Il Ministro dell’ambiente e della sicurezza energetica (“MASE”), con decreto n. 434 del 21 dicembre 2023, ha approvato il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici (“PNACC”) che tiene conto della collocazione dell’Italia nel c.d. “hot spot mediterraneo”, area particolarmente sensibile e vulnerabile rispetto al contesto climatico.
Il PNACC programma le azioni di adattamento con l’obiettivo - si legge nella sua Introduzione - di “fornire un quadro di indirizzo nazionale per ridurre al minimo possibile i rischi derivanti dai cambiamenti climatici, migliorare la capacità di resilienza e adattamento dei sistemi socioeconomici e naturali, nonché trarre vantaggio dalle eventuali opportunità che si potranno presentare con le nuove condizioni climatiche”.
La ricostruzione del quadro normativo di riferimento da parte del MASE riconduce il cambiamento climatico alla materia ambientale, rilevando come - sotto il profilo giuridico – tale tematica nasca principalmente nell’ambito del diritto ambientale, pur presentando connessioni anche con altre branche del diritto, tra le quali, in particolare, quella del diritto internazionale e quella del diritto dell’energia.
La Relazione del PNACC ritiene, in generale, che le norme ed i principi che informano la materia ambientale siano applicabili anche al tema dei cambiamenti climatici1 pur riconoscendo che non vi sia piena aderenza e automatica sovrapposizione giuridica tra i due ambiti e che, partendo dai menzionati principi, si stia progressivamente venendo a delineare un vero e proprio “diritto climatico”.
Ed è proprio sugli aspetti di “autonomia” e “specificità”, ovvero “sussunzione” e “collegamento” tra i due ambiti giuridici, blandamente richiamati dal PNACC, che si ritiene opportuno svolgere qualche breve riflessione.
In particolare, occorre esaminare il rapporto tra clima e ambiente sotto il profilo dei diritti che i cittadini, come singoli e/o come associazioni, possono vantare ed attivare nei confronti dello Stato e/o degli altri soggetti privati/imprese per la tutela (costituzionalmente garantita)2 del diritto a vivere in un ambiente esente da impatti per la sicurezza e la salute. Quindi, nel caso del clima, quali azioni siano in concreto esperibili secondo l’attuale ordinamento per ottenere il rispetto degli obiettivi di riduzione delle emissioni di CO2 e l’adesione alla pianificazione della transizione energetica, nonché l’eventuale risarcimento dei potenziali e correlati danni.
Il climate change litigation, infatti, è ormai approdato dagli Stati Uniti anche in Europa, e recentemente in Italia, e si fonda sostanzialmente su azioni di risarcimento del danno derivante ai cittadini e alle generazioni future dai cambiamenti climatici in atto.
Si tratta, dunque, di comprendere se tali danni possano effettivamente ricadere nel novero del c.d. danno ambientale, applicandosi – come sembrerebbe indicare in linea di principio il PNACC – le disposizioni di diritto ambientale, ovvero se l’impatto climatico rappresenti una fattispecie giuridica autonoma, con proprie caratteristiche e leve.
Come noto, l’ordinamento comunitario e quello nazionale hanno introdotto una specifica disciplina per regolare il danno ambientale attraverso la Direttiva 2004/35/CE, implementata in Italia dal d.lgs. n. 152/2006 (Parte Sesta). Tuttavia già la Direttiva specifica che “a non tutte le forme di danno ambientale può essere posto rimedio attraverso la responsabilità civile. Affinché quest’ultima sia efficace è necessario che vi siano uno o più inquinatori individuabili, il danno dovrebbe essere concreto e quantificabile e si dovrebbero accertare nessi causali tra il danno e gli inquinatori individuati. La responsabilità civile non è quindi uno strumento adatto per trattare l’inquinamento a carattere diffuso e generale nei casi in cui sia impossibile collegare gli effetti ambientali negativi a atti o omissioni di taluni singoli soggetti”3.
E di fatto, la tutela da cambiamento climatico sembra possedere proprio quelle caratteristiche che ne impediscono una mera sovrapposizione con la tutela da responsabilità civile adottata per l’azione da danno ambientale.
La tesi a favore di un danno climatico quale genere proprio4 si fonda sostanzialmente su tre elementi di differenziazione:
A ciò si aggiungano, ad avviso di chi scrive:
4. L’oggetto del danno ambientale, ovvero il deterioramento delle “matrici ambientali”5 tipicamente fisiche e misurabili (es. la contaminazione del suolo), che solo molto indirettamente riprende la violazione del diritto umano all’ambiente salubre; e
5. le forme di risarcimento che per il danno all’ambiente portano al ripristino del bene impattato ovvero alla compensazione in forma specifica ove la matrice non sia completamente recuperabile, laddove per il clima invece si articolano in misure di mitigazione, adattamento, supporto alla resilienza, non risultando concepibili (né misurabili né, verrebbe da dire, efficaci) misure ripristinatorie o sanzionatore.
