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Paura, rischio e precauzione

La catastrofe nucleare che ha colpito in questi giorni il Giappone mi suggerisce alcune riflessioni sulla paura, sul rischio e sul principio di precauzione. Ai disastri di origine naturale (eruzioni, terremoti, inondazioni, maremoti), cui l’uomo è esposto da sempre, si sono aggiunti di recente quelli di origine tecnologica (Chernobyl, Seveso, Bhopal, Three Mile Island, Fukushima...) che con le crescenti quantità di energia in gioco e con la pericolosità dei prodotti sono diventati sempre più temibili. Viviamo ormai in quella che, proprio nel 1986, l’anno di Chernobyl, Ulrich Beck chiamò in un suo libro La società del rischio. Di fronte a questa proliferazione dei pericoli, si è fatto ricorso al principio di precauzione, che si basa su una delle emozioni più ancestrali e radicate: la paura. 

La paura è un istinto salvifico, che di fronte ai pericoli ci consente di attivare in tempi rapidi meccanismi di fuga o di difesa, mentre un’analisi razionale non ci darebbero modo di scampare. Ma da quando ci siamo costruiti intorno un complicato mondo artificiale e da quando la componente razionale della nostra mente ha cominciato a prevalere su quella emotiva, la paura è stata relegata nel ripostiglio dove si accumulano i rifiuti e gli oggetti impresentabili. 

Ma da quel ripostiglio la paura continua a lanciare segnali che, se sono flebili nelle fasi di ordinaria amministrazione, si fanno acuti nelle situazioni di emergenza. E’ curioso che quanti predicano di attenersi ai “fatti” e di non farsi condizionare dalle emozioni, soprattutto dalla paura, trascurino la circostanza che anche la paura è un fatto. E, come dimostra il grave incidente di Fukushima, ha ancora una funzione salvifica: fa scattare meccanismi di fuga, innesca una sana diffidenza nei confronti delle dichiarazioni ufficiali, che tendono sempre a sdrammatizzare, spinge a rivedere piani e programmi e assesta qualche colpo ai pregiudizi e alle ideologie. 

Certo, passata l’emergenza si torna a una riflessione più pacata, ma la lezione non si dovrebbe dimenticare, cioè non si dovrebbero dimenticare le circostanze che hanno scatenato la paura: dovrebbe restarne un residuo sublimato e indelebile che, aggiunto alle nostre altre esperienze, ci dovrebbe servire da guida per l’avvenire. 

Ma gli uomini tendono a dimenticare: la paura, come le altre emozioni, non si rivive, se ne ricorda solo una traccia che si attenua col tempo e che ci rende confidenti al limite del temerario. In più gli uomini credono volentieri ciò che desiderano. Queste due caratteristiche portano a edificare sulle falde del Vesuvio e nei letti dei fiumi, a trascurare le politiche di risanamento territoriale di lungo respiro, a ricoprire i campi di cemento e di capannoni, a inquinare le falde acquifere, a costruire centrali nucleari in zone sismiche, a inviare rifiuti tossici e radioattivi nei Paesi più poveri che subiscono il ricatto perché devono pur mangiare... Insomma: siamo inclini a superare ogni limite e tendiamo a barattare la stabilità e la sicurezza con i vantaggi immediati, salvo poi disperarci per gli “incidenti”. 

In una prevenzione dei rischi sana e intelligente (razionale) devono rientrare anche le considerazioni basate sulle componenti emotive. O meglio, devono rientrarvi esplicitamente, perché di fatto e surrettiziamente vi rientrano sempre, da una parte e dall’altra. Se da una parte c’è la paura dall’altra c’è l’avidità, se da una parte c’è la prudenza, dall’altra c’è la temerarietà. 

E le emozioni sono inestirpabili: anche le valutazioni in apparenza più razionali e quantitative dei costi e dei benefici di un’iniziativa, anche le decisioni più logiche e conseguenti sono venate di componenti ideologiche, irrazionali, psicologiche, pregiudiziali, affettive: anche se c’è la buona fede e non ci sono interessi occulti. Per aver fatto questa “scoperta” qualcuno ha vinto il premio Nobel per l’economia...

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La versione riveduta e corretta dell’atteggiamento arcaico di fronte ai rischi, improntato alla paura, è il principio di precauzione, del quale esistono molte formulazioni, che si possono suddividere in forti e deboli.

Le versioni forti mirano a ridurre a zero i rischi vietando tutte le attività potenzialmente pericolose, anche in assenza di prove certe di tale pericolosità e indipendentemente dalle conseguenze dei divieti. 

A molti questo principio sembra assai ragionevole, ma in questa forma radicale esso è contraddittorio e paralizzante: tutte le attività sono rischiose, e anche la decisione di vietare certe attività presenta pericoli potenziali, che potrebbero essere più gravi di quelli derivanti dalle attività proibite. Vietare un’attività industriale inquinante può provocare danni economici gravissimi, che porterebbero alla rovina di intere popolazioni. 

Più ragionevoli sono le formulazioni deboli del principio, che tengono conto del rapporto costi-benefici, in cui peraltro i costi e i benefici si riducono a un mero calcolo ragionieristico e monetario, in cui non vengono mai computati gli aspetti legati ai valori etici e culturali. 

La razionalità di noi umani è limitata: siamo portati a sopravvalutare i rischi noti rispetto a quelli sconosciuti e a trascurare la probabilità di un rischio rispetto alla sua gravità (vedi il caso delle centrali nucleari); tendiamo a temere più i rischi derivanti dalle attività antropiche che non quelli naturali e, vista l’incommensurabile complessità del reale, ci riesce difficile capire che un intervento capace di ridurre la probabilità di un certo rischio potrebbe accrescere la probabilità di un danno magari peggiore in un’altra parte del sistema. 

Dove la razionalità non arriva, siamo portati a ricorrere agli istinti, specie alla paura, spesso, bisogna pur dirlo pilotata o amplificata dai media o dai gruppi d’interesse, e questo ricorso è stigmatizzato dai cosiddetti esperti. 

Ma non si tratta solo di paura: entrano in gioco anche valori non negoziabili, che riguardano l’immagine che abbiamo di noi stessi, la dignità, l’attaccamento alle tradizioni, il senso della nostra vita, l’esempio che vogliamo dare ai figli. E c’è il senso del limite, che abbiamo perduto in nome di una hybris arrogante. Alla razionalità computante bisogna contrapporre non solo la paura, ma anche questi valori, che la tradizione ci ha consegnato e che noi stiamo dissipando.