Negli ultimi anni gli scambi comunicativi mediati dai dispositivi tecnologici hanno subito un incremento impressionante, tanto che alcuni paventano un intasamento dei sistemi di trasmissione. Le cause principali di questo vero e proprio surriscaldamento comunicativo sono: l'aumento dell'efficienza tecnica, la diminuzione radicale dei costi e l'indebolimento dei filtri che in passato limitavano la diffusione dell'informazione. Tra questi filtri vanno annoverati: la chiesa, la scuola, la famiglia, e in genere le istituzioni politiche e sociali che esercitavano il monopolio dell'informazione, la sorveglianza e la censura. In ultima analisi questi filtri erano sorretti dal costo della comunicazione, dal diffuso analfabetismo e dalla lentezza degli scambi comunicativi.
Lo sviluppo della tecnologia ha reso la comunicazione sempre più rapida ed economica e ha contribuito alla nascita di quella che si chiama società dell'informazione. Tra le tappe più significative di questa evoluzione ricordiamo:
Siamo entrati nell'era digitale, caratterizzata tra l'altro dalla formazione di una generazione di giovani che, plasmatisi sulle nuove tecnologie o addirittura nati con le nuove tecnologie, le usano con grande disinvoltura e insieme con sovrana indifferenza per i loro meccanismi profondi, attenti solo al loro utilizzo opportunistico. Questa generazione digitale interagisce con le strutture tradizionali, in particolare con la scuola, in modi nuovi, che prefigurano altri e più incisivi cambiamenti, destinati a investire tutti gli aspetti dell'individuo e della società.
Tramite l’ibridazione con la tecnologia cambia la natura umana, tramite la genomica l’uomo cessa di riprodursi e comincia a prodursi. Cambia il modo di fare i figli, di allevarli e di educarli. Cambia il modo di comunicare, di apprendere e di insegnare, cambiano la nozione di tempo, la percezione dello spazio, il concetto di realtà. Tutti questi cambiamenti moltiplicano le scelte, esaltano la creatività e insieme estendono l’omologazione, ci sopraffanno con l'eccesso di dati e di possibilità, provocano lacerazioni e disadattamenti. Il lessico e la sintassi subiscono distorsioni e meticciamenti profondi. E la rappresentazione mediatica di tutti questi cambiamenti genera un “doppio” spettacolare del mondo che a volte è percepito più reale del mondo reale e accelera le mutazioni. In questa potente dinamica trasformativa le velocità di cambiamento non sono uniformi: certe componenti mutano più rapidamente di altre e questa disuniformità genera tensioni, disagi, conflitti e sofferenze. La transizione è così rapida che non ci permette la messa a fuoco e continuiamo a vedere il futuro con gli occhi, i parametri e i valori di un passato che fatichiamo a superare e in cui permangono robuste tracce di categorie aristoteliche. Ciò provoca un disorientamento e una sensazione di inadeguatezza che possono sfociare in angoscia o, all'opposto, in precipitose fughe in avanti.
I giudizi sull'avvento dell'era digitale sono diversissimi: vanno da un'esaltazione senza riserve a un cupo catastrofismo, con tutti i gradi intermedi. La comunicazione è un fenomeno complesso, pertanto può (e deve) essere descritto a livelli e da punti di vista diversi, nessuno dei quali può fornirne un resoconto completo. Ne segue che le valutazioni positive come quelle negative possono essere giustificate da osservatori diversi con argomenti fondati.
Giudizi tanto contrastanti indicano che siamo di fronte a una rivoluzione vasta e coinvolgente, le cui radici affondano nell'interazione tra tecnologia e società e le cui ripercussioni riguardano la cultura, la scuola, la politica, i rapporti sociali, l'organizzazione aziendale e istituzionale, la lingua, l'epistemologia e la scienza. Nelle prossime puntate cercherò di esaminare alcune di queste conseguenze, senza curarmi troppo dei particolari tecnici e dell'alluvione di gadget, ma cercando di scrutare le radici e le conseguenze culturali degli accadimenti. In ogni caso, che si giudichi la rivoluzione mediatica in senso positivo o negativo, non si deve dimenticare che sotto la variegata superficie dei fenomeni comunicativi si annida un potente sistema economico che mira ad accumulare denaro e potere mediante sagaci politiche di mercato e astute strategie pubblicitarie. (1 - continua)
L'intelligenza umana e il suo rispecchiamento verbale sono fenomeni contestuali, sistemici e diacronici: ciò significa che l'intelligenza è legata alla comunicazione e che il suo raggio d'azione si estende ben oltre i limiti costituiti dall'epidermide individuale; in più è sottoposta alle vicende dell'evoluzione, che la rendono una caratteristica mutevole nei modi e nelle forme. Anche gli interlocutori dell'attività comunicativa mutano e si moltiplicano. L'essenzialità del contesto e dei rapporti interpersonali comporta, tra l'altro, l'importanza, per l'intelligenza umana, del corpo, che è il tramite, e il filtro, attraverso il quale la mente dell'uomo, e quindi il suo linguaggio, entrano in contatto con il resto dell'universo.
La lingua risulta dunque un fenomeno globale, mentale e corporeo insieme: ogni atto linguistico, a ben guardare, è un atto sistemico del mondo, che si svolge sì sotto la particolare angolatura dell'individuo che compie l'atto, ma che attraverso quell'individuo si collega a tutto il resto. E ogni testo è scritto dal mondo su sé stesso. Chi scrive presta al mondo mente, mano e corpo, consentendogli di scrivere e di scriversi. E così chi parla e chi legge e chi ascolta è un tramite del mondo. Questo punto di vista permette, tra l'altro, di capire e valutare meglio la funzione attiva dell'ascoltatore o del lettore, di chi insomma ri-costruisce in sé il testo.
A questa forma costantemente dialogica e interattiva della comunicazione corrisponde il passaggio, ancora in corso ma già ben delineato, dalla prima forma di Internet, il Web 1.0, alla sua evoluzione, il Web 2.0, rappresentato da Wikipedia, Google, YouTube e in genere da tutta una generazione di funzioni e di servizi caratterizzati non più da una partecipazione passiva, bensì da una cooperazione attiva e creativa degli utenti, i quali contribuiscono a produrre conoscenze: le strutture del Web 2.0 si costruiscono dal basso, per effetto di apporti minimi ma costanti in continuo confronto e interazione, come accade in maniera paradigmatica in Wikipedia. Il protagonismo partecipativo degli utenti e la crescente mediazione tecnologica dell'attività comunicativa giustificano in pieno la nozione di intelligenza collettiva, anzi connettiva, distribuita ovunque, coordinata nella dimensione sincronica, che alcuni hanno proposto per indicare le attività cognitive che si svolgono in rete e grazie alla rete.
Per converso, pare che il sincronismo tipico del Web sopprima la dimensione temporale, annullando il passato e appiattendo tutto sul presente. A ciò corrisponde una drastica trasformazione cognitiva e culturale. C'è peraltro da osservare che non sempre i contenuti del Web (p. e. di Wikipedia) sono attendibili: ne segue che la rapidissima diffusione delle informazioni errate rischia di rendere “culturalmente instabile” il sistema. Nei media cartacei tradizionali questo rischio è molto minore, non tanto perché essi siano più attendibili quanto perché minore è la velocità di propagazione delle conoscenze e maggiore è il tempo concesso alla riflessione, alla maturazione e alla scelta dei contenuti (la fretta è cattiva consigliera).
