Ulivi secolari in Salento. Credit: Deblu68/Wikimedia Commons. Licenza: Creative Commons Attribuzione 3.0 Unported
Sebbene sia vero che ogni posizione scientifica può essere rivista alla luce di nuove evidenze, gli scienziati non possono e non devono essere chiamati continuamente a rispondere su cose che già hanno trovato risposta, senza che fatti nuovi costringano a riesaminare una data questione.
Un dibattito a questo punto non ha più senso
Sovvertendo questa fondamentale regola, i negazionisti scientifici invece, d’abitudine, ripropongono le stesse argomentazioni abbondantemente smentite dalle prove, utilizzando magari una nuova sede e ignorando completamente quanto già stabilito, nel riproporre argomenti fallaci; il tutto, naturalmente, senza portare nessun nuovo fatto che necessiti di essere spiegato. Questo ha evidentemente lo scopo di mantenere artificiosamente vivo un “dibattito” su posizioni ormai superate; e funziona perché è sempre possibile trovare un nuovo pubblico, che ancora non sia stato esposto all’informazione scientifica più consolidata e recente.
Soprattutto, funziona perché se alla comunità scientifica sono poste domande apparentemente fondate sul buon senso, omettendo di riportare le risposte che essa ha già fornito, il pubblico si aspetta che essa risponda. Siccome non si può pretendere che i ricercatori si lascino continuamente trascinare a dibattere delle stesse questioni se non vi è nulla di nuovo e sensato da discutere, il passo successivo è di screditare la comunità scientifica per la sua mancata risposta in qualche “dibattito alla pari”, accreditando magari una propria ipotesi alternativa (senza lo straccio di una prova documentata, ça va sans dire).
In tutto il mondo, questo è uno dei meccanismi classici che mantiene vivo l’interesse sulle noiosissime teorie di chi vede scie chimiche nel cielo, immagina che la terra sia piatta, vede sirene nel Mediterraneo, nega lo sbarco sulla Luna o l’olocausto degli Ebrei o l’efficacia e la sicurezza dei vaccini, propone diete per curare il cancro, promuove la biodinamica o la medicina quantistica.
Perché in Senato si dovrebbe perdere ancora tempo sulla questione Xylella?
Tuttavia, di tanto in tanto si ha un salto di qualità quando questo fastidioso mare di bugie e mezze verità raggiunge le sedi istituzionali. In questo caso, il pericolo per il Paese è grande, perché quando pseudoscienza e fattoidi influenzano l’azione delle Istituzioni le conseguenze sono catastrofiche. Questo rischio è precisamente quello che si corre oggi in Senato, ove due distinte iniziative riprendono gli argomenti più triti del negazionismo in tema di Xylella fastidiosa: l’atto di sindacato ispettivo n° 1-00023 e la Proposta di Inchiesta Parlamentare Doc. XXII, n. 6.
Entrambi i documenti negano la relazione causale tra l’infezione da Xylella fastidiosa (sottospecie pauca) e il disseccamento rapido dell’olivo. In realtà le prove sono molto solide e articolate. Si potrebbe dire tra le più solide di cui si dispone per un patogeno vegetale che abbia attaccato per la prima volta una nuova specie. Contrariamente a quanto affermato, l’evidenza si fonda anche su molti articoli scientifici peer-reviewed, prodotti da diversi gruppi di ricerca e risalenti fino al 2014 (per campionamenti effettuati nel 2013).
