Ebola è oramai scomparsa dai nostri
schermi, dai nostri giornali. Come altre grandi emergenze epidemiche è
arrivata come un pugno nelle nostre case e ha
invaso i media scatenando ansia nella popolazione, panico, incredibili timori.
Con la stessa velocità
però è scomparsa,
vaporizzata: Ebola? E chi è? Alla fine non è
altro che un problema lontano, africano, che,
grazie a Dio, non è
capace di arrivare a casa nostra.
E i 27mila casi di questi ultimi
12 mesi con oltre 11mila morti? E allora serve una testimonianza, una cosa
vera, vissuta da chi c’è
stato, ha creduto di poter sconfiggere l’Ebola e ci ha rischiato la vita.
Roberto
Satolli non se l’è sentita di scrivere
su Ebola dalla sua redazione milanese, ha accettato l’invito del suo vecchio amico Gino Strada e si è tuffato nel peggiore
sito epidemico: il centro Ebola di Lakka in Sierra Leone gestito da Emergency (Scienza in rete aveva raccontato parte della sua esperienza in Africa in una serie di interviste)
Ma non solo come giornalista
cronista, ma anche come medico, portando
con sé un intelligente protocollo per
una terapia innovativa che potesse affrontare utilmente il virus.
Al ritorno, dopo la necessaria perigliosa
quarantena, ha messo penna su carta e ne è
uscito Zona Rossa edito da Feltrinelli nella serie bianca.
Con Gino Strada ha condiviso
questo compito e ha ricevuto il contributo di Fabrizio Pulvirenti, medico infettivologo, volontario nel centro di
Lacca di Emergency e colpito dal virus, ma sopravvissuto.
Migliaia di volontari medici, infermieri, logisti hanno contribuito a fermare la più tremenda epidemia
infettiva del nostro secolo, pagando un altissimo contributo di vite umane: 874
si sono beccati l’Ebola e 509 ne sono morti.
Il libro si beve: la cronaca è avvincente e tiene il lettore su un filo d’ansia, quasi stesse vivendo in prima persona le tremende procedure descritte: vite che scorrono in un quadro ad alta velocità dove morte e disperazione convivono con sforzi eroici per contrastare il male: attività temporizzate rigorosamente in condizioni climatiche proibitive su persone coperte di tute e maschere che permettono solo poche ore di lavoro, ma che non ammettono il pur minimo errore; eppure questi grandi sforzi non sono compensati da altrettanti successi: il morbo procede inesorabile gravido di frustrazione per che cerca di contrastarlo.
Ma il libro non si limita alla
cronaca che tiene il respiro, affronta
con lucidità i limiti e gli errori che persone e istituzioni hanno compiuto. Tocca
il carico di conflitti locali e internazionali che Ebola ha innescato, in un
quadro di desolante inefficacia, purtroppo già
visto in molte altre emergenze sanitarie
internazionali di grande portata.
In assenza di un forte unico
coordinamento locale, l’emergenza di conflitti tra le organizzazioni umanitarie giunte sul campo
è stata inevitabile, ma la peggior è
efficacemente descritta nel libro: un approccio di distanza dal paziente a
protezione dell’operatore: il paziente va visto, ma non toccato: di qui l’accusa agli operatori di Emergency che “mettono inutili tubi”
ai pazienti esponendo inutilmente gli operatori;
infatti nel centro Emergency di Lakka, diversamente da altri centri di
trattamento di Ebola, il paziente veniva considerato come una persona da curare
con la migliore possibile terapia disponibile, compreso le procedure di
reidratazione e ricostituzione salina, che, provatamente riducono la letalità della malattia.
Non riesco a dimenticare la
stessa accusa che ricevemmo nell’ospedale di Lacor, Uganda, nella epidemia di Ebola del 2000, quando la
morte di Ebola di 13 operatori sanitari fu considerata conseguenza della errata
strategia di prendersi cura di ammalati gravi
fisicamente e non limitarsi all’osservazione a distanza praticata in un vicino ospedale governativo.