Si può avanzare un'analogia tra Web e cervello, sulla base della struttura reticolare comune e del continuo scambi di messaggi tra i nodi di queste reti. I concetti e i siti nuovi introdotti e allestiti dagli utenti vengono integrati nella struttura di Internet e rafforzati dagli altri utenti che li scoprono e li usano, creando i rimandi (link). Come le sinapsi cerebrali si rafforzano in virtù della ripetizione, così le connessioni del Web si irrobustiscono in seguito all'attività collettiva di tutti i navigatori del Web.
Questa persuasiva analogia giustifica l'uso della locuzione “macchine della mente” per i computer e Internet, e illustra la simbiosi tra queste strutture macchiniche e l'intelligenza umana: il nostro sistema cerebrale si integra con un artefatto, la rete globale, che ne potenzia alcune capacità, altre ne deprime, e ne modifica la struttura e le funzioni, aprendo la strada alla formazione di quell'intelligenza connettiva che, secondo alcuni, segna il passaggio dalla società gutenberghiana alla società digitale. Nella società digitale i contenuti sono mutevoli e i navigatori contribuiscono alla formazione dal basso di conoscenze e procedure distribuite agli utenti in un vicendevole alternarsi nei ruoli di spettatore e attore ovvero fruitore e autore.
Ma l'impressione è che noi adulti non siamo (ancora) del tutto usciti dalla “galassia Gutenberg” di cui parlava McLuhan e non siamo (ancora) capaci di orientarci nella società digitale. E questo anche per una certa nostra resistenza ad abbandonare le sponde, fidate anche se corrose, della cultura tradizionale. Molto più spregiudicati sono i giovani e giovanissimi, che sono nati nel digitale e che non hanno nessuna difficoltà a immergersi e navigare in questa nuova “infosfera”: anzi dell'altra, della vecchia “bibliosfera” alla quale noi siamo avvezzi e affezionati, non sanno molto e forse non vogliono neppure sapere molto.
Ma anche noi adulti viviamo nella società digitale, e non possiamo non risentirne gli effetti. A parte l'uso più o meno impacciato che facciamo dei media digitali, subiamo le metamorfosi socioculturali e le derive politiche di questa grande trasformazione e non possiamo non riconoscere che termini tradizionali come lavoro, denaro, proprietà, diritto, economia, sono sottoposti a una forte tensione definitoria. Anche per effetto della rivoluzione digitale, i significati di questi termini stanno cambiando, spesso senza lasciarci il tempo di adeguarci alle nuove accezioni e provocando in noi e nella società una lacerazione tra le nuove realtà e la vecchia mentalità, ancora aggrappata a concezioni pre-digitali. (3-continua)
L'ingresso nell'era digitale si accompagna a due transizioni importanti. In primo luogo vi è il passaggio sempre più evidente dall'evoluzione biologica, retta dai meccanismi darwiniani di mutazione e selezione, all'evoluzione bioculturale, e in particolare biotecnologica, dove ai meccanismi precedenti si affianca anche il meccanismo lamarckiano dell'ereditarietà dei caratteri (culturali) acquisiti.
Questo fenomeno si basa su processi, come l'imitazione, l'apprendimento, la moda, che agiscono non solo da una generazione alla successiva, ma anche all'interno della stessa generazione. Ne segue che l'evoluzione bioculturale ha natura “epidemica”: è molto più rapida di quella biologica, ma i suoi prodotti sono più fragili e volatili. In secondo luogo, sul versante della tecnologia, accanto alle macchine tradizionali, che elaborano materia ed energia, sono comparse le macchine della mente, che elaborano informazione. In un susseguirsi sempre più rapido: il cinema, il telegrafo, il telefono, la radio, la televisione, il calcolatore elettronico, le reti: sistemi e dispositivi che si sono affiancati a quelli tradizionali basati sulla comunicazione orale, sulla scrittura e sulla stampa. Inoltre lo sviluppo delle reti, derivate dall'accoppiamento fra telecomunicazioni e calcolatori, ha dimostrato che la vera vocazione dei computer non è solo o tanto l'esecuzione di calcoli laboriosissimi o il trattamento di enormi masse di dati, quanto il collegamento interattivo tra gli individui. Sempre più essi fungono da nodi della grande rete di comunicazione che si sta estendendo su tutto il pianeta. L’uomo è una creatura della comunicazione e dello scambio: la sua struttura corporea e la sua intelligenza si sono co-evolute in stretta interazione con un ambiente che ha impresso nella specie il proprio sigillo, dando origine a un apparato neuro-sensoriale e cognitivo che filtra le stimolazioni della realtà e costruisce il mondo da noi percepito, che è diverso da quello di ogni altra specie. Su questo apparato s’innesta in modo agevole e quasi anestetico (almeno in apparenza) la tecnologia informazionale, la quale prolunga l’evoluzione biologica in un'evoluzione biotecnologica, modificando le categorie della percezione e della cognizione e influendo anche sugli affetti.
Lungi dall’essere un fenomeno superficiale, la tecnologia incide dunque sul nostro modo di vedere il mondo e sulla nostra essenza cognitiva ed emotiva più intima. A questo proposito è esemplare il caso della televisione, che per molti costituisce un vero e proprio occhio sul mondo, fonte di informazione, intrattenimento ed emozioni (a prescindere dalla qualità). L’aspetto forse più limitativo del rapporto con la Tv è la sua unidirezionalità, temperata soltanto dall'uso del telecomando, che consente allo spettatore di ricavarsi un tracciato personale tra programmi di per sé rigidi. E' un inizio di interattività, che soddisfa, sia pure in modo embrionale, la profonda esigenza dialogica degli umani. La comunicazione è un fenomeno complesso, in cui si mescolano elementi naturali e convenzionali, sintattici e semantici, pragmatici ed emotivi. E' un'attività, quella comunicativa, intessuta di metafore, di significati empirici e di ambiguità che screziano e arricchiscono il puro scambio di informazioni, corredandolo di tutta una serie di valenze metacomunicative ed extracomunicative, senza le quali lo scambio si ridurrebbe a poco più di niente. La comunicazione si articola in codici più o meno flessibili, aperti in vario modo a interessi cognitivi, affettivi e collaborativi. Ed è proprio la volontà di collaborazione dei parlanti che ne costituisce forse l'aspetto più caratteristico e significativo: grazie a questa volontà e animati da essa, i dialoganti esplicano un controllo e un continuo aggiustamento dell'interazione, che porta alla condivisione di regole sempre diverse e alla costruzione di convergenze mutevoli, di volta in volta adatte agli scopi della comunicazione.
L'aspetto collaborativo della pratica linguistica (che secondo alcuni troverebbe un correlato fisiologico nei cosiddetti neuroni specchio) si esplica in una continua ridefinizione e reinterpretazione, da parte dei dialoganti, dei dati e delle relazioni, dati e relazioni che non sono solo interni alla lingua, ma anche esterni: per esempio la relazione tra gli stessi dialoganti. Emergono così le componenti extra-grammaticali ed extra-linguistiche della comunicazione, che è fatta non solo di informazioni scambiate ma anche, e soprattutto, di intenzioni e di progetti, di scopi e di aspirazioni che riguardano il mondo dei soggetti, cioè un contesto quanto mai ampio e articolato. Ed emerge anche l'idea, già espressa dagli antichi Stoici, che il pieno sviluppo delle caratteristiche umane, cognitive e non solo, avvenga grazie all'interazione sociale. Per questo è fondamentale che, per esempio, nella relazione tra docente e discente, si apra il canale della collaborazione empatica, dell’interesse affettivo e umano, della relazione personale, canale che è sempre bidirezionale, anche quando il discente tace: per quel canale empatico possono poi transitare tutte le informazioni, tutti i dati, tutte le nozioni. Se quel canale non si apre, non passa nulla.