Un lunga storia di prove sempre più solide
Seguendo l’ordine cronologico, possiamo ricordare che, a valle della prima comunicazione scientifica del ritrovamento di Xylella in Salento, un gruppo di ricercatori dello IAM di Bari campionò due campi di Gallipoli a ottobre e novembre 2013. Cento ulivi, di cui 50 con sintomi di disseccamento rapido e 50 asintomatici. I campioni furono sottoposti ad analisi molecolare per la ricerca del batterio. 49 piante sintomatiche su 50 (il 98%) risultarono infette da Xylella (della stessa sottospecie e ceppo precedentemente identificati in Salento), così come 8 delle 50 piante asintomatiche (vi sono cultivar che sopportano meglio l’infezione e in ogni caso i sintomi si manifestano dopo qualche tempo); questo significa che in un campione statisticamente molto significativo si osserva un’associazione fortissima tra sintomo e batterio, come confermabile effettuando un test del chi quadrato sulla corrispondente tabella di contingenza. I risultati delle misure sono tutti stati pubblicati sulla rivista peer-reviewed Phytopathologia Mediterranea nel dicembre 2014, e sono da allora disponibili e mai smentiti da alcuno.
Un mese dopo questa pubblicazione, a gennaio 2015, un altro gruppo di ricercatori, questa volta appartenenti all’Università di Firenze, si recò in un campo di Taviano, ove l’80% delle piante mostrava sintomi di disseccamento rapido. Visto lo scopo dello studio, che era stabilire mediante analisi del DNA quanti ceppi del batterio fossero presenti in Salento, essi prelevarono campioni fogliari esclusivamente da un piccolo numero di ulivi con sintomi di disseccamento rapido (n=6), che ancora una volta furono sottoposti ad analisi molecolari alla ricerca del batterio; questi ulivi risultarono al 100% positivi. Il numero di piante esaminato sarebbe di per sé stesso troppo piccolo per essere significativo; ciò che è significativo, tuttavia, è che i dati furono ottenuti da un gruppo guidato dal professor Giuseppe Surico, cioè da uno dei consulenti esperti della procura di Lecce per l’indagine su Xylella, prima ancora che alcuni ricercatori pugliesi a dicembre 2015 ricevessero un avviso di garanzia dalla procura. Anche in questo caso, a marzo 2016, tutto è stato regolarmente pubblicato su Phytopathologia Mediterranea.
Nel frattempo, un terzo gruppo di ricercatori, questa volta appartenenti all’università del Salento, cominciò a febbraio 2015 a studiare nei campi in provincia di Lecce 48 ulivi appartenenti a 4 cultivar diverse, tutti positivi per Xylella fastidiosa, per vedere se sviluppassero sintomi di disseccamento e paragonarli a 48 piante delle stesse cultivar, situate in campi dove non era mai stato rilevato il batterio. All’inizio della sperimentazione, tutte le piante furono potate drasticamente. Nelle piante positive al batterio, i sintomi furono visibili già due mesi dopo la potatura; ad aprile si notavano alcune chiome completamente disseccate, tutte in piante positive per il batterio, e i sintomi peggiorarono andando avanti. Al contrario, come affermato dagli autori, nelle piante non infette non si notarono sintomi di sorta riconducibili a stress biotici o abiotici. Dunque, non solo, come era stato dimostrato precedentemente da altri gruppi, le piante sintomatiche contenevano il batterio; ma si dimostrava anche come le piante infette sviluppino i sintomi, contrariamente a quelle non infette. Pure i risultati di questi esperimenti sono stati regolarmente pubblicati su Phytopathologia Mediterranea.
Mentre i ricercatori salentini lavoravano in provincia di Lecce, in Brasile un quarto gruppo di ricercatori, sempre nel 2015, campionava alcuni olivi in zone che dal 2014 mostravano piante con sintomi di disseccamento rapido. Come in Italia, gli olivi sintomatici risultarono infetti dalla sottospecie pauca di Xylella fastidiosa (8 su 9 dei sintomatici), mentre i 20 olivi non sintomatici usati come controllo risultarono privi del batterio. Questi dati sono stati pubblicati, ancora su Phytopathologia Mediterranea, a gennaio 2016.
Anche in Argentina un quinto gruppo di ricercatori aveva osservato già nel 2013 olivi disseccati con sintomi simili a quelli salentini; nel 2015, pubblicarono sulla rivista Journal of Plant Pathology che questi ulivi erano infetti sempre dalla sottospecie pauca di Xylella fastidiosa, come poi ulteriormente confermato da un’altra pubblicazione dello stesso gruppo sul Journal of Plant Pathology nel 2017. È dimostrato quindi che dovunque arrivi la sottospecie pauca e vi siano ulivi esposti all’infezione, si osserva disseccamento rapido.