Zona Rossa tocca la triste vicenda del
trattamento compassionevole dei colpiti da Ebola: un tentativo generoso e
scientificamente razionale di impiego di un farmaco cardiaco con un protocollo
controllato viene impedito dalla burocrazia scientifica internazionale con
procedura non priva di conflitti di interesse con i produttori di farmaci.
Bella la storia di Fabrizio
Pulvirenti, infettivologo siciliano impegnato con Emergency nella cura dei colpiti a Lakka, che si infetta col virus nonostante la rigorosa osservanza
delle norme di sicurezza: un percorso al fulmicotone per salvare la vita di un
generoso; una storia a lieto fine grazie a una appropriata risposta della
struttura di Emergency e dell’ospedale Spallanzani di Roma.
Il libro affronta senza pudore l’inefficienza delle organizzazioni
internazionali, in particolare, l’OMS, tarda a riconoscere l’emergenza e quindi ad agire di
conseguenza: insieme ai governi locali
minimizza e prende tempo prima di usare l’apposito strumento dell’IHR (International Health Regulations) ritardando la massiccia
mobilitazione internazionale indispensabile per fermare l’epidemia.
Un colposo ritardo solo recentemente
riconosciuto dal comitato appositamente istituito (Ebola Interim Assessment Panel) che ha
dichiarato che: “significant and unjustifiable delays occurred in the declaration of a
Public Health Emergency of International Concern (PHEIC) by WHO”.
Insomma un libro che bisogna
leggere: un must per qualsiasi
operatore sanitario, ma anche, una volta tanto, un libro verità positivo: non solo
facile critica dalla finestra, ma cronaca di vita vissuta ad alta tensione
descritta con professionale freddezza, ma non priva di documentata critica
foriera di sostanziali modifiche.
Uno strumento di divulgazione
scientifica di grande potenziale impatto per i giovani, ma anche un’arma efficace per contrastare l’allontanamento dalla verità scientifica che ormai
costituisce una grave epidemia della nostra società.
Contrastare l’Ebola l’inesorabile continua emergenza di
rischi epidemici internazionale, non può
essere solo affare degli specialisti o delle
squadre di emergenza: la prevenzione più
efficace di questi rischi è senza dubbio un
adeguato sistematico approccio all’emergenza dell’intera società: un cambio culturale profondo che ci educhi alla convivenza con
questi rischi, alla condivisione continua delle migliori evidenze scientifiche,
al contrasto ai miti e alle falsità
che coronano le epidemie. I virus e i batteri
non riconoscono confini: la prevenzione non è
affare di alcuni disperati luoghi del pianeta
cui offrire solidarietà, bensì
è una necessita globale, di ognuno di noi, di ciascuna famiglia di ogni
paese.
Perciò è benvenuto “Zona Rossa” uno strumento utile, una presenza funzionale nella biblioteca di ogni famiglia.
Zona Rossa
Recensione di Pietro Greco, pubblicata su Left il 27 giugno 2015
I contagi non sono
scomparsi del tutto. Nella settimana finita il 14 giugno l’Organizzazione
Mondiale di Sanità ne ha registrati 24 nuovi. E nella settimana precedente, 27.
Ma da febbraio l’epidemia di Ebola, che per quasi un anno ha colpito l’Africa
occidentale facendo ammalare almeno 27.000 persone e uccidendone oltre 11.000,
sembra rientrata ed è considerata ormai sotto controllo. Buona notizia. Anzi,
ottima.
Ma non bisogna abbassare la guardia. Non possiamo
dimenticare l’epidemia di Ebola. Perché «non abbiamo capito come è cominciata,
non abbiamo capito cosa avremmo dovuto fare per fermarla», e dunque non
possiamo abbandonare il continente nero «e lasciare che tutto continui come
prima, fino alla prossima epidemia», ammoniscono Gin Strada, Roberto Satolli e
Fabrizio Pulvirenti in un libro, Zona
rossa, appena uscito per l’editore Feltrinelli, che è sì una storia – la storia, drammatica, vissuta
in prima persona da tre medici italiani partiti alla volta della Sierra Leone
per combattere il virus e curare i malati in condizioni difficilissime –, ma è
anche un saggio. Un saggio di etica della medicina.