E’ importante chiarire che ogni tecnologia è un filtro, che potenzia certe capacità umane e ne indebolisce altre. L’azione di filtro della tecnologia è evidentissima quando si ha a che fare con le macchine della mente e di fatto comporta un mutamento nella natura della comunicazione umana. La vasta gamma dei nostri strumenti comunicativi, sviluppati nel corso dell'evoluzione biologica e poi culturale, deve venire a patti con la relativa rigidità dei calcolatori e delle reti. Sono gli uomini, più flessibili, a doversi adattare alle macchine: quindi la comunicazione umana tende a somigliare a quella meccanica, tende a diventare più efficiente e meno sfumata, più logica e meno emotiva. Questo mutamento, pur temperato dalla flessibilità del digitale, potrebbe causare sofferenza, poiché l'eliminazione di certe caratteristiche comunicative “naturali” ad opera degli strumenti artificiali può essere avvertita come un impoverimento del ricco e articolato fenomeno della comunicazione umana.
Si può dunque capire quanto l’interazione tra uomo e computer, e ancor più quella tra bambino e computer, condizioni le abilità comunicative ereditarie e il loro sviluppo. Quando viene al mondo, il bambino è un centro comunicativo di enorme ricchezza non solo potenziale, ma anche attuale: già da piccolissimi i bambini imitano, si esprimono, fanno teatro e recitano fin dalla culla. Sono così perché hanno ereditato una capacità che per l’uomo è essenziale: la capacità di comunicare in tutte le sue variegate e delicatissime sfumature. In particolare sanno “mettersi nei panni dell’altro” e anticipare ciò che l’altro sta per dire o per fare.
Ma nel momento in cui i bambini si ibridano con la tecnologia, cosa che avviene sempre più precocemente, certe loro capacità comunicative ed espressive cominciano a essere filtrate e quindi, in qualche misura, vengono indebolite, mentre se ne arricchiscono altre. Il bambino che venga indirizzato al computer (o a qualunque altra tecnologia sottile e importante) diventa tutt’uno col computer e quindi non fa più ciò che faceva quando si ibridava, per esempio, con i libri. Questa vera e propria svolta epistemologica e pratica corrisponde a una trasformazione cerebrale che conferma la natura fondamentale della simbiosi uomo-tecnologia. Nei bambini che hanno un'interazione precoce con il calcolatore e con i videogiochi, le connessioni cerebrali si sviluppano in modo diverso rispetto ai bambini che esercitano un'attività di lettura e scrittura o un’attività corporea. Oggi nella scuola vengono a contatto due generazioni (gli insegnanti e gli allievi) che, per le loro diverse esperienze cognitive precoci, hanno strutture cerebrali diverse e perciò dialogano con grande difficoltà. Questa è, credo, una delle principali ragioni della crisi della scuola: non si tratta solo o tanto di programmi, di materie o, al limite, di attrezzature, quanto di difficoltà di interazione tra insegnanti e allievi: i giovani hanno una diversa visione del mondo, una diversa strumentazione linguistica, una diversa capacità manipolativa.
Poiché sono le caratteristiche cognitive e razionali del simbionte uomo-macchina (l'ibrido che altrove ho chiamato homo technologicus) quelle che oggi mutano più rapidamente, la nostra attenzione si concentra su di esse, tanto che è diffusa la tendenza a trascurare gli aspetti non razionali dell'intelligenza umana, in particolare quelli narrativi ed emotivi. Ma questa tendenza offre dell’intelligenza un quadro molto parziale. Se si trascurano le altre dimensioni dell’intelligenza umana, l’inevitabile confronto tra uomo e macchina si svolge sempre più sulla pista formale, dove ormai la macchina prevale, anzi costringe l’uomo ad abdicare: assistiamo infatti al paradosso che proprio nel momento in cui le attività razional-computanti tendono a prendere il sopravvento su quelle espressive, esse vengono di fatto delegate alla macchina, che le svolge meglio degli umani. I segni di questa abdicazione sono ormai evidenti: come possono testimoniare gli insegnanti di più lunga esperienza, le capacità computazionali, logiche e argomentative dei giovani subiscono un declino progressivo perché le elaborazioni logico-formali sono affidate sempre più spesso al computer.
Allora: da una parte le capacità logiche e argomentative s'indeboliscono, dall'altra le capacità narrative, dialogiche e in genere verbali si impoveriscono. In compenso si arricchisce enormemente la capacità d'interazione manipolativa con la macchina: i “nati digitali” manifestano un'abilità opportunistica senza pari nel piegare i dispositivi ai propri scopi, incuranti dei risvolti teorici delle elaborazioni e degli aspetti funzionali delle apparecchiature. Si fanno tutt'uno con i dispositivi digitali, li sentono come un prolungamento potenziante del proprio corpomente: non c' da stupirsi se gli adulti, nati con i libri e giustamente chiamati “immigrati digitali”, fanno una gran fatica non solo ad acquisire quelle capacità, ma anche a comprendere come i nati digitali si comportino e si sentano. Gli adulti tentano sempre di costruirsi un'immagine mentale (teorica) esplicativa delle macchine, dalla quale far discendere il loro rapporto con esse, mentre i giovani non ne sentono affatto il bisogno: il loro rapporto è immediato, primario, istintivo. (4-continua)
Da tempi antichissimi l'uomo descrive e interpreta il mondo servendosi della lingua, e tale è la suggestione di questo strumento che le sono stati conferiti attributi divini: nella tradizione giudaico-cristiana è con la parola che Dio crea il mondo. Si è finito col credere che la parola fosse più importante di ciò che dovrebbe descrivere: il segno ha preso il posto della cosa. Anzi, gli universi simbolici e rappresentativi creati dall'uomo tramite il linguaggio costituiscono un diaframma rispetto all'ambiente, dal quale ci siamo irrimediabilmente allontanati.
Nel corso dell'evoluzione, la comparsa del linguaggio verbale, profondamente innestato nella biologia umana e sua conseguenza inevitabile, ha portato a un ricablaggio totale dei circuiti neurali: un animale capace di linguaggio verbale non solo si esprime in modo diverso, ma percepisce, conosce, ragiona, ricorda e interagisce con il mondo in modo diverso. Inoltre la nuova macchina cognitiva si è trasformata in un congegno che obbliga alla rappresentazione categoriale e astratta, costringe allo sviluppo della tecnologia e genera valori, opinioni, credenze, religioni. Come si sa, questo potente strumento espressivo e comunicativo ha dato luogo all'accumulazione della cultura e allo strapotere adattativo dell'uomo, che in un tempo relativamente breve è diventato la specie migrante e dominante per eccellenza. La corsa febbrile che ci ha portato ad occupare ogni angolo del pianeta ha annullato la nostra capacità di speciazione biologica ma, per converso, ha favorito enormemente la pseudospeciazione culturale.
