, spesso colti, o molto colti, come imbecilli, creduloni o delinquenti, che mettono a rischio la vita dei loro figli e di quelli degli altri, a me non pare una strategia efficace. Chi, avendo dei dubbi su un qualunque argomento, per esempio sugli effetti di un’antenna sul tetto della scuola o sui rischi legati a un impianto nucleare a pochi chilometri da casa, si farebbe convincere da qualcuno che gli si rivolgesse con questi toni?
La scelta di estendere l’obbligo è poi sostenuta da un approccio paternalistico alla medicina completamente superato da anni, che esclude a priori la possibilità del cittadino di informarsi e fare scelte consapevoli sulla propria salute e quella dei propri figli. Un passo indietro che non tiene conto di come la società sia cambiata in questi anni, e di quanto sia compromessa oggi la fiducia del pubblico nelle istituzioni.
Spesso si usa il paragone con quanto è stato fatto introducendo l’obbligo del casco o delle cinture di sicurezza. Si dimentica così tutta la scienza della percezione del rischio: non si può paragonare l’uso di un dispositivo come questi, esterni all’organismo, di cui è difficile immaginare possibili effetti collaterali, per quanto esistano, con l’iniezione, nell’organismo di un neonato, di sostanze prodotte dall’industria, su cui circolano leggende metropolitane che seminano paura anche nelle persone meglio disposte.
Che fare, allora? Il rinnovato impegno delle istituzioni in questo campo è già un primo passo, testimoniato dalla disponibilità a investire anche denaro, come conferma l’allargamento dell’offerta vaccinale prevista dal nuovo piano. Si potrebbe però fare qualcosa di più, su diversi fronti.
Qualche consiglio non richiesto
Il più importante, a mio parere, è quello degli operatori sanitari.
Già la FNOMCeO negli ultimi mesi ha dato un giro di vite nei confronti dei tanti, troppi medici, che continuano a sconsigliare pubblicamente le vaccinazioni o diffondono false idee al riguardo. Sono 120 solo quelli che si sono esposti firmando una lettera al Presidente dell’Istituto Superiore di Sanità. Sarebbe utile che si segnalassero anche coloro che regolarmente lo fanno dietro le scrivanie dei loro ambulatori, oltre che su internet, come mostra l’inchiesta trasmessa su La7 da Piazza pulita. Non è difficile per le ASL individuare i pediatri a cui afferiscono la maggior parte dei bambini tra cui si registrano rifiuti o ritardi nelle vaccinazioni. Dopo qualche richiamo, si potrebbe pensare almeno di sospendere la convenzione con il sistema sanitario nazionale di quelli che agiscono in contrasto con le linee di chi li paga, visto che dovrebbero agire a nome della collettività.
Molti medici poi, se non hanno frequentato corsi particolari dopo la laurea, non sono particolarmente aggiornati sugli enormi progressi fatti nel campo dei vaccini negli ultimi decenni. Solo ora qualche Università, come quella di Padova, sta cominciando a introdurre corsi specifici di vaccinologia. Credo occorra che questa materia invece faccia parte di tutti i piani di studi in materie sanitarie, e sia approfondita in maniera seria anche dalle ostetriche, una categoria di cui soprattutto le mamme si fidano moltissimo.
Mentre si vogliono obbligare i genitori a vaccinare i bambini, nessuno finora sembra inoltre preoccuparsi dello stato vaccinale degli operatori sanitari a diretto contatto con il pubblico in generale, ma soprattutto con le persone più fragili e immunodepresse. Si parla talvolta dell’opportunità di imporre la vaccinazione antinfluenzale, snobbata dalla maggior parte dei medici che la somministrano ad altri negli ambulatori o che rischiano di attaccarla ai loro malati già gravi in ospedale. Meno si tiene conto dell’antimorbillo-parotite-rosolia: quante istituzioni richiedono un certificato di vaccinazione, o impongono il vaccino, agli operatori che possono trasmettere il morbillo a un bambino leucemico o la rosolia a una donna incinta che curano come ginecologi?
E ancora. Perché parte dei fondi stanziati a questo scopo non vengono impiegati per potenziare i centri vaccinali? Gli operatori del Veneto attribuivano parte del calo delle coperture alla difficoltà di proseguire le attività di contatto attivo e dialogo con le famiglie. Se il personale è scarso e ci sono lunghe code, è difficile dedicare tempo a parlare con i genitori, rispondere con calma, per l’ennesima volta, ai loro dubbi, telefonare ai più reticenti e invitarli per colloqui dedicati. Questo credo sia l’investimento di cui si sente più bisogno: più personale, preparato specificamente non solo sui contenuti specifici dell’opposizione ai vaccini (perché non è vero che provocano l’autismo, o contengono metalli pesanti pericolosi, o combattono malattie già sparite), ma anche sulle modalità di comunicarli e soprattutto sulle trappole cognitive in cui cadono i genitori, per aiutarli a scoprirle ed esserne consapevoli.
La formazione dei genitori a questi temi dovrebbe iniziare, ma mi auguro che già lo sia, durante i corsi in preparazione al parto, ma si potrebbe trovare un momento per parlarne anche durante la degenza in ospedale, dopo la nascita del bambino. È importante che tutti questi incontri siano sostenuti da materiale informativo ben fatto, onesto e trasparente, che non neghi i minimi rischi legati alla vaccinazione, come a qualunque altra pratica medica, ma mostri con chiarezza quanto questi siano sproporzionatamente inferiori ai vantaggi.
Prima dell’obbligo di vaccinazione, anche per l’accesso al nido si potrebbe cominciare a rendere obbligatorio per l’iscrizione uno o più incontri (non conferenze frontali, ma sempre aperte al dialogo) con personale esperto su questi temi. E perché, nella stessa occasione, non allestire anche un punto di vaccinazione, o comunque, a seconda dei contesti, creare una corsia preferenziale che permetta al genitore di ritrovare al centro la persona con cui ha parlato in occasione dell’incontro? Insomma, di strade ce ne sono tante, e l’introduzione dell’obbligo non esclude che si possano seguire contemporaneamente anche altri approcci.
Anzi, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, gli interventi più efficaci sono quelli che agiscono su più fronti e che si basano sul dialogo con i loro destinatari. Aiuta, a questo proposito, ricordarsi che non si ha a che fare (non solo, per lo meno) con un manipolo di fanatici testardi che si rifiutano di usare il cervello, ma con genitori ansiosi, che non si preoccupano per i loro figli meno di quelli che li vaccinano e non desiderano altro che il loro bene: si tratta di far capire loro che i vaccini sono una preziosa opportunità che viene offerta loro. Difficile farlo imponendola dall’alto.
Cover: Edward Jenner vaccinating a boy. Oil painting by E.-E. Hillemacher, 1884. Wellcome Library, London.