Stefano Menna racconta la storia del vaccino ReiThera e degli ostacoli che ha incontrato durante il suo percorso, che non solo solo scientifici, ma anche organizzativi. Al rallentamento ha contribuito anche la forte concorrenza dei vaccini approvati prima, soprattutto quelli a mRNA, ma anche gli effetti di uno storico sottofinanziamento alla ricerca in Italia.
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Doveva essere la risposta italiana alle multinazionali del farmaco. Era stato annunciato come la soluzione per garantire al paese indipendenza vaccinale, che ci avrebbe reso autonomi dalle consegne dall’estero, spesso in ritardo rispetto alla tabella di marcia fissata dalla Commissione Europea. Con una capacità produttiva di quasi 10 milioni di dosi al mese, da settembre avrebbe dovuto garantire 100 milioni di dosi in un anno. E invece il percorso del vaccino messo a punto da ReiThera Srl, biotech con sede a Castel Romano specializzata in vettori adenovirali, ha subito una serie di intoppi che ne hanno compromesso lo sviluppo. E messo in dubbio la possibilità stessa di competere su un mercato che viaggia a velocità doppia, peraltro su una direttrice diversa (tecnologia mRNA) da quella scelta dall’azienda laziale (vettore virale).
Lo stop della Corte dei Conti
L’ultimo in ordine di tempo è stato il fermo imposto a maggio dalla Corte dei Conti, che ha bloccato il finanziamento pubblico per realizzare la fase 3 della sperimentazione del vaccino e avviarne la produzione industriale. In base all’accordo sottoscritto il 17 febbraio 2021 da ReiThera, ministero dello Sviluppo economico e Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa - Invitalia (società guidata dall’allora commissario straordinario all’emergenza Coronavirus, Domenico Arcuri), era previsto un finanziamento statale di 49 milioni di euro: 41,2 milioni a fondo perduto e 7,8 milioni di finanziamento agevolato. Da parte sua, ReiThera avrebbe investito 32 milioni. L'operazione prevedeva l'ingresso di Invitalia con 15 milioni nel capitale sociale della biotech (pari al 27% delle quote), grazie al Decreto Agosto che ha stanziato 380 milioni per acquisire quote di capitale di società impegnate su farmaci anti Covid.
L’iniziativa si è però dimostrata inconciliabile con la normativa vigente: come si legge nelle motivazioni della sentenza, l’investimento avrebbe dovuto essere finalizzato solo all’ampliamento della capacità di unità produttive esistenti, non alla realizzazione ex novo di un impianto di infialamento e confezionamento delle dosi, a oggi inesistente. Né poteva comprendere l'acquisto della sede operativa di Castel Romano, prevista invece dall’accordo per una spesa di 4 milioni di euro. Sede dove ReiThera svolge tutte le sue attività (non solo quelle per il vaccino anti Covid), che nel 2019 hanno riguardato ricerca e sviluppo per conto della società controllante svizzera Keires A.G.
I primi passi
In realtà, che la strada per il vaccino italiano fosse in salita era già evidente per i numerosi intoppi, burocratici e scientifici, emersi nei mesi scorsi. Ripercorriamoli rapidamente. Subito dopo lo scoppio della pandemia, forte della sua esperienza con piattaforma a vettori adenovirali, ReiThera disegna il suo vaccino GRAd-COV2 per il Covid-19: il vettore è costruito a partire dall’adenovirus di gorilla, modificato in modo da non replicarsi e contenente le informazioni genetiche per produrre la proteina spike di SARS-CoV-2, l’“uncino” che il coronavirus usa per infettare le cellule. Ideato, prodotto e brevettato da ReiThera nel tecnopolo di Castel Romano, il vaccino prevede una sola dose e si conserva in frigo: sulla carta offre quindi una serie di vantaggi produttivi e logistici. Il 31 luglio 2020, l’AIFA autorizza la sperimentazione di fase 1 di GRAd-COV2, per valutarne sicurezza e immunogenicità. Il progetto è sostenuto da un finanziamento pubblico di 8 milioni di euro, stanziati da Regione Lazio (5 milioni) e ministero della Ricerca e CNR (3 milioni), che vanno a sommarsi ai 12 milioni già investiti da ReiThera. A coordinare lo studio l’Istituto Lazzaro Spallanzani di Roma, con la partecipazione del Centro ricerche cliniche del Policlinico Giambattista Rossi di Verona.
