Nella cattedrale milanese, indossando la mascherina per tutto il tempo, vi ha assistito Sergio Mattarella, su una sedia in prima fila, sempre perfetto nel suo esserci senza apparire.
Nessun’altra scelta di luogo o di programma avrebbe potuto essere più appropriata, più simbolicamente e, al tempo stesso, fisicamente lenitiva degli animi scossi da tanti lutti passati e da tante preoccupazioni future.
Giuseppe Verdi è vissuto dove più ha infuriato il SARS-CoV-2: è nato il 10 ottobre 1813 a Le Roncole di Busseto, da un oste e da una filatrice e, divenuto famoso, quando non viaggiava abitava nel podere di Sant’Agata in provincia di Piacenza, con Giuseppina Strepponi. Da vecchio, rimasto vedovo, preferiva alloggiare durante l'inverno nell’albergo Grand Hotel et De Milan, così vicino alla Scala e lì si è spento, il 27 gennaio del 1901; nei sei giorni di agonia che precedettero la morte, i milanesi foderarono di paglia la via Manzoni, sotto la sua camera, affinché le carrozze, passando, facessero meno rumore. Tanta era la devozione popolare per un uomo che, nato quando la pianura padana era appena stata persa da Napoleone per tornare sotto il dominio dell’Austria, aveva incarnato il fervore e la spinta all’unità nazionale. E tanta era la popolarità della sua musica (canticchiata e riprodotta dagli organetti per le strade) che interpretava e nobilitava l’amore e il dolore, i sentimenti di tutti: chi scriveva quella musica aveva provato lo strazio della perdita estrema, quando, nel 1840, una delle malattie (morbillo o, forse, tifo) che allora uccidevano un bambino su quattro, portò via, in rapida successione, i due figli piccoli e la loro madre ventiseienne.
Verdi scrisse la Messa da requiem per il primo anniversario della morte di Alessandro Manzoni, che egli “venerava” come scrittore e come patriota; le più belle di tutte la sue bellissime note echeggiarono per la prima volta il 22 maggio 1874, nella chiesa di san Marco.
Il musicologo suo contemporaneo Eduard Hanslick così rispondeva a chi accusava Verdi di non aver dato alla composizione il necessario tono mistico: “Ciò che appare così passionale e sensuale nel Requiem di Verdi deriva dalle tradizioni emotive della sua gente e gli italiani hanno tutto il diritto di poter parlare a Dio nella loro lingua!” Così come quello di altri musicisti, il Requiem di Verdi è un concerto drammatico, in forma di oratorio, non eseguibile come messa; Verdi vi ha anche aggiunto parti che non fanno parte della liturgia ecclesiastica, ma dell'ufficio della sepoltura: Libera me domine de morte aeterna in illa die tremenda…Dies illa dies irae calamitatis et miseriae dies magna et amara valde. E tali parole sono risuonate nelle volte del Duomo di Milano come un risarcimento per tutte le sepolture di cui i lombardi sono stati defraudati dall’esplodere dell’epidemia.
Il testo del Requiem nel rito ambrosiano presenta alcune differenze rispetto a quello del rito romano, come l’omissione del Dies irae e l'assenza del Christe eleyson; tuttavia, Verdi, che pure la componeva in onore di Manzoni, assiduo frequentatore del rito ambrosiano, si adattò a rappresentare la messa, a Milano, secondo la tradizione del rito romano, come se la sua intenzione fosse di uscire dai confini del proprio territorio e di aprirsi all’intera Italia unificata.
Proprio l’universalità è la forza della musica di Verdi: essere espressione diretta e genuina della gente che abita le terre bagnate dal Po (quante risonanze verdiane si trovano nelle canzoni di montagna e in quelle della Grande guerra!), e, al contempo, la colonna sonora di tutta la storia italiana, ma capace di far vibrare le corde emotive dell’intera umanità, a guardare la nazione di provenienza di chi studia e canta le sue opere.
Questa è la cura offerta dall’ascolto del Requiem di Verdi: la catarsi dell’angoscia di fronte all’ignoto, nella confessione della propria debolezza, ma anche la ritrovata consapevolezza che lo spirito umano, seppure il corpo vi può soccombere, sarà sempre più forte di uno stupido pezzetto di RNA.