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Vittorio Carreri: l’epidemia si combatte anche sul territorio

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Luca Carra parla di Covid-19 con Vittorio Carreri, che ha guidato la prevenzione pubblica della Regione Lombardia dal 1973 al 2003, affrontando l'emergenza diossina di Seveso nel 1976 (nell'immagine), e la messa in sicurezza della regione dopo Chernobyl. "Rispetto al Veneto e all'Emilia Romagna, in Lombardia l'assistenza domiciliare dei malati è stata molto inferiore e non ha saputo arginare il numero di ricoveri, dove il contagio si è diffuso ulteriormente. Senza una potente prevenzione e una adeguata sanità sul territorio la guerra al virus è più dura e fa più vittime".

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Ha guidato la prevenzione pubblica della Regione Lombardia dal 1973 al 2003. Nel ’73 è ancora consigliere al comune di Mantova in quota Partito comunista italiano. Ma è un assessore regionale democristiano, Vittorio Rivolta, a volerlo a Milano a dirigere i servizi di prevenzione della Regione. Stiamo parlando di Vittorio Carreri, igienista, 84 anni. Quello che ha messo in piedi i 15 Dipartimenti di prevenzione lombardi. Che ha affrontato l’incidente di Seveso nel 1976. Che è tornato in prima linea nel 1986 per mettere in sicurezza la regione dopo il disastro di Chernobyl. Ora, nel suo appartamento milanese, Carreri segue con attenzione i dati della nuova epidemia in cerca di una spiegazione della catastrofe lombarda.

Quali dati la fanno più riflettere?

In Lombardia solo il 40% delle persone infette sono isolate in casa, mentre in Veneto sono tra il 65 e il 70%. Basta questo dato per far cogliere la differenza fra sistemi sanitari: uno centrato sugli ospedali, l’altro sulla sanità territoriale. È evidente che se non c’è una rete di medici di famiglia e altri servizi territoriali pronti all’emergenza, i positivi venga spediti in ospedale, contribuendo a ulteriori infezioni, all’intasamento delle terapie intensive e a una mortalità maggiore.

Perché ci sono differenze regionali così marcate di fronte allo stesso virus? Non ci dovrebbero essere criteri uniformi di assistenza in Italia?

La Regione Lombardia ha fatto a pezzi la sanità pubblica con la legge 23 del 2015 in cui pubblico e privato sono stati equiparati, laddove la legge di riforma nazionale prevedeva che il privato avrebbe dovuto integrare quello pubblico, non concorrere con esso ad armi impari. L’ultima legge di programmazione ospedaliera risale al 1974. Le Unità socio-sanitarie locali istituite con la legge 833 del 1978 sono diventate nell’ultima versione lombarda aziende. I 15 Dipartimenti di prevenzione da me istituiti, che tenevano insieme igiene pubblica, prevenzione negli ambienti di lavoro, alimenti, sicurezza nutrizionale, prevenzione nelle comunità e veterinaria (tre nella sola Milano), sono diventate otto agenzie, di cui una sola per tutta l’area metropolitana milanese di 3,5 milioni di abitanti! Da 15 siamo passati a 3 laboratori di sanità pubblica (PMIP). In Lombardia la sanità pubblica e la prevenzione sono state fiaccate, l’assistenza sul territorio disarticolata. Credo che questo abbia un peso su quello che sta accadendo oggi.

Perché è importante seguire i malati sul territorio? In fondo la Lombardia ha ospedali di eccellenza, normalmente cura gente che arriva da tutta Italia, mentre ora le tocca mandare malati di Covid-19 in altre regioni.

La sanità non è solo medicina. È assistenza, attenzione ai determinanti sociali e ambientali dei diversi luoghi. La sanità territoriale è fondamentale e si deve garantire la massima tempestività di informazione dei casi sospetti e positivi in modo da garantire con altrettanta tempestività l’appropriato ricovero ospedaliero, l’isolamento domiciliare e il suo controllo, e il controllo dei contatti stretti con immediati supporti ai medici di medicina generale e ai Dipartimenti di Prevenzione. Come è noto in Lombardia non ci sono più i distretti nella accezione della legge 833 e i Presidi locali (ambulatori extra ospedalieri in collegamento con i medici generalisti) sono ancora pochissimi.

Però i medici di base ci sono. Non sono abbastanza?

