Sul fatto che viviamo non c’è tanto da discutere. Al di là dei capricci di qualche genio maligno, che il mondo sia pieno di «infinite forme bellissime e meravigliose» è un’evidenza contro cui anche il più incallito degli scettici avrebbe poco da ribattere. Si dirà, se è vero che ci sono dei viventi è altrettanto vero che c’è della vita. Se è un’ovvietà dire che esistono delle forme viventi sarà un’ovvietà ancora più grossolana dire che esiste la vita. Eppure no. Nel leggere La Vita, un’invenzione recente scopriamo infatti che prima di Darwin la vita non esisteva. Prima di Darwin il mondo pullulava di batteri, pesci, mammiferi, cetacei, uccelli e persino di ornitorinchi, ma di vita proprio non ce n’era. C’erano sì i viventi (e come negarne l’esistenza?), ma della vita proprio non c’era alcuna traccia. Lo so, vi sembrerà un paradosso, ma proprio questo è il bello. I filosofi servono anche a questo, sono bravissimi a problematizzare l’ovvio. E Davide Tarizzo, docente di Filosofia Morale preso l’Università di Salerno, è un filosofo di razza. Se, sulla scia di Foucault, ci suggerisce che la vita è un’invenzione moderna, c’è da fidarsi.
Con gesto provocatorio, Tarizzo ci dice che per capire la rivoluzione darwiniana non basta partire da Linneo, da Buffon o da Lamarck, ma bisogna partire da Kant. Eh sì, il pensatore più prossimo al teorico dell’evoluzione per selezione naturale è il teorico dell’imperativo categorico. Se il filosofo tedesco ha fondato l’autonomia della volontà, fissando con ciò stesso il crisma della modernità, il naturalista inglese ha fondato l’autonomia della vita, fissando con ciò stesso il crisma dell’epoca contemporanea. «Detto altrimenti, nella teoria darwiniana noi vediamo all’opera lo stesso modulo speculativo che già era all’opera nella teoria kantiana della volontà. Il modulo in questione è quello dell’aseità, un modulo speculativo che pone al centro della sua intelaiatura argomentativa l’ipotesi di un Sé, ora la volontà ora la vita, che istituisce se stesso, ora volendosi ora vivendosi, e si risolve tutto in questa autoistituzione, in questa autonomia». L’imperativo categorico e la selezione naturale sono quindi costruzioni tenute insieme dalla stessa forza: «così come la volontà obbedisce solo a se stessa, secondo Kant, e tale è il senso autentico dell’imperativo categorico, parimenti la vita dovrebbe obbedire solo a se stessa, secondo Darwin, e tale dovrebbe essere il senso autentico della selezione naturale».
La vita, questa forza astratta necessariamente presente in ogni esistenza concreta, è né più né meno che il nome che noi moderni diamo al fatto della selezione naturale. Prima della sua “invenzione” da parte di Darwin, il fenomeno vita era l’espressione di una volontà superiore e intelligente, per cui “vita” era sinonimo di pienezza di forme, ognuna ordinata per gradi secondo una intangibile graduatoria che da quella meno perfetta conduceva inevitabilmente e senza soluzione di continuità a quella più perfetta. Prima che l’idea della selezione naturale facesse la sua comparsa sul palcoscenico del pensiero biologico, la vita si esauriva dunque nelle tassonomia delle sue forme, c’erano degli organismi e nulla più. Con Darwin invece le cose cambiano notevolmente. Ѐ solo con Darwin che si comincia a pensare alla vita come una forza dinamicamente protesa alla sua costante redenzione ed evoluzione. In questo senso, suggerisce Tarizzo in un accostamento che è uno dei momenti più riusciti e interessanti del suo “lungo ragionamento”, Darwin si pone sulla scia di Schelling, che per primo dona alla parola vita una nuova semantica per cui essa non indicherà più necessariamente un singolo vivente ma comincerà a indicare la forza astratta che ogni volta lo precede e lo pone in essere.
In un crescendo di sorprendenti rimandi tra biologia e filosofia (anche se pagina dopo pagina si tocca con mano che differenziare i due ambiti è solo una questione di sfumature), si assiste infine anche a uno stimolante confronto tra la biologia darwiniana e la tanatologia freudiana, alla ridefinizione della questione dell’identità alla luce dell’”ultradarwinismo” dawkinsiano e, in dialogo con Daniel Dennett, alla rielaborazione del concetto di libertà. Senza che ve ne accorgiate questo libro salderà molti dei vostri debiti con la filosofia.