Nel frattempo, però, la concorrenza galoppa: già a ottobre Pfizer-BioNTech, Moderna e Oxford-AstraZeneca consegnano alle autorità regolatorie i dossier sui trial realizzati per chiedere l’autorizzazione all’uso in emergenza dei propri vaccini. Tra dicembre e gennaio arrivano i via libera di FDA, EMA e AIFA; a marzo tocca a Johnson&Johnson. Il vaccino italiano invece arranca: il 5 gennaio 2021, allo Spallanzani, vengono presentati i risultati dello studio di fase 1 su circa 90 volontari. I (pochi) dati illustrati nelle diapositive dell’azienda non sono pubblicati su riviste scientifiche con peer review, scatenando le perplessità di diversi esperti (si veda il botta e risposta tra Enrico Bucci, ricercatore alla Temple University di Philadelphia, e il direttore scientifico dello Spallanzani Giuseppe Ippolito). Oggi, più di 6 mesi dopo quella conferenza stampa, non c’è un articolo scientifico al riguardo, neanche sotto forma di pre-print.
Nella “terra di nessuno” della sperimentazione
Poi a febbraio, come abbiamo visto, l’accordo economico con Invitalia. Ma intanto la campagna di immunizzazione va avanti con gli altri vaccini approvati, sotto la guida e l’organizzazione del nuovo commissario, il generale Figliuolo. A marzo inizia lo studio di fase 2 Covitar: 26 i centri clinici e oltre 900 i volontari coinvolti, per il cui tempo e impegno richiesto - si legge sul sito - è prevista un’indennità adeguata. Lo Spallanzani, pur mantenendo il coordinamento scientifico, non è più tra i centri che somministrano il vaccino. Poi, quando tutto sembrava pronto per passare alla fase 3, la doccia fredda della Corte dei Conti che blocca decreto e soldi.
Mentre l’iter si ferma, i volontari della sperimentazione rischiano di rimanere in una “terra di nessuno”. Ai vaccinati con ReiThera, infatti, non può essere riconosciuto il green pass perché il vaccino italiano non è stato autorizzato né da EMA né da AIFA. Chi ha ricevuto il placebo potrà ora vaccinarsi, ma come si dovranno comportare le centinaia di persone a cui è stato somministrato il preparato di ReiThera? Dovranno comunque aspettare mesi prima di potersi immunizzare con uno dei vaccini approvati, analogamente a chi ha superato la malattia? Nel frattempo, per viaggiare in Europa, entrare nelle RSA o partecipare a cerimonie ed eventi sportivi potranno ricorrere solo al tampone (valido 48 ore). Una situazione paradossale, simile a quella di molti connazionali che vivono e lavorano all’estero e a cui è stato somministrato uno dei vaccini cinesi o il russo Sputnik. E di cui le istituzioni dovrebbero farsi carico. «Al momento, al Comitato tecnico scientifico non è arrivata alcuna richiesta formale di parere», spiega Donato Greco, epidemiologo e membro del CTS. «Si tratta di una questione che dovrebbe essere affrontata, su richiesta del principal investigator dello studio, innanzitutto dal comitato etico del centro che coordina la sperimentazione, in questo caso lo Spallanzani. Potrebbero comunque applicarsi le stesse linee guida approvate per tutti i vaccinati con preparato a vettore virale come Vaxzevria (vaccino sviluppato da Oxford-AstraZeneca, ndr), che suggeriscono di ricorrere a una seconda dose con vaccino a mRNA (schedula vaccinale mista), a distanza di 8-12 settimane dalla prima», continua Greco.
Tempo e investimenti, due fattori chiave
Ma per ReiThera il rischio di arrivare fuori tempo massimo è ormai concreto. Come ha sottolineato il genetista Mauro Giacca del King's College di Londra, oggi è complicato sperimentare un vaccino in Italia dal punto di vista etico. I trial di fase 2 e 3 prevedono che, su oltre diecimila partecipanti, un certo numero riceva un placebo: un protocollo inaccettabile, essendo ormai disponibili alternative sicure ed efficaci. Uno studio di non inferiorità rispetto a quelli esistenti sarebbe fattibile, ma non semplicissimo, alla luce degli alti tassi di efficacia clinica dei vaccini autorizzati. Si potrebbe portare la sperimentazione ReiThera nei Paesi in cui la circolazione del virus è sostenuta e dove il tasso di copertura vaccinale è ancora basso, ma al prezzo di un notevole aumento dei costi. Un’ipotesi poco realistica, soprattutto dopo l’ultimo stop ai finanziamenti.