In tutto ciò è insito il rischio che sotto la spinta del simbolismo linguistico e del conseguente impulso tecnologico, l'uomo trasformi l'ambiente in modo da conseguire vantaggi immediati e momentanei, che alla lunga potrebbero rivelarsi vicoli ciechi disastrosi. E ciò, secondo molti osservatori, è quanto sta avvenendo: la spinta iperadattativa dovuta al linguaggio, alla cultura, al simbolismo e all'astrazione altera spazi e tempi del sistema complessivo, lo squilibra e ne compromette l'omeostasi.
Come si è detto, nella tradizione giudaico-cristiana la stupefacente capacità rappresentativa della parola ha fatto attribuire la creazione del mondo a un atto linguistico. Anche la radice greca della cultura occidentale ha attribuito un valore grandissimo al logos e ha nutrito l’ambizione di tradurre in parole (in simboli) tutta la sapienza, tutta la struttura, tutta la dinamica contenute nel mondo. Anche la nostra scienza, sulla scorta dei Greci, cerca di tradurre in descrizioni esplicite - linguistiche, simboliche, matematiche - ciò che è implicito nella realtà.
Ma il tentativo che la scienza compie di fornire un'immagine linguistica totale del mondo incappa nell'ostacolo tipico di ogni processo di traduzione, cioè l'incompletezza, tanto più insuperabile in quanto conosciamo poco o punto una delle lingue in gioco: la lingua del mondo. Nonostante la fiducia metafisica nutrita da Galileo che la natura sia un libro “scritto” in termini comprensibili e decodificabili dalla scienza, cioè in caratteri matematici (ma quali caratteri: i triangoli, i frattali o qualche mostruoso algoritmo?), la lingua del mondo resta ignota. Anche se vi sono forti ragioni di credere, con Eugene Wigner, che la matematica possegga una straordinaria per quanto “irragionevole efficacia nelle scienze naturali”, non possiamo tuttavia sottrarci all'impressione che la descrizione scientifica della realtà sia solo una nostra interpretazione.
La traduzione letteraria, che è certamente più facile perché vuole trasporre un testo da una lingua naturale a un'altra, rende manifesto che la fedeltà è impossibile. Ogni traduzione alla fin fine si rivela un'interpretazione, con tutte le limitazioni intrinseche dell'interpretazione, prima fra tutte quella di non essere mai “vera”, unica e definitiva. L'interpretazione è sempre rivedibile, perfettibile, modificabile, storica: e sono proprio questi, almeno in linea di principio, i caratteri della descrizione scientifica.
Parallelamente, a partire dall’epoca greca, l’Occidente ha considerato la mente (l’anima, lo spirito) superiore al corpo, fino ad esprimersi nella “stravagante” affermazione di Cartesio cogito ergo sum. Stante il legame inestricabile tra pensiero e parola, questo rapporto di subordinazione rispecchia la supposta subordinazione della realtà rispetto alla parola.
Certo non sono mancate le eccezioni, come emerge da questa citazione: “Due sono i libri che Dio ci ha consegnato: il libro della totalità delle creature, ovvero il libro della natura, e il libro della Sacra Scrittura.” Viene subito alla mente Galileo, ma la citazione è invece dal Liber creaturarum del catalano Ramon Sibiuda, rettore dell’Università di Tolosa nei primi decenni del Quattrocento, il quale predica l’indiscutibile superiorità del libro della natura rispetto a quello della Scrittura, cioè della realtà rispetto alla parola. Il libro della natura, afferma Sibiuda con un’arditezza che puzza di eresia, non è falsificabile, mentre la Scrittura, data all’uomo in un secondo tempo, può essere interpretata male. Dunque il reale è superiore alla sua descrizione. Ma Sibiuda è appunto un’eccezione: la nostra civiltà si è sviluppata nel culto della parola scritta e dei suoi supporti, in particolare del libro, sostenuta in questo dalla duplice tradizione del Verbo e del Logos.
La cultura verbale nutre sospetto e diffidenza nei confronti delle altre forme di comunicazione. A proposito delle immagini scrisse Goethe: “A che serve dominare la sensualità, coltivare l'intelletto, assicurare alla ragione la sua supremazia? La forza dell'immagine è in agguato [...] e riemerge con l'innata crudezza dei selvaggi che amano le smorfie”. Queste parole esprimono tutto il biasimo per le forme espressive che non siano quelle linguistiche.
Tanto importante è la parola che per insegnare la lettura e la scrittura, che sono le tecniche fondamentali per la trasmissione della cultura, cioè del mondo tout court, è stata istituita la scuola. (5 - continua)
Con una metafora audace ma fondata, si può affermare che la scuola è l’organo di riproduzione della società, poiché ne replica il sapere e le conoscenze. Essa tende a formare le nuove generazioni sulla falsariga di quelle precedenti, quindi, come tutti gli organi di riproduzione, la scuola è tendenzialmente conservatrice.
Questo carattere conservatore è una delle cause delle difficoltà che incontra oggi l'istituzione scolastica, immersa com'è in un contesto locale, nazionale e, soprattutto, mondiale che cambia rapidamente. È una sfida non da poco, perché da una parte è necessario adeguare la scuola al cambiamento, dall'altra si tratta di conservarne le caratteristiche più utili e preziose.
La scuola non può essere avulsa dal contesto che la circonda, quindi deve venire a patti con la società. Questo per due motivi essenziali: in primo luogo perché è la società che finanzia la scuola e poi perché la scuola non è più l’unica fonte del sapere, inteso non solo in senso istituzionale o canonico, ma in senso lato. Altre sono oggi le fonti a cui si abbeverano i giovani (e i meno giovani), in primo luogo Internet, ma anche la televisione, e la scuola non può non tenerne conto. I nuovi strumenti digitali condizionano il rapporto tra gli utenti e la realtà circostante, portando a una visione e a una descrizione del mondo nuove, che si discostano dalla linearità corrispondente alla visione linguistica per dirigersi verso l'ipertestualità e la multimedialità che trovano la loro epitome paradigmatica nella navigazione in Internet.
Cinema, televisione, fumetti, cellulari, Web, iPod, MP3, smartphone e via enumerando: i nuovi media comunicativi, rappresentativi ed espressivi interagiscono tra loro ibridandosi, contaminandosi e proliferando, partorendo di continuo novità piccole o grandi in una dinamica rapidissima (anzi accelerata). E' una superfetazione florida al limite del metastatico, cui corrisponde un crogiolo di sintassi e semantiche nuove e pulviscolari. In questa proteiforme varietà di media, linguaggi e narrazioni si esprime oggi una sorta di multimedialità di ritorno, cioè la multimedialità tecnologica. In essa pulsa un intreccio sfuggente e inafferrabile, fecondo e incontrollabile al margine del caos, che mostra in tutta la sua evidenza la sostanziale fluidità e arbitrarietà dei codici rappresentativi e comunicativi.
Sotto la spinta di queste innovazioni, si manifesta uno spostamento dalla logica, dal progetto razionale e gerarchico, dalla rigorosa rappresentazione geometrica e sequenziale, dalla severa sintassi di sapore classicheggiante e paludato verso forme (semi)anarchiche di bricolage linguistico, descrittivo, cognitivo e argomentativo. Alla traversata transatlantica, metafora del canone scolastico, si sostituisce il piccolo cabotaggio spicciolo e opportunistico, la navigazione a vista consentita, o imposta, dai nuovi media, che segue le sinuosità della costa e adotta espedienti improvvisati e stratagemmi locali, aprendo la strada a un sincretismo oggi audiovisivo, domani forse anche tattile, papillare e olfattivo, che si affianca alla comunicazione verbale per arricchirla e distorcerla, fecondarla e snaturarla.