Infine, a dicembre 2017 sono stati pubblicati su un’altra rivista peer-reviewed (Scientific Report), da parte di un sesto gruppo di ricerca, i risultati dello studio di 58 diversi campi nel Salento colpiti da disseccamento rapido. Questi risultati includono la caratterizzazione molecolare di almeno 3 diversi olivi con sintomi di disseccamento rapido per ogni campo considerato (n=>174). Anche in questo caso, il batterio è stato reperito sul 100% delle piante sintomatiche; ma la cosa più significativa è che in questo studio i batteri isolati da 51 degli olivi sintomatici sono stati usati per infettare in laboratorio diverse cultivar di ulivo suscettibili. Per esempio, in un primo esperimento su 4 diverse cultivar, 10 piante di Cellina di Nardò sono state infettate artificialmente; dopo 24 mesi, 9 di esse mostravano chiari sintomi di disseccamento, mentre le piante di controllo (n=12) non mostravano alcun sintomo. In un altro esperimento indipendente, descritto nello stesso lavoro, altre 14 piante di Cellina di Nardò sono state infettate artificialmente, mentre 10 sono state usate come controllo non infetto; dopo 12 mesi, tutte le piante infette e nessuna di quelle di controllo mostravano sintomi di disseccamento ed a 24 mesi di distanza i sintomi di quelle malate si erano ulteriormente aggravati. Due diversi esperimenti – due replicati biologici – che conferiscono notevole potere statistico allo studio provano quindi il nesso causale tra infezione e sviluppo dei sintomi. La durata dell’esperimento (24 mesi) unita ai diversi mesi di peer-review a cui sono stati sottoposti i risultati ha comportato che i risultati di esperimenti cominciati non più tardi della prima metà del 2015 siano stati pubblicati a dicembre 2017; questi sono i tempi della scienza, la quale non segue i tempi istantanei della comunicazione sui social forum o della stampa, ma alla fine produce risposte fondate sui fatti.
Prove scientifiche e capriole negazioniste
Ricapitoliamo: 7 lavori sperimentali in 3 diverse riviste, da parte di 6 gruppi di ricerca diversi in altrettante istituzioni scientifiche, che in 3 nazioni lontanissime trovano la stessa sottospecie di Xylella fastidiosa sugli ulivi che mostrano sintomi di disseccamento rapido; i dati su 100 ulivi, che già dal 2014 mostravano negli ulivi salentini la forte correlazione tra batterio e sintomi negli ulivi salentini, confermati pur se su piccola scala persino dai periti nominati dalla procura di Lecce e poi dai ricercatori del Salento con la loro osservazione del progredire dei sintomi su 48 ulivi infetti e l’assenza di sintomi su 48 ulivi non infetti; infine un lavoro pubblicato su una rivista del gruppo Nature, che giunge a dimostrare inequivocabilmente (perché il potere statistico è sufficiente) che la correlazione tra infezione e patologia ha un valore causale, lavoro che è arrivato “solo” alla fine del 2017 per la semplice ragione che per gli esperimenti di patogenesi sono necessari anni, per non parlare del tempo necessario a passare la peer review e a pubblicare quei dati.
E cosa si oppone a tutto questo? Si cita un lavoro di Krugner del 2014, che è mal scelto, perché si riferisce ad una sottospecie diversa dalla pauca trovata sugli alberi in disseccamento rapido in Italia, Argentina e Brasile, come già ripetuto infinite volte dalla comunità scientifica. Quando in Salento si è confrontato con le conseguenze dell’infezione da parte della giusta sottospecie, infatti, lo stesso Krugner con altri autori scrive in una pubblicazione del 2016:
In southern Italy, X. fastidiosa subspecies pauca has been found in olive trees affected by a disease named “olive quick decline syndrome” (OQDS)
Oltre a citare impropriamente il lavoro di Krugner, si usano poi i dati del monitoraggio effettuato dal servizio fitosanitario pugliese nelle cosiddette zone di contenimento, cuscinetto ed indenne, probabilmente senza averli analizzati nel dettaglio. Da questi dati si traggono conclusioni sbagliate circa la prevalenza in Puglia dell’infezione, invece di utilizzarli per ciò a cui servono, cioè il monitoraggio sentinella dell’avanzamento dell’epidemia.