Se nella prima fase di disegno e progettazione del vaccino, l’azienda laziale è stata competitiva (del resto è il suo core business), nelle settimane successive lo sviluppo è stato molto più lento rispetto al ritmo frenetico sostenuto dalle multinazionali concorrenti. L’Europa ha cercato di far fronte comune tramite un approccio centralizzato degli acquisti. I negoziati con le aziende sono stati affidati in esclusiva alla Commissione, per assicurare l’approvvigionamento necessario per l’intera popolazione europea. In cambio del diritto ad acquistare un certo numero di dosi in un determinato periodo di tempo e a un prezzo stabilito, la Commissione copre parte delle spese e dei costi di avvio sostenuti dalle aziende: un anticipo sui vaccini che saranno poi acquistati dai singoli Paesi, che consente di ridurre il rischio di impresa, accelerare e aumentare la produzione.
Ma il confronto con gli Stati Uniti è impari: il programma americano pubblico-privato Warp Speed ha ricoperto le case farmaceutiche di miliardi di dollari in pochi mesi. A cui si aggiunge il gap cronico di infrastrutture e capacità produttive su ampia scala che scontiamo con l’altra sponda dell’Atlantico. Frutto di scelte di politica della ricerca, economica e industriale che vengono da lontano, ben prima della pandemia: decenni di mancati investimenti o addirittura tagli lineari. La debolezza politica ed economica dell'Europa, assieme alla forza e alla lungimiranza di Big Pharma nel settore dei vaccini, hanno deviato produzione, distribuzione e profitto verso gli Stati Uniti.
Un nodo italiano, ma anche europeo: non è un caso che nessun paese del vecchio continente, da solo, finora sia stato capace di produrre “in proprio” un vaccino. «Quello della capacità produttiva nazionale è un problema da affrontare e risolvere per le nuove possibili varianti che potrebbero emergere, certo. Ma soprattutto perché, dovendo sostenere ancora a lungo la campagna vaccinale, è impensabile dipendere completamente dagli Stati Uniti», sottolinea Donato Greco. «Produrre su licenza, come si è impegnato a fare l’Istituto Pasteur in Francia con i vaccini a mRNA, è una strada da percorrere. Per costruire, sulla base dell’esperienza e delle conoscenze acquisite proprio con il Covid, nuovi vaccini tecnologicamente più evoluti anche contro malattie come morbillo o epatite. Centri di eccellenza come quelli di Siena, Pomezia o Verona hanno potenzialmente il know how e le capacità industriali per farlo».
Quale futuro?
Non secondaria è appunto la questione della tecnologia utilizzata. Il futuro dei vaccini sembra a mRNA, in particolare per la loro flessibilità e rapida adattabilità. Una scelta di campo avallata dalla Commissione Europea, che non ha rinnovato il contratto con AstraZeneca e ha invece avviato la trattativa per la fornitura di altre 1,8 mld di dosi del vaccino Pfizer fino al 2023. «L’arrivo dei vaccini a mRNA segna una svolta epocale, è come il passaggio dall’analogico al digitale», spiega ancora Donato Greco. «Una politica vaccinale fisiologica almeno per l’occidente, che si può permettere di scegliere soluzioni prive di effetti collaterali gravi», continua Greco. «Ben diverso lo scenario dei paesi in via di sviluppo, sia per il quadro demografico, sia perché il rapporto costi-benefici per i vaccini a vettore virale è enormemente vantaggioso dove non ci sono alternative. E poi i costi, nettamente inferiori: per esempio, il rapporto tra AstraZeneca e Moderna è quasi di 1 a 20 dollari a dose».
Se mai il vaccino ReiThera arriverà sul mercato, per essere davvero competitivo, dovrà comportare vantaggi o avere caratteristiche innovative che al momento non si riescono a scorgere. Più che un’occasione di rilancio per la ricerca made in Italy e per nuovi investimenti nell’industria farmaceutica, sembra l’ennesimo caso di mancata messa a sistema e dispersione di risorse e competenze. «Per le sue peculiarità, ReiThera potrebbe essere un vaccino da utilizzare proprio nei paesi in via di sviluppo. Un contributo comunque fondamentale, nella lotta globale alla pandemia. Ma se le stesse forze fossero state concentrate sullo sviluppo di una piattaforma a mRNA, oggi probabilmente avremmo un risultato diverso», conclude Greco.