Dietro questa brulicante trasformazione, a sostegno propulsivo, sta il bisogno insopprimibile dell’uomo di narrare, narrarsi e farsi narrare: una necessità atavica che si presenta oggi in forme nuove, sincretiche, composite, sorprendenti. L’umano si ibrida con le macchine per dar luogo a un “simbionte biotecnologico”, la distinzione tra naturale e artificiale sfuma fino a diventare arbitraria e problematica (si vedano le dispute sulla bioetica, in particolare sulle tecniche di procreazione), la cultura si frantuma a immagine e somiglianza della Rete, mosaico in cui tutte le tessere sono interessanti ma nessuna è fondamentale, in cui la paratassi sbaraglia l’ipotassi e il frammento narrativo prende il posto del grande romanzo.
Allo stesso tempo ci si rende conto che se narrare significa anche riprodurre l’esperienza esistenziale, cercandovi o trasfondendovi un significato, allora la narrazione non può prescindere dalle esperienze sensoriali non catturabili dalla parola: visioni, musiche, sogni, volti e profumi e morbidi contatti. E’ l’indicibile: e in fondo l’unica cosa di cui c’interesserebbe parlare è l’indicibile e non potendo ricorriamo ad altri canali, altre forme, altri mezzi. Nel lungo, tenace corteggiamento dell’indicibile non possiamo fare a meno delle parole, ma le parole non bastano: allora immagini, suoni, colori, fluttuazioni, smarrimenti sensoriali, estasi tattili e olfattive… La narrazione acquista così quella che è presumibile fosse la sua multiformità (o multimedialità) primitiva, a lungo imbrigliata nello stretto pertugio della parola. Non si tratta di rinunciare alla parola, del resto non potremmo, ma di allargare quel pertugio, recuperando, tra l’altro, le tante dimensioni non lineari del tempo. E’ come se si andasse verso una forma totale, inconcepibile e vertiginosa di teatro.
La comunicazione mediata dalla tecnologia sta assumendo un valore preponderante nella formazione identitaria, culturale e affettiva dei giovani “nati digitali”. Rispetto alla tendenziale seriosità della scuola, che spesso è percepita dallo studente come una greve imposizione di passività e di attenzione, i media sono vivaci, coloriti, invitano dolcemente alla pigrizia (la televisione) o al contrario stimolano tutti i sensi titillandoli con l’interattività e la multimedialità e ponendo l’individuo al centro del processo comunicativo e creativo (nel caso della rete e dei videogiochi). I media audiovisivi irrompono sulla scena, diventano strumenti di trasmissione culturale, di costruzione identitaria e di esercizio cognitivo e ludico, e fanno alla scuola una concorrenza assai sostenuta e spesso vincente. La scuola entra in crisi e arranca per mettersi al passo, sottoponendosi a un travaglio trasformativo dagli esiti molto incerti e comunque allontanandosi dalla tradizione.
Da una parte riconosciamo l’importanza fondamentale della tecnologia nella (tras)formazione della cultura, dell’epistemologia, delle emozioni, dei simboli, dei miti e delle nostre categorie mentali; dall’altra restiamo stupiti e sgomenti di fronte all’enormità delle prospettive, che non sono prive di aspetti problematici: la frantumazione della cultura tradizionale, l'impoverimento del lessico ai limiti della perdita, l'incoerenza argomentativa, il ritorno prepotente dell'immagine a scapito della lingua orale e scritta. La trasformazione cognitiva, tra l’altro, potrebbe avere l’effetto di distogliere i giovani dalla scienza intesa come metodo argomentativo e rigoroso per la costruzione di teorie.
Alla luce di questi cambiamenti, appare inevitabile una trasformazione della scuola, che si deve adeguare ai nuovi discenti, profondamente trasformati dalla tecnologia. In questo quadro, sono i docenti a dover affrontare i problemi più spinosi: da una parte vi sono i fautori di un ingresso rapido e incondizionato della mentalità digitale nella scuola, dall'altra si schierano i conservatori, che propendono per un processo d'integrazione più cauto e graduale, se non addirittura per un rifiuto aprioristico. (6 - continua)
I giovani della generazione digitale usano gli strumenti tecnologici con abilità e disinvoltura, ma questa confidente manipolazione si accompagna a una profonda incomprensione del mondo tecnologico: quasi tutti usano mezzi, sistemi e dispositivi di cui non conoscono affatto il funzionamento intimo, né vogliono conoscerlo, adottando così un atteggiamento di tipo “magico”. Per gli utenti più giovani i dispositivi sono importanti per ciò che consentono di fare, non di capire. Mentre la scienza affronta la complessità del mondo, cercando di dominarla e se possibile di ridurla, la tecnologia nasconde la complessità dei suoi prodotti sotto una superficie amichevole e invitante: gli strumenti rispondono alla pressione di pochi tasti con prestazioni mirabolanti che sembrano scaturire dal nulla. L'ibridazione uomo-macchina sta equiparando i dispositivi artificiali agli organi biologici, per cui il loro funzionamento è sceso di livello, passando dalla zona della consapevolezza cosciente e tendenzialmente razionale a quella dell'inconsapevolezza tipica dei meccanismi corporei. Ciò avviene nel quadro di una profonda mutazione della cultura e della conoscenza. Rispetto all’apprendimento tradizionale incarnato nelle forme libresche e teoriche della scuola classica, si rafforza l’apprendimento per imitazione, tipico della bottega rinascimentale.
Non intendo certo sbrogliare l'intricatissimo rapporto tra scienza e tecnologia, ma solo rilevare che oggi, soprattutto grazie all'impiego delle tecnologie informatiche e della simulazione, la nostra capacità di fare ha superato di molto la nostra capacità di capire e prevedere. La teoria, come momento fondante della conoscenza, ha perso via via importanza. E’ accaduto infatti che nella seconda metà del Novecento la velocità dello sviluppo tecnico ha superato quello della scienza e sono stati costruiti parecchi dispositivi e sistemi che funzionano più o meno bene, ma per i quali non esiste una teoria scientifica, in senso tradizionale, che ne spieghi il funzionamento (per esempio il software, Internet, le biotecnologie...). Nei confronti della descrizione, spiegazione e costruzione degli strumenti la funzione essenziale che, dai Greci in poi, le teorie hanno avuto nella cultura occidentale è sostituita da un atteggiamento pratico e manipolativo che procede per tentativi ed errori. Questo trapasso ha portato a una frammentazione della cultura che è rispecchiata nella struttura reticolare e musiva del Web. E ha portato anche a un calo di iscrizioni nelle facoltà scientifiche, ancora percepite come templi della teoria.
Da sistematica e organica, la cultura diviene pletorica e parcellizzata, si alimenta dell'enorme capacità delle banche di dati e dell'illimitata velocità degli elaboratori. Non più apprendere, dunque, ma documentarsi, non più studiare ma consultare, non più organizzare il sapere intorno a concetti e idee di fondo, ma accumulare dati relativi a parole chiave, passando con disinvoltura da una tessera all'altra dello sterminato mosaico del Web.
