Oggi la stampa commenta la catastrofe giapponese, l'"apocalisse", come qualcuno si è spinto a dire. E la butta in filosofia,. Cattiva filosofia quella di Angelo Panebianco che sul Corriere banalizza dicendo che la paura offusca la ragione, che è giusto discutere sul nucleare ma senza negare il progresso, se no si torna alla candela, che il prezzo del progresso è il rischio che non è mai zero ecc. ecc. Su Repubblica uno spiraglio di luce da Barbara Spinelli che spiega la natura euristica della paura (Hans Jonas, Principio responsabilità, ma si potrebbe aggiungere, Gunter Anders, L'uomo è antiquato): cioè la filosofia che si risveglia dopo l'esplosione di Hiiroshima e Nagasaki, come si risvegliò Voltaire nel Candido dopo il terremoto di Lisbona, dando un piega amara all'Illuminismo, fino al "legno storto" di Kant. Pare che i terremoti abbiano questa capacità di fare andare oltre alle idee ricevute, alle certezze acquisite. Si deve ritrovare nel sentimento fisico, corporeo della paura la scaturigine della prudenza e della precauzione, la scoperta della complessità, l'abbandono della presunzione unilaterale degli ingegneri, che immaginano un mondo a una dimensione. Che costruiscono pentoloni a vapore alimentati a uranio lungo la costa non mettendo nei loro "worst case scenario" l'eventualità di uno tsunami. Fukushima, ovvero la sconfitta di Pangloss (e di Panebianco).