fbpx Intervista a Walter Ricciardi | Scienza in rete

Walter Ricciardi: ancora due settimane dure, possibile catastrofe negli USA

Primary tabs

n--

L'intervista a Walter Ricciardi, consulente del Ministero della Salute, sulla gestione dell'emergenza Covid-19 in Italia: perché era necessaria la chiusura a livello nazionale? Perché vi sono differenze di mortalità così accentuate fra l’Italia e altri Paesi? E che previsioni possiamo fare a questo punto?

Tempo di lettura: 6 mins

Abbiamo raggiunto al telefono Walter Ricciardi, consulente del Ministro della Salute, di fatto la figura più di spicco nella complicatissima gestione dell’emergenza coronavirus in Italia.

La prima inevitabile domanda è: era proprio necessaria la chiusura di tutta l’Italia disposta dal decreto di ieri?

Sì, la chiusura era necessaria. Quella precedente che coinvolgeva solo Lombardia e alcune alte provincie dell’Emilia Romagna, Veneto e Piemonte era stata fatta alla luce di tre criteri: il primo era il tasso di incidenza cumulativa per 100mila, che sostanzialmente vedeva la dinamica dei casi aumentare oltre una certa soglia. La seconda era lo sviluppo di una circolazione autoctona del virus, quindi non riconducibile ai focolai originali ma caratterizzata da uno sviluppo locale molto forte. La terza era la vulnerabilità geografica. Applicando questi tre concetti è stato redatto il primo decreto, che aveva avuto alcune resistenze per esempio da parte dei veneti. Ma in realtà questi tre elementi, insieme al movimento di persone assolutamente inconsulto e incontrollato dal Nord al Sud (dopo la diffusione del primo decreto, ndr.), ha suggerito che l'epidemia che si stava verificando nelle regioni del Nord si potesse espandere al resto del territorio.

L’aver esteso il provvedimento a tutta Italia ma aver aperto le zone rosse più circoscritte, come quella di Codogno, non rischia di far circolare più persone da aree a rischio in altre aree che lo sono meno?

Quello che stava succedendo nelle zone rosse era che la curva epidemica si stava appiattendo e che era addirittura superata dalla curva epidemica delle altre zone, quindi non aveva senso tenere blindate le vecchie zone rosse. Quindi o si faceva un blocco fisico sostanzialmente come Wuhan dell’intera area geografica precedente oppure non aveva senso. È chiaro che si trattava di trovare un equilibrio delicato fra attenzione e democrazia.

Molti si chiedono perché vi siano differenze di mortalità così accentuate fra l’Italia e altri paesi che cominciano a registrare un certo numero di contagi ma proporzionalmente meno morti, come la Corea del Sud, la Francia e la Germania. Al momento siamo in linea solo con l’Iran.

Questo lo si spiega con un insieme di fattori. Il primo è che noi in questo momento probabilmente sovrastimiamo la mortalità perché mettiamo al numeratore tutti i morti senza quella maniacale attenzione alla definizione dei casi di morte che hanno per esempio i francesi e i tedeschi, i quali prima di attribuire una morte al Coronavirus eseguono una serie di accertamenti e di valutazioni che addirittura in certi casi ha portato a depennare dei morti dall’elenco. Di fatto capita che accertino che alcune persone siano morte per altre cause pur essendo infette da coronavirus. Noi invece, per i noti motivi di decentramento regionale, ci atteniamo a classificazioni dettate dalle regioni e soltanto nell’ultima settimana stiamo cercando di introdurre un correttivo con una valutazione da parte dell’Istituto Superiore di Sanità, che però non ha a disposizione le cartelle cliniche e quindi fa fatica a entrare nel merito. Tutto il meccanismo insomma è estremamente farraginoso. L’ISS, in altre parole, per il decreto ha il potere di investigare ma deve mandare i NAS per avere le cartelle. Non so se mi spiego… Peraltro il carattere maniacale dell’accertamento delle cause di morte presente in altri Paesi europei ha chiare motivazioni di reputazione e di comunicazione.

La seconda ragione di un tale differenza di mortalità fra noi e gli altri dipende dal fatto che noi la sovrastimiamo perché al denominatore mettiamo soltanto i casi positivi come definiti dall’organizzazione Mondiale della sanità, mentre se comprendessimo tutti quei soggetti che stimiamo essere positivi la mortalità risulterete molto inferiore. I cinesi, per esempio, che nella seconda fase dell’epidemia (fuori dalla provincia di Hubei, ndr.) hanno cercato di fare test diagnostici a tutti, hanno rinvenuto una letalità che oscilla fra il 2 e il 3 per cento.

Un altro elemento della maggiore mortalità italiana dipende dalla nostra demografia, basti dire che l’età media dei pazienti cinesi ospedalizzati è di 46 anni, mentre la nostra è molto più alta. È chiaro che l’età più avanzata è un elemento predisponente a una maggiore mortalità. Infine, ma non per importanza, c’è il fatto che questa mortalità è particolarmente alta in Lombardia, dove ormai il sistema sanitario è veramente sotto stress, per usare un eufemismo. Quando hai Terapie Intensive particolarmente stressate in termini di quantità e di qualità dell’assistenza fai tra virgolette più morti.