Questo passaggio per alcuni segna un declino del sapere e della cultura, per altri, all'opposto, rappresenta un progressivo affrancamento dalle pastoie di un’erudizione rigida e formale, incatenata agli stereotipi di un mondo immutabile, e un itinerario verso una feconda libertà creativa che in ogni istante genera novità e invenzioni al pari dei fertili processi biologici. Per costoro, insomma, la tecnologia consentirebbe la gratuita e sontuosa creatività del bricolage evolutivo, mentre la cultura tradizionale, in particolare la scienza, sarebbe munita di un affilato rasoio di Occam, pronto a recidere tutto ciò che la logica ritiene superfluo, sovrabbondante, eccedente. E in effetti l’abbondanza, presente in biologia con sfarzosa varietà, si riscontra in tutte le opere dell’uomo: arte, moda, gastronomia, architettura, letteratura e, appunto, tecnologia. Tranne che nella scienza, almeno tendenzialmente. Insomma, le differenze tra scienza e tecnologia non potrebbero essere più profonde, anche se molti usano con incauta leggerezza l'endiadi tecnoscienza.
Che fare dunque delle macchine e degli strumenti che la tecnologia ci offre con insistenza? Macchine sempre più economiche, potenti, veloci... Abbiamo davvero bisogno di tutta questa potenza? Chi ci insegna a sfruttarla? E’ una nostra aspirazione autentica, usare questi dispositivi, oppure c’è, sotto sotto, una spinta imitativa e concorrenziale, per non parlare della pressione commerciale e pubblicitaria? Oppure si può addirittura parlare di una necessità autonoma e irrefrenabile del sistema uomo-tecnologia? Nel caso della scuola, che è paradigmatico e centrale, alcuni insegnanti si arroccano in difesa, e aspettano stoicamente che il tempo passi per andare in pensione e uscire dall’arena, altri si gettano nella mischia cercando di fare con l’informatica, in modo goffo e faticoso, ciò che facevano meglio prima. Altri impiegano le risorse della tecnologia a mano a mano che ne sentono il bisogno o che ne scoprono i vantaggi. Intanto, i tecnofili, e i giovani digitali, non si pongono tante domande e proseguono indefessi nel loro piccolo cabotaggio, mantenendo un profilo basso e sfruttando tutte le opportunità per conseguire i loro traguardi. (7 – continua)
Siamo entrati nell'era digitale ed è nata una generazione di giovani che, formatisi sulle nuove tecnologie - computer, videogiochi, telefonini, internet - , le usano con grande disinvoltura e insieme con profonda indifferenza per i loro meccanismi profondi, attenti solo all’utilizzo opportunistico. Per indicare questa generazione digitale, Wim Veen e Ben Vrakking, rispettivamente professore e ricercatore all'Università di Delft, in Olanda, hanno coniato la locuzione Homo Zappiens, che ha un sapore antropologico benché in verità sia piuttosto sgraziata (si veda Wim Veen, Ben Vrakking, Homo Zappiens. Crescere nell'era digitale, Edizioni Idea, Roma, 2010).
I giovani Homo Zappiens (HZ) sono abilissimi nel gestire il potente flusso di informazioni che circola nei nuovi media, nell'intrecciare le comunicazioni faccia a faccia con quelle virtuali e nello sfruttare gli interlocutori connessi in rete per risolvere in modo collaborativo i loro problemi. Secondo Veen e Vrakking la generazione HZ sarà catalizzatrice e protagonista di cambiamenti essenziali nel nostro modo di vedere il mondo, di comunicare e di apprendere. In particolare, HZ indurrà una profonda metamorfosi nella scuola, che sarà obbligata a rinnovarsi e ad abbandonare la struttura tradizionale per la robusta concorrenza di Internet, protagonista di un incremento impressionante (e accattivante) dei flussi d'informazione, che per la vecchia generazione è un sovraccarico, ma che per HZ è un ricco giacimento nel quale reperire i dati di volta in volta utili. HZ apprende esplorando e giocando, cioè trasferendo le tecniche dei videogiochi a problemi di varia natura e impadronendosi di conoscenze che non fanno più parte di un canone scolastico fisso ma sono negoziabili e mutevoli a seconda del contesto e delle circostanze. Per Veen e Vrakking, questa capacità di apprendimento flessibile sarà utilissima a HZ nella società della conoscenza “liquida” che si profila, caratterizzata da indeterminatezza e instabilità, dall'apprendimento continuo e dalla necessità di imparare e disimparare rapidamente.
Il rapporto di HZ con la scuola è all’insegna di un tempo di attenzione breve, di un comportamento iperattivo, di un’indipendenza individualistica nel processo di apprendimento: queste caratteristiche fanno dello scolaro HZ un soggetto difficile ma stimolante, che richiede metodi di insegnamento nuovi e originali. Ed è la scuola che si deve adattare, sia perché è impensabile piegare i giovani digitali alle vecchie pratiche dell’insegnamento sia perché la società che si annuncia avrà bisogno di persone capaci di affrontare la complessità, la mutevolezza, l'adattamento e l'incertezza. Gli insegnanti sono sottoposti a una forte tensione pedagogica e relazionale, che deriva dalle diverse abitudini cognitive e attive rispetto a HZ e dalla diversa architettura cerebrale. I giovani digitali sono impazienti, vogliono immediatamente le risposte ai loro quesiti, non si concentrano per risolvere categorie di problemi, ma si gettano sul caso particolare passando subito oltre, non fanno mai una sola cosa alla volta, saltano da Internet alla Tv, dal cellulare all'iPod con una divisione di tempo vertiginosa che sfiora la simultaneità del multitasking. Mentre fanno i compiti ascoltano musica, gettano uno sguardo allo schermo Tv, inviano un sms e un messaggio e-mail a un “amico” appena conosciuto su Facebook, inseriscono il loro ultimo video in YouTube, e, davanti alla Tv, esercitano uno zapping ossessivo, apparentemente insensato, in realtà utile per estrarre il meglio da ciascun programma visitato.
Quella dei due autori olandesi è una visione utilitaristica, improntata all'efficienza e all'ottimismo tecnologico. Essi non sfiorano neppure i problemi etici e psicologici legati alla virtualizzazione di tutte le esperienze e della stessa realtà. Le tecnologie della mente sono viste soltanto come fautrici di nuove ed esaltanti possibilità cognitive. L'unico cenno problematico riguarda l'impigrimento di HZ, che tende ad esercitare solo la mente, a scapito del corpo.
Tutto ciò è il risultato dell'incontro precoce con una realtà “virtualizzata”, cioè filtrata dai dispositivi digitali, e con la possibilità di comunicare a costo nullo senza limiti spaziali. Armati di telecomando, mouse e cellulare, hanno il mondo a portata di clic, non conoscono i tempi lunghi della riflessione e ai libri e agli svaghi all'aria aperta preferiscono i videogiochi, anche i più violenti, senza imbarazzi morali. HZ non ama la tecnologia di per sé, bensì per ciò che può consentirgli di fare, dimostrando che la generazione digitale adotta un atteggiamento magico, strumentale e indifferente. Ma il protagonismo comunicativo di HZ può giungere fino a forme di autoreferenzialità e autismo tecnologico di cui parleremo in seguito: assuefazione, intossicazione, hikikomori.
Le caratteristiche di HZ segnano il passaggio da (una società e da) una scuola di massa a una scuola modellata sui singoli: non più programmi ed esami uguali per tutti, ma ampia libertà per ciascuno di ritagliarsi il proprio percorso di studi, da seguire con i tempi individuali; non più insegnanti ma tutori, cioè assistenti per superare i momenti di difficoltà; niente libri e niente compiti a casa. Verso questa concezione rivoluzionaria della scuola si stanno già orientando alcuni istituti olandesi, che indubbiamente costituiscono un esempio su cui riflettere.
