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Due dati colpiscono nell'ecocatastrofe della Deepwater Horizon, la piattaforma della BP distrutta da una fiammata di gas e petrolio che dal 20 aprile continua a riversarsi nelle acque del Golfo del Messico: i 50-100 mila barili che ancora oggi, a due mesi di distanza dall'incidente, continuano a fuoriuscire dal pozzo aperto a 1.500 metri di profondità; i 20 miliardi di dollari che, sotto la pressione dell'Amministrazione statunitense, la BP ha finalmente depositato come fondo in vista dei risarcimenti alle cose e agli uomini colpiti. Cifre enormi, che tuttavia potrebbero essere riviste al rialzo fra non molto.

Tenuto nascosto nei primi giorni, minimizzato nelle settimane successive, quello della Deepwatetr Horizon è ormai certamente il più grave incidente petrolifero della storia USA. Dal 20 aprile, la macchia nera ha continuato ad allargarsi sotto gli occhi dei satelliti, arrivando a inizio giugno a coprire un'area di quasi 10 mila chilometri quadrati: otto volte la città di Roma, 50 volte Milano. Una pellicola soffocante ha coperto un quarto del Golfo del Messico, uccidendo pesci e uccelli, imbrattando irrimediabilmente spiagge e lagune, avvelenando interi ecosistemi.

Secondo gli esperti, ci vorranno anni per stilare un bilancio completo dei danni alla fauna e agli ecosistemi che si sta consumando a ridosso di una delle coste più pescose e ricche di biodiversità del mondo. In quell'arco di terra che va - per la parte statunitense - dal Texas alla Florida, si trovano infatti le più importanti aree umide e i parchi naturali degli Stati Uniti: paludi si avvicendano a foreste di mangrovie, dove hanno i loro habitat centinaia di specie rare. Dove nidificano aironi, sterne, gabbiani, mestoloni, pellicani. E dove la coltivazione di ostriche e la pesca di gamberetti, granchi e pesci d'ogni genere impiega un esercito di 250 mila pescatori, che ora tentano di salvare il salvabile mettendosi al servizio della Guardia costiera, ammassando sacchi di sabbia lungo centinaia di chilometri di spiagge, scogliere e lagune, una fragile trincea contro l'onda nera.

Una stupefacente catena di errori, superficialità e ritardi, sia da parte governativa sia della società BP, ha fatto balzare l'incidente del Deepwater Horizon in testa alla classifica dei disastri petroliferi statunitensi. Benché la quantità di petrolio misto a gas che fuoriesce da quella breccia a 1.500 metri sotto il mare sia ancora oggetto di dibattito, si sa per certo che l'incidente del 1989 della superpetroliera Exxon Valdez davanti alle coste dell'Alaska è stato ampiamente superato. Secondo il gruppo di tecnici che misura la fuoriuscita del flusso di petrolio dal pozzo esploso, ogni giorno vengono pompati in mare circa 50mila barili di greggio.  L'Agenzia federale per la salvaguardia dell'oceano e dell'atmosfera (Noaa) ha progressivamente vietato alla pesca industriale e amatoriale buona parte del Golfo del Messico, pari a 100 mila chilometri quadrati, con un danno economico stimabile intorno ai 3 miliardi di dollari. A questi vanno aggiunti 2,5 miliardi di dollari di mancati introiti dal turismo per le spiagge listate a lutto dal catrame. Le risorse mobilitate per le operazioni di contenimento dei danni e il tracollo degli ecosistemi marini e costieri si porteranno via altri 5 miliardi di dollari.

Ma il conto sarà più salato, poiché il disastro ecologico è appena agli inizi e si stenta a definirne i contorni. Il petrolio soffoca e avvelena, interferendo con le sue componenti più tossiche (come gli idrocarburi policiclici aromatici) nel ciclo vitale e riproduttivo di tutti gli organismi. E non è solo il petrolio a danneggiare l'ambiente. Anche le sostanze comunemente usate per contrastarlo possono essere altrettanto nocive. Per accelerare l'eliminazione del petrolio, oltre ad alcuni incendi pilotati, si è fatto un uso particolarmente intenso di solventi. Ma invece di ricorrere a sostanze di ultima generazione, la BP ha utilizzato vecchi solventi, prodotti guarda caso da una sua consociata, particolarmente tossici per piante e animali marini. Tanto che la direttrice dell'Agenzia di protezione ambientale statunitense (Epa) Lisa Jackson ha intimato alla società petrolifera di impiegare prodotti migliori e di limitarne l'uso allo stretto necessario.

Ai veleni si aggiungono poi altre minacce. Il clima, per esempio. Le acque dell'Atlantico, nei prossimi sei mesi non saranno per nulla tranquille: gli esperti della Noaa prevedono infatti una stagione molto attiva di uragani (ne sono attesi una decina da giugno a dicembre, con venti superiori ai 150 chilometri all'ora), che potrebbero far piovere tonnellate di petrolio, prelevato dal mare, sulle piantagioni e le aree naturali della terraferma. Gli uragani atlantici potrebbero anche infliggere danni alle numerose piattaforme e alle condutture dei campi petroliferi del Golfo del Messico, con ulteriori perdite di petrolio.

Bisognerà poi capire dove si dirigerà quell'enorme chiazza di greggio nei prossimi mesi. Robert Weisberg, dell'Università della Florida del Sud, prevede, per esempio, che la marea nera venga trasportata dalla corrente del Golfo fino all'arcipelago di isole coralline della Florida (il santuario marino delle Key) e oltre, al largo della Sud Carolina. Altri temono che il pennello di greggio si possa protendere fino allo Stato del Nord Carolina, in piena East Coast.

Preoccupa inoltre la quantità di greggio che ancora non è venuto in superficie: secondo le prospezioni eseguite nelle scorse settimane dalla nave Pelican, dell'Università del Mississippi del Sud, fra i mille e i 500 metri di profondità si troverebbero vere e proprie colonne di petrolio misto a gas naturale larghe decine di chilometri. Probabilmente a causa dei solventi riversati in grandi quantità dai tecnici della BP anche vicino alla perdita sottomarina, il petrolio sarebbe stato ridotto in molecole più piccole che ora restano in sospensione sotto la superficie del mare, contaminando con i suoi veleni pesci, zooplancton e coralli di profondità. C'è poi il rischio soffocamento. "Il petrolio sottomarino viene lentamente degradato da popolazioni di microbi, che per far ciò consumano ossigeno", spiega la biologa marina della nave Pelican Samantha Joye: "Infatti in corrispondenza di queste zone abbiamo trovato un deficit di ossigeno anche del 30 per cento, che può mettere in difficoltà questa straordinaria varietà di vita sottomarina, interferendo con la catena alimentare".

E dire che l'allarme era stato lanciato nel 2002 da un rapporto del National Research Council dedicato agli incidenti petroliferi. Troppo spesso le piattaforme sono ferrivecchi che difettano delle più elementari norme di sicurezza. Bisogna intervenire presto, si leggeva nel rapporto. Le agenzie federali, insieme alle industrie, devono minimizzare le probabilità di questo genere di incidenti, le cui conseguenze si faranno sentire per i secoli a venire. In particolare il rapporto si soffermava sulle prospezioni petrolifere a grandi profondità, dove una perdita di petrolio è difficilmente arginabile, e può fare danni spaventosi a un'ambiente marino prezioso, e in buona parte ancora inesplorato. Proprio quello che è successo nel Golfo del Messico.

Aggiornato rispetto all'articolo pubblicato da L'Espresso il 4 giugno 2010

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