I MMG non sono stati supportati e i dipartimenti di prevenzione hanno avuto estensioni territoriali enormi, come quello di Milano. Una significativa destrutturazione e impoverimento del settore non ha consentito di rispondere adeguatamente. A questo si aggiunge il fatto che l’epidemia, alla quale non eravamo preparati, ha lasciato sul campo molti medici e operatori sanitari. La concentrazione dei ricoveri in ospedale con medici insufficientemente dotati di dispositivi di protezione ha diffuso il contagio. I dati dell’istituto Superiore di Sanità relativi al 13 marzo dicono che in Italia su 19.941 casi positivi ben 1.674 pari al 8,4% erano personale sanitario. In Regione Lombardia su un totale (sempre al 13 marzo) di 9.820 casi ben 1.089 (11%) erano sanitari. La rapida avanzata dei casi ha messo sotto stress il sistema. Il Dipartimento di prevenzione di Milano (competente anche per Lodi) ha avuto molti dei suoi collaboratori contagiati, ricoverati e in quarantena con riduzione della sua operatività già ridotta nell’ultimo decennio.

Come mai questa concentrazione di casi a Bergamo e Brescia? Peraltro il sindaco di Bergamo segnala molti morti anche a domicilio, gente che nemmeno ha fatto in tempo a raggiungere l’ospedale.

Difficile rispondere. Le caratteristiche sociali del territorio, specie di Bergamo e Brescia, e la penetrazione del contagio in Val Seriana, possono avere influito. Già nel 1973 in uno studio che avevo condotto sulle malattie infettive aveva osservato un tasso di infezioni epatiche nella provincia di Bergamo doppio rispetto alle altre province, e già allora mi domandavo cosa non andava in quella provincia. Ora viene adombrato una possibile maggior virulenza dei virus circolanti, ma io credo che ci siano anche fattori socio-ambientali specifici di quel territorio vallivo, sede di attività produttive e molta mobilità, con una sanità indebolita.

Vittorio Carreri.

Cosa si può fare ora?

Sono stato coinvolto da amici e colleghi in una proposta di rafforzamento del ruolo dei medici di medicina generale basato sulla telemedicina. Anche in Lombardia dal 1994 si è diffuso un modello di medicina generale organizzata in ambulatori con medici, infermieri e segreteria. Questa è la prima linea, non gli ospedali, nella gestione sia dei malati cronici, sia adesso dei malati di Covid-19. Seguire in sicurezza parte dei pazienti al domicilio e in remoto (sia con sintomi dubbi, sia Covid positivi ma stabili, sia in quarantena) può sgravare gli ospedali in questa terribile emergenza.

Quale esperienza della sua vita le ricorda quello che stiamo passando in queste settimane?

Né Chernobyl, né soprattutto Seveso sono state delle passeggiate. Ricordo anche la notte del 23 novembre del 1980, quando c’è stato il terremoto dell’Irpinia. Siamo partiti immediatamente come squadra di sanitari della Regione Lombardia, dove siamo rimasti - pensi lei - un anno. Mille persone, fra medici, infermieri, tecnici e ingegneri… Cosa voglio dire con questo? Che la sanità pubblica e i dipartimenti di prevenzione della Lombardia sono stati un vanto per il Paese, e alcuni suoi aspetti innovativi sono stati estesi al territorio nazionale. Che questa sia l’occasione per ripensare il sistema e ricostruirlo.

Alla fine dell’intervista Vittorio Carreri mi mostra la medaglia d’oro al merito della Sanità pubblica, conferitagli da Carlo Azeglio Ciampi nel 2003. «Arrivato a Roma, mi son presentato davanti al Quirinale chiedendo a un Corazziere dove si entrava per andare dal presidente. All’inizio mi ha guardato stranito, poi mi ha fatto entrare dal portone principale. Non sapevo perché mi avessero convocato, temevo che volessero arrestarmi (ride), invece era per una medaglia». Che recita:

Per i meriti acquisiti nella lunga carriera svolta con alto senso dello Stato e spirito di sacrificio in qualità di manager del servizio di prevenzione sanitaria in campo nazionale e regionale, concorrendo alla soluzione di numerose problematiche igienico-sanitarie e distinguendosi per l’opera di soccorso offerto alla popolazione di Seveso invasa dalla diossina fuoriuscita dallo stabilimento chimico

 


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