Gli autori manifestano nei confronti di HZ un entusiasmo profetico, e non sembrano porsi il problema di come questi giovani affronteranno il sodo e indocile mondo reale che, nonostante le sue derive virtuali, è per il momento ben lungi dallo scomparire nelle pieghe del ciberspazio. Poiché HZ costituisce ancora una piccola minoranza, si pone il problema dei rapporti con la maggioranza non digitale. E poi: quali strutture di governo e conduzione potrà avere la società liquida (o ameboide) del futuro, gestita da questi liquidi digitalisti? E' un bell'esercizio di futurologia sociopolitica. (8-continua)
Il computer sta rivelando la sua vera vocazione: collegare tra loro gli umani, venendo incontro al loro desiderio ancestrale di sentirsi vicini tra loro. In cambio di questa protezione uterina, la tecnologia esige una delega sempre più spinta di funzioni, attività e capacità e una resa ai suoi allettamenti: tale è la gratificazione offerta che in nessun caso la tribù tecnologica rinuncia alla connessione, alla rapidità e alla moltiplicazione senza pari dei contatti. Si va in vacanza, ma non da Internet. La posta elettronica e le reti sociali come Facebook o Twitter estendono a dismisura la platea dei nostri corrispondenti, inebriandoci di ubiquità e distogliendoci dai rapporti a tutto tondo con i vicini di casa o d'ombrellone. Di fronte alle rarefatte relazioni virtuali, la pienezza, anche organolettica, dei contatti diretti comincia ad essere percepita come troppo coinvolgente, quasi minacciosa. E poi i vicini non ce li siamo scelti noi, abbiamo il diritto di rifiutarli per dedicare il nostro tempo agli amici lontani (“amici” che magari non abbiamo mai incontrato). Un’indagine recente ha rivelato che un quarto dei ragazzi italiani tra gli 11 e i 16 anni preferisce avere contatti via rete che faccia a faccia anche con gli amici che conosce di persona.
Lo schermo del computer è ormai il nostro (occhio sul) mondo: a questa ribalta si affaccia istantaneamente tutto lo scibile e chi sa cercare sul Web ha sempre meno bisogno di consultare enciclopedie, dizionari, regesti, lessici. Il progressivo trasferimento di migliaia di libri nella biblioteca digitale di Internet rende via via superflue le faticose ricerche nelle biblioteche tradizionali. Ma secondo alcuni la moltiplicazione senza limiti dei dati offerti provoca smarrimento e confusione e alimenta un mutamento epistemologico epocale: la cultura diviene frammentaria, si dispone per contiguità aleatorie, e soprattutto sopporta e ci abitua a sopportare le ambiguità e le contraddizioni. Anche le valutazioni in chiaroscuro che vado facendo qui partecipano di questa impostazione relativistica e anarcoide. Inoltre, per effetto della costruzione collettiva del sapere, il grado di precisione e affidabilità delle informazioni è molto variabile e difficile da verificare. Il concetto di autore, responsabile dei contenuti, evapora e con esso si stempera l'autorevolezza delle fonti. L'autore diventa un concetto collettivo, anzi tende sempre più a identificarsi con il Web, nuovo soggetto epistemologico e culturale.
Considerazioni analoghe si possono fare a proposito del rapporto tra i vari soggetti che comunicano tra loro attraverso la rete o i telefoni cellulari (anch’essi ormai integrati in rete). La rapidità e la vastità dei contatti si accompagnano a una volatilità effimera, a una prevalenza del contenuto sulla forma, a un'ansiosa superficialità alimentata anche dall'urgenza percepita di dare risposte immediate, in un crescendo di inviti e di sollecitazioni pressanti. Questo vorticare di messaggi, immagini e suoni coniuga sbrigatività, eccitazione e superficialità, che spesso impediscono di approfondire i rapporti, anche per il loro moltiplicarsi. Insomma la facilità della comunicazione sembra correlarsi a un suo deterioramento.
In base a considerazioni di questo tipo, molti guardano con occhi ostili alla posta elettronica, agli sms e soprattutto ai social networks, colpevoli di alimentare una concezione futile e collezionistica dell'amicizia, che ha come possibile risvolto delusioni cocenti e che non allevia la sostanziale solitudine di tanti giovani né li pone al riparo da violenze virtuali non meno atroci di quelle fisiche. Accanto alla svolta epistemologica e affettiva, la comunicazione virtuale configura anche una svolta semiologica: l'uomo dello schermo perde la capacità di esprimere e di interpretare il linguaggio del corpo, riducendo la comunicazione a un puro scambio di dati, senza il tradizionale involucro di metamessaggi che rende così calda e complessa la comunicazione umana.
Sullo sfondo di tutte queste trasformazioni, occasioni e difficoltà giganteggia il problema del tempo. Il tempo è davvero la risorsa fondamentale: non solo scandiamo nel tempo le nostre attività, percezioni e conoscenze, ma viviamo nel tempo. Il tempo è l'unico bene che non possiamo accrescere o dilatare o recuperare. Il tempo è irreversibile, quindi dobbiamo stare attenti a come l'impieghiamo. O viviamo la nostra vita o viviamo quella degli altri. O privilegiamo l'azione o privilegiamo la comunicazione e la raccolta dei dati. Possiamo fare entrambe le cose, naturalmente, ma il tempo è limitato e quello che dedichiamo a un'attività lo sottraiamo a un'altra. Se osserviamo e seguiamo le attività degli altri, siamo distolti dalle nostre attività, dal nostro tempo, dalla nostra vita.
Secondo la Commissione europea, gli italiani usano poco Internet: solo una minoranza di nostri connazionali vi si connette regolarmente e circa metà della popolazione non ha mai aperto una pagina Web. Per contro l'Italia resta prima nell'Europa e nel mondo per l'uso dei cellulari, la cui diffusione è del 152,2 %. Una ricerca Doxa dell'estate 2009 ci informa poi che il bagaglio dei vacanzieri è gremito di tecnologia: telecamere digitali, navigatori satellitari, iPod, computerini (gli onnipresenti cellulari invece stanno in tasca). E' il trionfo della realtà riprodotta, replicata, da immagazzinare in attesa di poter ri-vivere, ri-vedere, ri-ascoltare (chissà quando) esperienze che non si sono vissute pienamente perché subito filtrate dalla tecnologia. Ha ragione la Commissione europea oppure l'indagine Doxa? Forse entrambe: saranno minoranza, ma gli italiani tecnologizzati sono affetti da bulimia comunicativa. L'importante è avere la sensazione inebriante di non perdersi niente, di partecipare al grande gioco del mondo, di fluttuare nel ciberspazio legati da un salvifico cordone ombelicale alla placenta del Web, pronta a riversare in ciascuno immagini, musiche, notizie, in un tripudio di messaggi rapidi, spesso insignificanti ma rassicuranti, che ripetono le infinite variazioni di un solo mantra: sei collegato! Desideriamo essere connessi ininterrottamente per non essere esclusi dal grande gioco della comunicazione. Dobbiamo essere sempre raggiungibili, a disposizione di chiunque voglia farci una proposta, un invito o una segnalazione, darci o chiederci un suggerimento o una notizia, porci una domanda, mandarci un saluto.