La Sierra Leone è, con la Liberia e la Guinea, il paese
più colpito da questa prima, autentica epidemia di una patologia, poco
contagiosa ma altamente letale, conosciuta sì da quarant’anni, ma che finora
era esplosa in altre regioni dell’Africa in focolai relativamente piccoli e
rapidamente isolati.
Gino Strada è il fondatore di Emergency, l’associazione «indipendente
e neutrale, nata nel 1994 per offrire cure medico-chirurgiche gratuite e di
elevata qualità alle vittime delle guerre, delle mine antiuomo e della povertà»
che in Sierra Leone ha realizzato un presidio contro Ebola. Roberto Satolli,
compagno di scuola di Gino Strada, è un giornalista medico, tra i più bravi in
Italia, e medico a sua volta. Fabrizio Pulvirenti è il medico di Emergency che
ha lavorato in Sierra Leone, è stato contagiato dal virus di Ebola, è tornato
in Italia, è stato curato presso l’Ospedale Spallanzani di Roma ed è guarito,
dimostrando che la malattia è sì terribile, ma non è affatto invincibile.
Il libro
narra l’esperienza che i tre italiani hanno vissuto in prima persona per alcuni
mesi sia presso il centro allestito da Emergency a ridosso della spiaggia di
Lakka, alle porte di Freetown, la capitale della Sierra Leone, sia nel nuovo
Centro di Goderich, il primo per il trattamento di Ebola che in tutta l’Africa
occidentale è stato dotato di un reparto di terapia intensiva. È dunque una
storia. E sebbene non sia “la storia” dell’epidemia, ci aiuta a capire perché
la parabola di Ebola «deve essere ricordata, pena la condanna a essere
rivissuta».
La storia raccontata da Gino Strada, Roberto Satolli e
Fabrizio Pulvirenti che ci aiuta a non perdere la memoria si dipana come in un
diario. Un diario che può essere letto nei suoi diversi livelli. Il piano della
tragedia che si presenta, per così dire, allo stato puro, senza mediazioni, come
quella di decine e decine di bambini che muoiono in maniera straziante: vittime
innocenti del virus, ma non solo del virus. Il piano dell’amore che i tre
medici e tanti loro colleghi sublimano e insieme distillano, cercando il
contatto umano che nella “zona rossa”, quella dove sono gli ammalati di Ebola,
si consuma in una situazione irreale, tra pazienti intoccabili che subiscono
sofferenze indicibili e sono curati da medici bardati come astronauti e con ben
pochi strumenti a disposizione. Eppure quel contatto umano non è solo necessario:
è possibile.
Ma il libro è importante anche e forse soprattutto perché
l’esperienza dei tre autori si intreccia con l’evoluzione di un’infezione unica
nel suo genere che pone problemi di interesse generale: è infatti «la prima
volta che la medicina contemporanea guarda finalmente in faccia una malattia
tuttora sconosciuta, e prova a curarla e a fare ricerca in corso di epidemia,
una cosa mai tentata prima». È in questa condizione originale che la medicina;
chi, come gli autori, la pratica e noi tutti siamo costretti a interrogarci. Ed
è per questo motivo che Zona Rossa, da
diario carico di tragedia e intriso di umanità, si trasforma in un lucido saggio
di etica medica.
Una prima domanda nasce da un dato di fatto. In Africa
occidentale, per la prima volta a
misurarsi con Ebola, una malattia di fatto sconosciuta, non sono stati chiamati
gli epidemiologi ex post, a epidemia
consumata, ma i medici clinici, a epidemia in corso. Cosa accade a chi è
contagiato dal virus; come curare gli ammalati, come fronteggiare l’epidemia?