Mi sembra che in Italia ci sia un tasso molto alto di ricoverati, circa il 50% dei casi. È proprio necessario ricoverarli tutti? Sono tutti così gravi?

Quello che ci deve far riflettere è che noi probabilmente non abbiamo una forma di soccorso intermedio rispetto al ricovero che hanno predisposto invece in Cina. I cinesi hanno allestito zone di assistenza a bassissimo contenuto tecnologico, veri e propri capannoni in cui assistevano le persone con un primo intervento. La combinazione dell’età più giovane dei pazienti e il fatto che si dava assistenza respiratoria quasi a tutti ha consentito di assistere grandi quantità di pazienti in ambienti non ospedalieri. Noi non abbiamo - e speriamo di non dover avere bisogno - di questo modello intermedio. O ricoveriamo o mandiamo a casa.

Appunto, ma non potremmo lasciare a casa una parte di questi pazienti?

Non possiamo tenerli a casa quando cominciano ad avere qualche problema respiratorio, che per noi vuol dire ricovero in terapia subintensiva o intensiva. Potremmo se necessario allestire anche noi ambienti intermedi dove garantire l’assistenza respiratoria.

Si parla poco dei farmaci, almeno di quelli suggeriti come alcuni antivirali. Li stiamo usando?

Sì, vengono utilizzati soprattutto nei centri di elevata specializzazione, come lo Spallanzani a Roma, il Sacco a Milano e anche in altre realtà. Tutti quanti comunque cercano di fare una terapia antivirale anche se non specifica.

Che previsioni si sente di fare a questo punto per l’Italia e il mondo?

Per l’Italia mi aspetto ancora almeno due settimane dure, perché come abbiamo visto dall’esempio cinese le misure di distanziamento sociale hanno bisogno di tempo vista l’alta contagiosità del virus. Questa settimana sarà ancora di aumento, purtroppo prevedo che questi movimenti della popolazione da Nord a Sud e la sottovalutazione del problema nelle altre regioni farà emergere casi in altre parti del Paese. Soprattutto la mia preoccupazione sono Roma e Napoli. Prevedo che l'infezione si espanderà anche negli altri Paesi, come Germania e Francia, che seguiranno l’iter italiano. Rimane per me un grosso dubbio per il Regno Unito: i loro scienziati oscillano tra le previsioni catastrofiche di alcuni colleghi dell’Imperial College di Londra (come quelle di Roy Anderson, si veda recente articolo su The Lancet, ndr., sintetizzato in un articolo di Scienzainrete) e l’estrema prudenza del Chief Medical Officer, che ritiene le nostre misure esagerate. A mio avviso anche nel Regno unito la situazione sarà intermedia fra questi due scenari. Prevedo che negli Stati Uniti sarà una catastrofe, perché lì il virus sta avanzando incontrastato. Di fatto lì non lo testano neanche, trattandosi di un sistema che non ha grandi risorse di sanità pubblica. Questo potrebbe far sì che fra una settimana-dieci giorni l’Organizzazione Mondiale della Sanità dichiari lo stato pandemico.

Per finire, sono alle viste nuovi incarichi per lei nella sanità o in politica?

Assolutamente no. Come lei sa ho tante cose da fare, sono contento perché ho trovato nel ministro della salute una persona seria e mi sono impegnato molto volentieri quando lui mi ha chiamato a curare gli aspetti scientifici delle decisioni da prendere e le reazioni internazionali. Sono state due settimane veramente intense. Siamo stati molto trasparenti e abbiamo ricevuto molto apprezzamento e sostegno, non ultimo dall’OMS. Sono quindi molto soddisfatto e ora a anche un po’ stanco. E non ambisco ad altro.

 

Articoli correlati

Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Il nemico nel piatto: cosa sapere dei cibi ultraprocessati

Il termine "cibi ultraprocessati" (UPF) nasce nella metà degli anni '90: noti per essere associati a obesità e malattie metaboliche, negli ultimi anni si sono anche posti al centro di un dibattito sulla loro possibile capacità di causare dipendenza, in modo simile a quanto avviene per le sostanze d'abuso.

Gli anni dal 2016 al 2025 sono stati designati dall'ONU come Decennio della Nutrizione, contro le minacce multiple a sistemi, forniture e sicurezza alimentari e, quindi, alla salute umana e alla biosfera; può rientrare nell'iniziativa cercare di capire quali alimenti contribuiscano alla salute e al benessere e quali siano malsani. Fin dalla preistoria, gli esseri umani hanno elaborato il cibo per renderlo sicuro, gradevole al palato e conservabile a lungo; questa propensione ha toccato il culmine, nel mezzo secolo trascorso, con l'avvento dei cibi ultraprocessati (UPF).