Allo stesso tempo siano esposti a miriadi di messaggi in arrivo, la maggior parte indesiderati, che continuano a distoglierci da ciò che stiamo facendo. E' come se fossimo particelle sospese in un fluido e soggette all'aleatorietà del moto browniano: la comunicazione è frammentata e così il tempo, e il tessuto delle nostre relazioni è lacerato. Insomma, da una parte queste perturbazioni comunicative accrescono le nostre possibilità, dall'altra ci distruggono la concentrazione. (9-continua)
Si può presumere che in epoche preistoriche il contatto tra uomo e ambiente fosse ampio e diretto: passava per tutti i sensi senza essere filtrato, se non forse in minima parte, dalla mediazione della parola. Il corpo, con i suoi organi, costituiva un'interfaccia multimediale ante litteram. Invece nella nostra cultura il linguaggio verbale ha progressivamente occupato una posizione di assoluta preminenza, e rappresenta lo strumento principe della comunicazione e quindi dell’intelligenza.
L’intelligenza è da molti considerata una proprietà mentale che si manifesta nell'attività verbale, tanto che parecchi dei criteri proposti per verificare, o confutare, l'intelligenza delle macchine (da Alan Turing a John Searle) sono basati sulla parola scritta, come se l'intelligenza fosse un fenomeno soltanto linguistico, sintattico e simbolico, in particolare matematico. A conferma del primato dell'endiadi parola-pensiero, fin dall'epoca dei Greci i conflitti tra sensi e ragionamento sono stati risolti quasi sempre a favore del secondo, ignorando il fatto che l’evoluzione biologica ha condensato nel corpo un insostituibile valore di sopravvivenza, mentre la razionalità è frutto di un’evoluzione culturale assai più recente e meno collaudata.
Oggi il canale verbale (il quale, come tutti i canali, è un filtro) che collega sorgente e destinatario è stato affiancato da un robusto e flessibile (multi)canale tecnologico, basato sull’alfabeto digitale. Più vicino alla concretezza del corpo che all'astrattezza della mente, questo canale s'innesta sul corredo neurosensoriale degli esseri umani e modifica profondamente le loro capacità comunicative, espressive ed emotive. La tecnologia digitale propone un ritorno alla multimedialità: da una parte tenta un ripristino della globalità dell'accoppiamento cognitivo e sensoriale tra uomo e ambiente, mettendo in gioco non solo parole, ma anche immagini, suoni e quant’altro; dall'altra ripropone l'immediatezza che tale rapporto dovette avere nella prima fase della nostra storia filogenetica (e, aggiungo, ontogenetica).
Questo ritorno avviene con la mediazione di un linguaggio, cioè del codice binario: ci si può chiedere se questo filtro, che sostiene un processo di traduzione, non rischi di indebolire l’immediatezza e di comprimere e uniformare la variegata ricchezza della multimedialità originaria legata alla sensorialità corporea. Ma l'alfabeto digitale possiede una flessibilità senza limiti e la traduzione si situa a livelli molto profondi, che sfuggono alla percezione consapevole: quindi la povertà apparente della rappresentazione binaria è compensata dalla sua duttilità e non compromette la ricchezza delle modalità rappresentative consentite dai nuovi media.
Del resto anche in ambito fisiologico il codice che trasmette al cervello i dati sensoriali è piuttosto povero (anch'esso è digitale), ma consente una florida varietà di rappresentazioni (visiva, acustica, tattile, olfattiva…) tra loro coordinate e interagenti. Il codice binario si conferma l'intermediario universale di tutte le informazioni: si prospetta quindi un rigoglio senza precedenti della comunicazione mediata. Mentre le vecchie tecnologie analogiche limitavano drasticamente la ricchezza della comunicazione diretta, la tecnologia digitale restituisce spazio alle rappresentazioni iconiche e sonore, e i contatti interpersonali, non più solo verbali, si arricchiscono di sfumature e metamessaggi, avvicinandosi alla floridezza della comunicazione faccia a faccia.
La Tv, macchina degli affetti
Le macchine della mente sono vere e proprie psicotecnologie, capaci di insinuarsi in un sistema neuro-percettivo che sembra fatto apposta per accoglierle. Tra queste si segnala la televisione: l'ontogenesi ci rende sensibili al movimento, alle variazioni di luce e al suono (per il feto la madre suona come una cattedrale). La Tv si salda con la nostra unità di corpo e di mente creando una totalità inscindibile e potente e provocando effetti a medio e lungo termine di cui non si sa ancora molto.
Le polemiche che da tempo coinvolgono la Tv, specie rispetto all’infanzia, riguardano i contenuti, ma trascurano altri aspetti fondamentali, legati alla sua interazione dinamica con le pre-disposizioni affettive e relazionali dell’uomo.
La dipendenza e l’insicurezza di ogni essere umano lo spingono a intessere rapporti con gli altri, dedicando ed esigendo attenzione e cercandosi un ruolo visibile e riconosciuto. Ma la famiglia odierna ha proiettato l’impegno e l’attenzione all’esterno, specie verso l’ambiente di lavoro, e l’esiguo nucleo residuo è spesso il luogo del mutismo e della noia. Alla fine di una faticosa giornata abbiamo bisogno di una presenza accogliente e stabile, ma poco esigente: messi a dura prova dalla vita moderna, privati del rasserenante contatto con la natura, aneliamo a uno scambio semplice e non impegnativo.
La Tv, presentandosi in modo rassicurante, ripetitivo e “familiare” riesce a soddisfare in parte questi bisogni. Inoltre, a differenza di quanto accadeva nel villaggio di un tempo, oggi siamo (quasi) tutti invisibili e il rapporto vitale tra individuo e gruppo si è molto indebolito. La Tv ci restituisce una sorta di simil-relazione di gruppo e, contribuendo a quello che McLuhan ha chiamato appunto villaggio globale, ci dà l'illusione di una visibilità forte anche se riflessa. Proponendo ammiccanti eroi affettivi, luoghi del pettegolezzo e modelli di identità luccicanti e irraggiungibili - e tutto a costo nullo - essa ci proietta in un’irenica ciclicità, specchio di gratificazioni e d’investimenti affettivi.
Ampliando a dismisura le esperienze cognitive di ciascuno, la Tv abbatte poi le barriere di accesso alla conoscenza, per lo più spicciola e banalizzata, e ottunde la sensibilità al concetto di limite: il carattere trasgressivo di eventi e personaggi anche scabrosi o violenti viene pian piano normalizzato. Siamo così spinti alla democrazia e all'indulgenza, ma anche a una certa anarchia e fragilità, che possono portare all’anestesia etica e a scoppi di violenza.
Come nel caso dei videogiochi e di Internet, non è rara la confusione tra i livelli di realtà, che porta alcuni soggetti problematici a trasferire nella vita quotidiana atteggiamenti e azioni antisociali mutuati dalla finzione televisiva. L’enorme varietà degli usi personali cui la Tv si presta - che si possono riassumere in una sorta di regolazione affettiva e umorale - tra i quali rientra anche un recupero di quell’esperienza regressiva ma vivificante che è l’otium goduto nella placidità del puro esistere, la forte presa sull’organismo nel suo complesso, specie sul corpo, l’immediata cattura preconscia e affettiva connessa all’uso preponderante dell’immagine, tutto ciò nasconde effetti problematici, che col tempo si potrebbero tradurre in modifiche dell’architettura mentale ed emotiva e di cui dovremmo essere consapevoli. (10-continua)