Una situazione inedita, per la medicina contemporanea. In questa condizione
inedita abbiamo imparato molto. Per esempio che Ebola non è una malattia
emorragica: non si muore per la perdita di sangue, se non in rare occasioni. Ma
non abbiamo imparato tutto. E neppure abbastanza. A tutt’oggi non sappiamo
perché di Ebola si muore. Quelle domande inedite, dunque, sono ancora aperte,
almeno in parte. Ecco, dunque, uno dei motivi per non abbandonare l’Africa a se
stessa: occorre continuare la ricerca. Occorre cercare di saperne di più. Di
conoscere meglio la malattia, per meglio affrontarla.
C’è una subordinata a questa domanda. Come comportarsi in
simili situazioni? È lecito sperimentare, per esempio, dei farmaci la cui
efficacia non è provata? Ed è giusto seguire le prassi tipiche della
sperimentazione scientifica: per esempio con trial randomizzati, in cui c’è un
gruppo di ammalati cui viene somministrato il farmaco e un gruppo di altri
ammalati cui viene somministrato un placebo? Non sono domande astratte. Strada
e Satolli hanno chiesto di sperimentare un farmaco, l’amiodarone, che sembrava
avere buone possibilità e che certamente non è tossico, perché usato da decenni
nella cura di altre malattie che colpiscono gli anziani. Ma questa richiesta ha
suscitato molte critiche, forse non tutte disinteressate, da una parte
rilevante della comunità scientifica internazionale. Critiche che hanno
rischiato di minare la notevole credibilità che ha Emergency presso la
popolazione della Sierra Leone. Eppure critiche analoghe non sono state sollevate quando farmaci sperimentali sono
stati proposti nei paesi occidentali per la cura di pazienti occidentali
contagiati dal virus di Ebola.
La questione rimanda alla domanda principale posta da Zona Rossa, che a sua volta nasce da un
dato di fatto. In Africa il virus di Ebola ha ucciso il 70% e più delle persone
non trattate, ma anche una percentuale altissima delle persone curate in
ospedale. Mentre l’80% degli ammalati occidentali curati in America o in Europa
si sono salvati. Perché? Io allo Spallanzani di Roma sono curato da decine tra
medici e pazienti, dice a un certo punto Fabrizio Pulvirenti. Mentre la
condizione dei pazienti in Sierra Leone, dove mi sono ammalato, è ben diversa:
un medico, quando c’è, per decine di pazienti. In Occidente chi si è ammalato
di Ebola ha avuto accesso in Italia come in Spagna o negli Stati Uniti a
farmaci, a tecnologie e persino a etiche della medicina (per esempio, con l’uso
di farmaci sperimentali) ben diversi rispetto a quelle dei pazienti in Africa.
Non è una condizione sostenibile. Non è una condizione accettabile.
Di più. L’Occidente si è mobilitato non quando ha avuto
notizia del pericolo per gli africani. Ma quando ha percepito un pericolo, vero
o presunto, per sé. Quando ha pensato che il virus di Ebola potesse uscire
dall’Africa e diffondersi e uccidere anche nel resto del mondo. Quasi che i
morti in Africa avessero meno peso dei morti fuori dall’Africa. Questa iniziale
indifferenza o sottovalutazione del pericolo ha avuto effetti tangibili. Molti
degli 11.000 morti uccisi da Ebola – denunciano Gino Strada, Roberto satolli e
Fabrizio Pulvirenti – si sarebbero potuti salvare se il sistema sanitario
mondiale avesse reagito più prontamente.
Di qui la necessaria conseguenza. Dopo Ebola nulla può
(deve) essere come prima. Occorre lavorare per rimuovere la cause prossime e
remote che hanno portato a questa inaccettabile “disuguaglianza di salute”. Le
cause remote sono quelle storiche che hanno portato i paesi occidentali a fare
scempio dell’Africa, non a caso definito il “continente dimenticato”. Ma per
rimuovere le cause prossime occorre che i medici – e il sistema sanitario
internazionale – formulino un nuovo giuramento di Ippocrate. Riconoscendo il
diritto primario di tutti i cittadini del mondo a ricevere le migliori cure
disponibili.