In particolare, il campionamento a tappeto di una malattia che si diffonde a macchia di leopardo di per sé non produrrà mai percentuali alte di ulivi infetti, finché la zona non sia molto compromessa; non è questo il caso della zona di contenimento, che come si sa è di più recente colonizzazione, e tantomeno delle zone cuscinetto e indenne, che in teoria dovrebbero essere prive di focolai. Se invece si prova a campionare in uno dei primi punti di sviluppo dell’epidemia (per esempio intorno Gallipoli), si noterà subito che, fatta eccezione forse per alcune cultivar più resistenti, il batterio ha colonizzato percentuali molto alte degli ulivi presenti (e ne ha parimenti uccisi moltissimi). Quindi: i 3.800 e passa ulivi su 170.000 sottoposti a saggio nella campagna 2017-2018 sono ininfluenti per stabilire la reale prevalenza dell'epidemia, cioè il numero totale di ulivi probabilmente infetti in Puglia, e le tanto sbandierate percentuali ricavate da questi dati sono riferibili solo alla percentuale di ulivi infetti ritrovata in zone che sono ancora poco colonizzate dal batterio, come è stato a quanto pare inutilmente ribadito per l’ennesima volta dai ricercatori in un recente articolo sulla rivista Wired.
La manipolazione dei dati di monitoraggio
A che servono invece i dati del monitoraggio regionale? Innanzitutto, come si è detto, a verificare lo stato di avanzamento dell’epidemia. In proposito, per capire il modo in cui la cosa funziona vale la pena di fare un esempio. Supponiamo di essere in presenza di un’epidemia di Ebola. Allo scopo di monitorarne l’avanzamento, cercheremo probabilmente quei sintomi precoci della malattia che possono permetterci di individuare per tempo i nuovi focolai, come per esempio la febbre alta. In genere chi ha la febbre non ha Ebola, ma qualche altra condizione; tuttavia, in un posto dove Ebola possa arrivare, si cercheranno tutte le persone con la febbre per testarle per la presenza del virus. Se in una zona ritenuta indenne si trovasse anche solo una decina di individui con la febbre positivi ad Ebola, nessuno trarrebbe conclusioni sulla bassa correlazione tra la febbre ed Ebola o sulla bassa prevalenza di Ebola, bensì si allarmerebbe per il fatto che l'infezione è arrivata laddove non era ancora presente.
Questo è precisamente quello che sta accadendo da anni in ogni campagna di monitoraggio della Xylella: nuovi focolai sono scoperti sempre più a nord, in zone prima ritenute indenni, costringendo di anno in anno a ridelimitare la zona infetta per includere porzioni sempre più ampie del nostro territorio nazionale. Per esempio, nell’ultima campagna di monitoraggio, 19 ulivi infetti sono stati trovati al di fuori della zona dichiarata infetta. I dati del monitoraggio regionale permettono pure di prevedere cosa succederà nei campi che contengono questi ulivi se non saranno attuate le misure di contenimento.
Per farlo consideriamo un uliveto nei dintorni di Oria, in contrada Sottoparabita. Nel 2016, in questo uliveto furono campionate 28 piante, di cui 3 risultarono positive al batterio e 25 negative. Le 3 piante positive furono eradicate; non furono tuttavia eradicate altre piante. Di quelle 25 piante negative, oggi solo 11 – il 39% - risultano ancora negative al batterio; inoltre, nel 2018 si è proceduto al campionamento a tappeto (invece che a maglia larga, come nel 2016), e gli ulivi oggi positivi al batterio risultano 285 su 1.069 (senza contare gli esiti diagnostici dubbi). Dove sono collocati gli ulivi trovati infetti nel 2018? Tutti intorno ai tre ulivi infetti eradicati nel 2016; l’eradicazione delle sole piante infette non è quindi servita.