Queste differenze, dunque, mettono in dubbio che i rimedi giudiziali e amministrativi previsti per il c.d. danno ambientale possano trovare applicazione al danno climatico. Non risulta, peraltro, che né i singoli cittadini, né le associazioni abbiano effettivamente avviato le procedure di accertamento del danno ambientale previste dalla Parte VI del d.lgs. n. 152/2006, cercando invece di instaurare giudici risarcitori avanti il giudice civile.
Non a caso, nel ragionare su azioni alternative a quelle previste dal d.lgs. n. 152/2006, la dottrina si è cimentata nell’ipotizzare azioni giudiziarie differenti per far valere in giudizio il danno climatico. In particolare, c’è chi ha valutato la suggestiva ipotesi della c.d. class action deconsumerizzata e chi quella dell’azione popolare avanti il giudice ordinario6.
Relativamente alla prima ipotesi, è stato tuttavia rilevato che lo strumento della class action applicato al danno climatico difetti, tra le altre cose, dell’interesse ad agire nel senso che tale istituto mira a tutelare un interesse individuale, mentre il clima è pacificamente un interesse diffuso7.
Nel secondo caso, l’azione popolare non risulta integrata nell’ordinamento italiano, non esistendo una norma di rango legislativo o costituzionale che introduca tale azione in materia ambientale8.
Tale dicotomia di vedute è sintomatica di un’ampia divisione sull’adattabilità dei criteri di responsabilità aquiliana alla peculiarità del danno climatico sia come sub species di danno ambientale, sia come azioni alternative in sede civile. E ciò per diversi ordini di ragioni:
Si aggiunga poi, aldilà delle semplici e strumentali mistificazioni, che il cambiamento climatico è un fenomeno imputabile alla stessa umanità, che ne è anche vittima, nel suo complesso, e non alla mera azione di singoli specificatamente individuati ed individuabili. Con riferimento al danno climatico, dovrebbe infatti piuttosto parlarsi di “responsabilità collettiva” in quanto le emissioni di CO2 sono prodotte sia da imprese, sia da consumatori, in un binomio inscindibile di domanda e offerta. E dove per “collettività” deve intendersi l’umanità intera e non specifici gruppi legati ad una territorialità identificata.
E se è vero che alcuni Stati o regioni hanno maggiormente contribuito alle emissioni di CO2 in passato è altrettanto vero che oggi altri e diversi Stati stanno producendo emissioni in quantitativi ben superiori ai Paesi c.d. sviluppati, spostando così anche “politicamente” cause e reazioni. Non è un caso, quindi, che la soluzione alla crisi climatica sia rimessa ad accordi internazionali tra Stati che, oltre a prendere coscienza del problema, stanno cercando di individuare il delicato bilanciamento per uno sviluppo sostenibile, fermo restando il fatto che il processo correttivo oggi dipende largamente da Stati diversi da quelli EU che pure risultano maggiormente impegnati.
La dimensione globale del fenomeno e la necessità di una misura sovranazionale distinguono, dunque, ulteriormente il danno conseguente al cambiamento climatico da qualunque altro danno, incluso il danno ambientale. Quasi a sintesi di tutti i ragionamenti qui riportati, depone infine la recente sentenza del Tribunale di Roma relativa al c.d. Giudizio Universale9, che ha ritenuto inammissibile la domanda risarcitoria avanzata da cittadini e associazioni ambientali contro lo Stato Italiano rilevando una carenza assoluta di giurisdizione dell’organo giudicante in quanto le scelte per arginare il fenomeno climatico comporterebbero valutazioni strategiche di ordine socioeconomico interessanti in termini di costi-benefici più settori della vita della collettività, rientrando in ciò nella sfera di attribuzione del potere politico e dei suoi organi10.
Ci troviamo quindi a dover concludere che, sotto il profilo fattuale in primis e giuridico poi, il cambiamento climatico sia un fenomeno peculiare e specifico e la sua tutela, in sede giurisdizionale, sia tutt’affatto sussumibile alle categorie giuridiche del diritto ambientale o anche della responsabilità civile extracontrattuale, così come oggi disciplinate e note.
Anche alla luce della prima decisione italiana sul clima, appare necessaria (e non ulteriormente rinviabile) l’individuazione di una reale alternativa di tutela efficacemente attivabile per non lasciare sguarnito il “diritto al clima”, ritenendo, però, che gli strumenti di tutela – per essere realmente efficaci a contrastare il fenomeno - dovrebbero comunque assumere rilevanza internazionale.