Progresso dell’infezione in un campo in contrada Sottoparabita (Oria). Azzurro: ulivi positivi, estirpati nel 2016. Rosso: ulivi infetti nel 2018. Giallo: ulivi per i quali si è ottenuto esito dubbio dal test diagnostico nel 2018. Verde: ulivi negativi al batterio nel 2018
Lungi dal “provare” che non vi è epidemia o che le percentuali di ulivi infetti siano statisticamente irrilevanti, quindi, il monitoraggio dimostra che l’epidemia progredisce, sia colonizzando zone finora indenni sia espandendo i focolai puntiformi trovati nel precedente monitoraggio. Nel campo preso ad esempio, che due anni fa conteneva poche piante infette o sintomatiche, il 30% degli ulivi risulta positivo al batterio e una percentuale ancora maggiore di piante mostra sintomi di disseccamento; questo è il vero volto dell’epidemia che ha colpito la Puglia, così come rivelato dai dati se correttamente analizzati.
Spuntano i funghi...
Resta un’ultima linea di argomenti che vengono usati per tentare di trarre l’inevitabile conclusione circa il ruolo di Xylella nell’epidemia di disseccamento rapido, vale a dire un presunto ruolo di funghi patogeni nel causare il disseccamento rapido. Curiosamente, nella richiesta di sindacato ispettivo giunta al Senato leggiamo in proposito affermazioni contraddittorie, e cioè sia che:
“il disseccamento rapido dell'olivo può essere associato a differenti specie di funghi patogeni (Nigro et al, 2013; Carlucci et al, 2013, 2015; Giannozzi, 2013, Commissione europea 2014)”
Ma anche, poche righe più avanti:
“non esiste al momento alcuna evidenza scientifica che comprovi l'indicazione che alcuni funghi, piuttosto che il batterio Xylella fastidiosa, siano la causa primaria della sindrome del disseccamento rapido degli ulivi osservata in Puglia e nel Sud dell'Italia”
Ora, a parte il fatto che nessun lavoro (nemmeno quelli citati nei documenti del Senato), ha mai potuto provare che patogeni fungini siano associati al disseccamento rapido (contrariamente, come abbiamo visto, a quanto accade per Xylella), il 13 giugno scorso sono stati presentati proprio dal professor Franco Nigro (uno degli autori citati nell’atto di cui sopra) i risultati di un progetto volto ad accertare se funghi patogeni nell’ulivo dei generi Verticillium, Phaeoacremonium, Pleurostomophora, Neofusicoccum e Pseudophaeomoniella potessero essere correlati alla presenza di sintomi di disseccamento rapido (progetto EPIZYXY).
I dati di correlazione in campo e le prove di patogenicità in laboratorio hanno escluso il collegamento tra infezione con questi funghi e lo sviluppo dei sintomi del disseccamento rapido. Questi dati saranno probabilmente pubblicati, ma sono già disponibili per la revisione, dei pari come di tutti coloro che volessero esaminarli; invece le prove del ruolo nel disseccamento rapido di funghi, inquinamento, “energie vibrazionali” e “squilibri quantistici” restano a carico di chi propone ipotesi a getto continuo, ma in laboratorio non ci entra mai.
È sperabile che questo ripasso delle conoscenze acquisite grazie al lavoro dei ricercatori di tutto il mondo possa servire al Senato per valutare al meglio quale sia il reale stato delle cose; e a nome di tutti quei ricercatori continuamente tirati in ballo in discussioni ormai futili val forse la pena di ricordare la domanda che fu rivolta a chi voleva distorcere l’azione di un Senato di qualche millennio fa: Quousque tandem abutere patientia nostra?